La figura di Don Giovanni fa il suo ingresso nella letteratura e nel teatro europei intorno al 1630 - seppur già vi fossero state delle rappresentazioni negli anni precedenti - con la pubblicazione dell’opera teatrale El burlador de Sevilla y convidado de piedra (L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra), attribuita a Tirso de Molina. Il termine burlador in spagnolo permette una sfumatura più difficile da rendere in italiano: colui che inganna - la Real Academia Española puntualizza: far credere che una cosa falsa è vera - ma anche colui che seduce. In Don Giovanni l’attività di seduzione e inganno sono talmente intrecciate da essere indistinguibili: è un uomo senza limiti, di grande forza - «Tengo brio y corazón en las carnes» - che in qualche modo sfida le convenzioni della sua società, con una tendenza superomistica a rompere delle catene, beffando chiunque si trovi sulla sua strada, non solo gli uomini e le donne ma persino i morti.
È un’opera il cui significato iniziale era molto più religioso delle sue rappresentazioni successive (Tirso de Molina era un frate mercedario): Don Giovanni crede nella giustizia divina e pensa di potersi pentire pochi istanti prima della morte, in qualche modo ingannando anche quella, che vede molto lontana.
È Tirso de Molina a ricordare che non c’è scadenza che non arrivi, e non c’è debito che non si paghi: no hay plazo que no llegue ni deuda que no se pague.
Quando Monchi atterra a Roma, nell’aprile 2017, è un uomo circondato da un’aura leggendaria. Ha sfidato le convenzioni del calcio contemporaneo trasformando - con un lungo lavoro di quasi vent’anni - una società pressoché fallita come il Siviglia in una superpotenza europea, una sorta di Real Madrid dei poveri (con un dominio dell’Europa League senza precedenti).
Un uomo le cui qualità migliori riguardano la comunicazione e la negoziazione, ambiti in cui seduzione e inganno si rincorrono quotidianamente. La Roma doveva sostituire Walter Sabatini, grande demiurgo della nuova proprietà americana: Monchi venne presentato quasi in sua contrapposizione, come l’uomo del metodo rispetto al più sentimentale Sabatini, che se andò anche a causa dell’utilizzo sempre maggiore delle statistiche nelle attività di scouting («L’algoritmo di cui vado in cerca è l’algoritmo della vita») della Roma.
All’inizio del suo percorso romanista c’è già tutto il Monchi che vedremo nei successivi due anni: l’addio al Siviglia a stagione ancora in corso, la seduzione/inganno come metodo di comando, la prima fortissima decisione. C’è persino il primo acquisto simbolico, accompagnato dalla scelta di una comunicazione forte con cui costruire una barca che inevitabilmente affonderà.
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Seduzione e inganno
Il 24 aprile la squadra allenata da Luciano Spalletti deve giocare il posticipo del lunedì a Pescara: ma a sorpresa è Monchi a tenere banco, con la notizia del suo arrivo a Roma, e subito dopo si dirige proprio allo stadio, per vedere la vittoria della sua nuova squadra. Quella sera, la classifica vede la Roma al secondo posto con 75 punti, a distanza di 8 punti dalla Juve e a più 4 dal Napoli che insegue.
Nella sua conferenza stampa di presentazione, tenutasi il 3 maggio, Monchi annuncia con tranquillità una decisione epocale per la Roma: l’addio di Totti al calcio. Si tratta di una scelta presa già dalla società, ma che nessuno riesce ufficialmente ad annunciare: serve qualcuno che venga da fuori a prendersi una responsabilità così grande.
Monchi blandisce il capitano giallorosso, presentandosi come un mero esecutore di altrui volontà: «Ora voglio guardare avanti e chiedo che Francesco sia il più possibile vicino a me per aiutarmi a imparare cosa è la Roma, perché lui è la Roma. Gli chiedo che mi stia vicinissimo se lo vorrà e se riuscirò a imparare solo l’1% di quello che lui conosce della Roma mi potrò ritenere fortunato».
Questo colpo comunicativo ha permesso alla Roma di trasformare una decisione pesantissima in una normale, e a Monchi di presentarsi sia come caudillo senza paura, che come grande romanista.
In generale la comunicazione è un aspetto su cui Monchi ha sempre puntato molto, sia per veicolare un messaggio, sia per pubblicizzarsi come un vero e proprio brand: c’è addirittura un libro che descrive il cosiddetto metodo Monchi, nella versione italiana con introduzione di Francesco Totti e dal sottotitolo: "I segreti del Re Mida del calcio mondiale".
«El cartel es SE GANA».
Durante la presentazione, Monchi espone tutto il suo armamentario comunicativo (in spagnolo). Ci sono gli slogan, l’ormai celebre «la Roma non ha un cartello su cui è scritto si vende, ha un cartello in cui c‘è scritto si vince» con cui Monchi sarà per sempre ricordato dai tifosi, anche se come figura tragicomica.
C’è la seduzione: «I tifosi meritano di vedere i sogni realizzati e sono qui per aiutare a realizzarli. Col tempo mi conoscerete».
C’è la demagogia: «Crede che io sia venuto qui e abbia lasciato casa mia per non vincere?».
C’è l’egotismo (per Treccani, "consiste nel culto di sé e nel compiacimento narcisistico e raffinato della propria persona e delle proprie qualità"): «Se la Roma si è interessata a me è perché sono Monchi e qui sono sicuro che potrò lavorare essendo me stesso». Un concetto che sottolineerà spesso, sempre parlando di sé in terza persona.
Nei suoi due anni a Roma, Monchi si muoverà sempre lungo questo percorso comunicativo, molto complicato perché impone di rilanciare messaggi sempre più forti. All’inizio del suo primo ritiro, seguendo la sua verve da caudillo, mentre firma autografi, a un tifoso che gli chiede di “triturare la Juve”, Monchi risponde con un «Ci vediamo al Circo Massimo». Un commento ironico che gli verrà spesso rinfacciato (di cui infatti lo stesso DS andaluso ha riparlato nella conferenza di presentazione al Siviglia) ma che comunque denota la sua volontà di alzare le aspettative in qualsiasi situazione: un grande seduttore deve sempre giocare al rialzo, se vuole piacere a ogni persona, in ogni contesto.
Nel corso del tempo, il DS andaluso si presenterà a volte come razionale, a volte come passionale, arrivando persino a una fusione con: «Io sono un po' matto, sono imbevuto di bilardismo». Non si capisce mai quale sia il vero Monchi: quello che dice «Io sono fatto così, è il mio modo di lavorare, perché sono più tifoso che direttore sportivo. Mi piacerebbe essere più nella curva che nel palco» - tra l’altro: si riferisce davvero alla Roma o sta parlando del Siviglia? - oppure è quello che in un’intervista al Messaggero riesce addirittura a dire «Sono ambizioso, mi piacciono i fatti non le parole. La gente è stufa delle parole»? Il suo unico centro d’attenzione è se stesso: tutte le sue dichiarazioni sono imbevute di io, io, io.
Un capitolo a parte meriterebbe la strategia comunicativa di Monchi legata alla sua attività di compravendita: nella stessa conferenza citata sopra, dice che la Roma non è un supermercato, che ci sono zero possibilità che Rüdiger vada via (complice anche l'inaspettato fallimento della cessione di Manolas allo Zenit di San Pietroburgo) e che su Salah il prezzo lo avrebbe deciso la Roma. Pochi giorni dopo, invece, Rüdiger va al Chelsea per 35 milioni e Salah va al Liverpool per 42 + 8 milioni di bonus (il DS sarà poi costretto a complimentarsi con i Reds per l’affare fatto), e Monchi dirà che lo ha fatto per l’interesse della Roma.
L’anno successivo se ne uscirà con uno strepitoso: «Se partisse Alisson dovrei tornare a giocare io in porta: è più facile che resti lui», nonostante ci fosse una trattativa in corso da mesi. In un’altra occasione, Monchi sembra volersi giustificare: «E una volta dico che la Roma non è un supermercato e un'altra volta dico che se Alisson va via faccio io il portiere. Alcuni diranno: “Ma che ca**o va a dire questo DS?”, ma lo faccio perché penso che sia la cosa migliore per la società».
Ma Monchi non lo fa solo per quello, qui la seduzione si trasforma in inganno, e Monchi non può rinunciare a nessuno dei due, pur sapendo di costringersi così al pubblico ludibrio: non può semplicemente smentire, deve rilanciare, deve piacere.
Nel corso della seconda stagione in giallorosso, la comunicazione di Monchi diventa sempre più cupa e allo stesso tempo fideistica: non può permettersi di far crollare la narrazione eroica di se stesso. Dopo le cessioni di Nainggolan e Alisson capisce che i tifosi cominciano ad essere perplessi, e allora Monchi - durante la presentazione di Kluivert - risponde così: «Io sono arrivato qui per cercare di fare la squadra più forte possibile, non per un anno, ma per tanti anni. Sono convinto al 100% che ci riuscirò. Non al 99%, al 100%».
Monchi inizia a spazientirsi, sente che sta perdendo la fiducia dei tifosi - sente che non piace più, la sensazione peggiore per un seduttore - e allora comincia a battere sul tasto del tempo: «So che i tifosi sono stanchi delle parole e del bla, bla, bla. Roma non si è costruita in un solo giorno, io sono arrivato da 14 mesi, lasciatemi un po' di tempo. La squadra sarà più forte».
Monchi è un Direttore Sportivo e il suo lavoro è fatto di pianificazione, strategie, trattative: per quanto la comunicazione sia un aspetto importante del suo lavoro, non è quello principale. Anzi, è uno strumento al servizio della sua attività.
«Il problema non è vendere bene, ma comprare male»
Nel Don Giovanni di Mozart, su libretto di Lorenzo Da Ponte, il fido servitore Leporello ha un catalogo con la lista di donne sedotte in giro per il mondo: 640 in Italia, 1003 in Spagna, e così via. Per valutare il lavoro di Monchi, bisogna necessariamente tirare fuori il catalogo dei suoi acquisti.
Dal DS andaluso ci si aspettava che portasse una metodologia nella gestione della compravendita, e che riuscisse a mantenere alta la competitività della squadra pur dovendo ricorrere massicciamente al player trading: nessuno si poteva illudere sulle possibilità della Roma nel calciomercato.
La società giallorossa doveva generare plusvalenze e investire su nuovi giocatori in grado di mantenerla allo stesso livello competitivo: una strategia rischiosa ma che con Sabatini aveva portato i suoi frutti - e per questo era stato scelto Monchi, che ne aveva fatto un suo cavallo di battaglia a Siviglia.
La prima scelta tecnica di Monchi è quella dell’allenatore: si affida a Eusebio Di Francesco perché già conosce la città e la società, perché non ancora affermato e perché aveva determinato una crescita economica e sportiva al Sassuolo. Il metodo è palese, ed è l’unica situazione in cui si percepisce un barlume di umiltà: Monchi dice che con un DS straniero c’è bisogno di qualcuno che conosca bene il calcio italiano.
Effettivamente, il primo acquisto di Monchi è emblematico delle sue difficoltà nel comprendere al 100% il calcio italiano: il messicano Hector Moreno, arrivato dal PSV. Alla Roma serviva un difensore centrale mancino bravo nell’impostazione: ma la scelta cade su un giocatore di medio livello, che dopo 4 stagioni nella Liga all’Espanyol era ritornato in Olanda. Il suo fallimento è decretato da Di Francesco, che lo fa scendere in campo per soli 317 minuti, in cui Moreno non appare granché adatto a difendere in Serie A. A gennaio, quindi, la Roma lo vende alla Real Sociedad, una squadra che arriverà al 12° posto nella Liga.
Non contento, l’anno successivo Monchi replica esattamente la stessa tipologia di acquisto: arriva un centrale mancino, lo spagnolo Marcano. Un giocatore con quasi l’intera carriera fuori dalle 5 grandi leghe europee: da giovane nella Liga, e poi Olympiakos, Rubin Kazan, Porto. Anche lui dimostra di essere in difficoltà nell’aspetto più difensivo (in particolare nella marcatura e nell’utilizzo del corpo) e dopo aver giocato appena 460 minuti, sembra destinato alla cessione a gennaio, che poi non si concretizzerà.
Monchi ammetterà l’errore di comprensione del calcio italiano a gennaio del 2019, quando ormai è tardi, in un’intervista alla Gazzetta: «Il Monchi che è arrivato qui aveva una conoscenza indiretta del calcio italiano, oggi lo conosco meglio e ho capito che è più opportuno prendere giocatori italiani. Tra gli acquisti fatti, spesso quelli che sono andati meglio sono gli italiani. Non significa che trascurerò il mercato estero, ma la Roma sarà in futuro molto italiana».
Il grande mantra di Monchi è da sempre «Il problema non è vendere ma comprare male», e in effetti vendere non è stato mai un problema alla Roma, anche se per motivi diversi.
Il primo anno, Monchi si è trovato a gestire una situazione complessa: l’eliminazione della squadra ai preliminari di Champions aveva creato uno squilibrio dei conti, a lui è toccato riequilibrarli e così sono partiti 3 pezzi pregiati nella sessione estiva (Salah, Rüdiger, Paredes) e uno in quella invernale (Emerson Palmieri).
Tutti giocatori che, nella teoria di Wenger, ex manager dell’Arsenal, una squadra non dovrebbe mai vendere: giovani e con il picco di prestazioni prevedibilmente in un futuro prossimo (com’è stato per Salah). Tuttavia, Monchi è riuscito a sistemare i conti mantenendo la competitività della squadra, che era ciò che gli si chiedeva.
Nella seconda stagione, però, la rivoluzione della Roma non era più necessaria: sia per gli incassi della splendida cavalcata in Champions, sia perché i giallorossi avrebbero partecipato anche a quella successiva. Una furia iconoclasta che sembra voler distruggere il lavoro precedente, per trasformare la Roma in una creatura totalmente monchiana. Già a gennaio 2018 c’erano stati segni evidenti del tentativo di cancellare il lavoro di chi c’era stato prima di lui: prima gli abbocchi per la cessione di Nainggolan in Cina, poi quella che sembrava quasi fatta di Dzeko al Chelsea: incredibile che si potessero anche solo immaginare cessioni di questo calibro nella sessione invernale.
Nella sessione estiva quindi Monchi ha potuto davvero scatenarsi: oltre a Nainggolan e Alisson, anche una serie di operazioni minori, come quella di Skorupski (che non è detto che non avrebbe fatto comodo quest'anno); ma la cessione più strana rimane quella di Strootman, venduto dopo la chiusura del mercato italiano, e dopo aver giocato la prima partita da titolare a Torino - una cessione molto dolorosa nelle dinamiche di spogliatoio, e nel carisma, oltre che per l’apporto in campo.
La Roma non aveva bisogno in maniera specifica di quei 25 milioni più 3 di bonus, e forse è anche da quell’atto di hybris di Monchi che nasce la disfatta di questa stagione.
Qui comincia a capirsi che c’è qualcosa che non va: Monchi è troppo nervoso, sente di non riuscire più a sedurre. Ma è appena l’estate del 2018.
Comprare come?
Moreno, Karsdorp, Under, Pellegrini, Gonalons, Kolarov, Defrel, Schick, Marcano, Bianda, Fuzato, Mirante, Zaniolo, Cristante, Coric, Olsen, Santon, Kluivert, Pastore, Nzonzi: tutti gli acquisti a titolo definitivo di Monchi. Una lista in ordine sparso, che trasmette caos, in una strana commistione tra giovani rampanti, vecchi santoni e calciatori spremuti, promesse irrealizzabili e altre incredibili.
Nel suo primo anno alla Roma, Monchi riesce a incidere poco nella formazione titolare, pur partendo da quello che è un suo principio fondamentale: DS e allenatore devono fondersi in una sola unità, con il primo che deve fare di tutto per assecondare il secondo. «Il Direttore Sportivo deve essere uno strumento nelle mani dell’allenatore: se ti chiede un tavolino e gli porti una lampada, il fallimento sarà assicurato».
Di lampade, in effetti, Di Francesco ne vedrà ben troppe: la prima sessione di calciomercato di Monchi passa alla ricerca di un’ala mancina che consenta al tecnico abruzzese di giocare con il suo modulo di riferimento, il 4-3-3. Riyad Mahrez è il principale obiettivo, rincorso per tutta l’estate, fino a quando diventa chiaro che il Leicester non vuole accettare l’offerta della Roma, troppo bassa. A pochi giorni dalla fine del mercato, la Roma non ha un’ala mancina, ha un budget elevato a disposizione da poter spendere, e Monchi fa una di quelle cose che ha sempre sostenuto non si dovrebbero fare: panic buying, comprare tanto per comprare.
Si lancia così su Patrick Schick, in seguito definito come un’occasione, scartato dalla Juventus per problemi alle visite mediche, e su cui si è fiondata anche l’Inter. Il talento ceco viene da una stagione in cui ha mostrato grandi qualità, ma sostanzialmente giocando da riserva nella Sampdoria: a volte da trequartista, a volte da centravanti, a volte partendo più largo sulla fascia. Monchi si convince che Schick possa giocare esterno nel 4-3-3 del suo allenatore: non ci riuscirà mai, se non in una posizione ibrida, molto più vicina a quella di una doppia punta, vicino a Dzeko.
La Roma si impegna a sborsare in tutto 42 milioni di euro (con una sofisticata soluzione finanziaria), per un giocatore che fondamentalmente non le serve.
Nella sua prima sessione di mercato, Monchi impegna 107 milioni di euro (non si prende in considerazione la data dell’effettivo esborso) più 17,5 di bonus: solo Kolarov, Under e Pellegrini hanno per ora avuto una buona riuscita.
Nel calciomercato della seconda stagione, quella in cui Monchi ha carta bianca, riesce a fare peggio: il DS andaluso è ancora alla ricerca di un’ala mancina per il 4-3-3 di Di Francesco e si lancia all’inseguimento del brasiliano Malcom. Qui cade in una trappola del Bordeaux, che lo esporrà a una figura meschina (sua e anche della cinica squadra francese): c’è già il Barça sul giocatore, e i francesi arrivano ad un accordo con la Roma per spingere i catalani a farsi avanti.
Monchi non sospetta nulla, neppure quando dal Bordeaux arriva l’irritualissima richiesta di pubblicare un tweet di non-annuncio: la Roma conferma un accordo di massima, che in realtà è una sorta di ultimatum al Barcellona. I catalani rompono gli indugi e decidono di acquistare Malcom, proprio mentre questo stava per prendere l’aereo per Roma - nel frattempo era stata già allestita l’area per i tifosi a Ciampino, che aspettavano il nuovo acquisto.
In quel momento crolla il brand Monchi, un durissimo colpo per un DS che fa della narrazione di sé un punto forte, e che lo spinge a un altro momento di panic buying.
È successo davvero.
Dopo aver meditato a lungo, in qualche modo per dimostrare di non farsi prendere dall’irrazionalità, Monchi acquista Steven Nzonzi, che alla tenera età di 30 anni viene pagato 26 milioni più 4 di bonus. Un giocatore di ottimo livello, fresco campione del mondo con la Francia, ma la Roma in quel ruolo ha già De Rossi e Gonalons e non è chiaro quale dovrebbe essere il vantaggio tattico del nuovo acquisto.
L’ala mancina non arriva più, ma nel frattempo era già arrivato di tutto: la Roma impegna 127,5 milioni di euro + 24 di bonus per comprare ben 12 nuovi giocatori. Per sostituire Alisson, Monchi calpesta un altro dei suoi principi di mercato: non comprare giocatori che hanno disputato grandi Mondiali, perché un torneo così breve è un mondo a parte, non è indicativo e tende a gonfiare il prezzo di un giocatore. E acquista lo svedese Olsen, una carriera tra Svezia e Danimarca e un fallimento al greco Paok alle spalle.
La peggiore illusione del mercato della Roma, però, è il ritorno in Italia di Javier Pastore, acquistato nonostante i numerosi problemi fisici avuti al PSG - che hanno rovinato anche la sua stagione in giallorosso - addirittura per giocare da mezzala, al posto di Strootman: un’idea che col senno di poi lascia sbigottiti (e anche qui Monchi, a gennaio, riconosceva l’errore: «Al progetto di Pastore come mezzala ci credevo»).
Tra gli acquisti di secondo piano, quello di Ante Coric, mezzala-trequartista cerebrale e poco fisico, e a priori poco adatto ai principi di gioco dell’allenatore; e quello di Bianda, giovane difensore francese pagato 6 milioni + 5 di bonus per giocare nella Primavera (e qui l’errore non è detto sia l’acquisto, ma il suo utilizzo). Anche nella seconda stagione Monchi riesce nell’impresa di offrire a Di Francesco una rosa inadatta al suo 4-3-3, costringendolo a un raffazzonato 4-2-3-1.
A gennaio Monchi si è astenuto da qualunque operazione, sostenendo che nel mercato invernale si muovono le squadre che hanno sbagliato tanto in estate, non accorgendosi di essere palesemente in quella condizione: alla Roma servirebbe un difensore centrale come il pane, ma neppure l’umiliante 7-1 di Firenze scuote l’andaluso nelle sue convinzioni narcisistiche.
L’unico grande affare per cui verrà ricordato Monchi è quello con l’Inter: aver capito qual era il momento giusto per vendere Nainggolan, e aver ottenuto in cambio Zaniolo - anche se in molti nell'ambiente romano sostengono che i meriti vadano in gran parte a Frederic Massara, il suo vice, grande conoscitore dei settori giovanili italiani. Dicerie indimostrabili da fuori, ma che la dicono lunga su quanto è rimasto della credibilità di Monchi a Roma.
Tuttavia è vero che un lavoro di questo tipo andrebbe giudicato su un periodo più lungo, ad esempio quello di cui ha goduto Sabatini. Ma è Monchi ad essersi privato del tempo necessario: ancora una volta, con una decisione basata sul suo istinto narcisista.
Comfort zone
Prima di fuggire via, Monchi aveva ben presente la necessità di giudicare il suo lavoro nel tempo, ma sapeva anche che la sua immagine si stava logorando. A luglio del 2018 affermava: «Ho bisogno di un po' di tempo, perché, e insisto, sono arrivato 14 mesi fa [...] io ci metto sempre la faccia e sono convinto al 100%, poi se dopo uno o due anni non ho vinto niente prendo l'aereo e me ne vado».
Ma era ancora una comunicazione egotica, Monchi continuava ad essere troppo convinto di se stesso: ancora a dicembre, in un’intervista a Sky, sosteneva che alla fine avrebbe avuto ragione lui, perché era certo della qualità del suo lavoro. In questo, Monchi somiglia davvero a Don Giovanni: quando il suo fido servo Catalinón (che tradotto letteralmente significa “cacasotto”) lo invita a pentirsi prima che sia troppo tardi, il seduttore risponde: «Tan largo me lo fiàis!», una frase fatta spagnola che significa «che lunga scadenza mi dai», e nel caso in questione «c’è ancora tempo», non riuscendo a capire che la fine è dietro l’angolo.
Nella versione di Tirso de Molina, il Don Giovanni viene trascinato negli inferi dal convitato di pietra; nella versione giallorossa, Monchi viene trascinato nel baratro da Di Francesco. È assurdo che un DS si debba dimettere dopo l’esonero dell’allenatore: a fine novembre era stato lo stesso Monchi a dire che dimettersi a seguito di un eventuale esonero dell’allenatore sarebbe stata una follia.
Eppure se n’è andato, forse perché restare dopo l’esonero di Di Francesco lo avrebbe costretto ad essere il bersaglio numero uno, ad ammettere la sua fallibilità: ne avrebbe fatto crollare la narrazione. Oppure se n’è andato perché contrario all’esonero di Di Francesco, che ormai però non era più lucido e la gestione tattica di Porto ne è la conferma lampante, ed era impossibile non capirlo.
Resta il fatto che Monchi prese in mano una Roma davanti al Napoli e in due stagioni, in 64 partite di campionato, ha raccolto 29 punti in meno dell’avversario (per non parlare dei 46 punti in meno della Juve): in termini di risultati, l’unico grande appiglio dello spagnolo, e che appiglio, è la semifinale di Champions League, che ha forse reso più difficile comprendere il valore della rosa.
Ha preso una Roma seconda in classifica e l’ha lasciata quinta ma con prospettive negative: una squadra che non sa stare in campo in nessun modo, perché costruita male, in cui non c’è un sistema tattico in grado di coprire le falle. Che vanno da un centrocampo incredibilmente statico con De Rossi-Nzonzi-Cristante; a un portiere non all’altezza e incollato alla linea di porta, costringendo spesso una difesa inadeguata a collassare dentro l’area; a un attacco in cui spentosi Dzeko non rimane più nulla, se non qualche lampo di El Shaarawy.
Monchi lascia una Roma in macerie, da lui create con una rivoluzione senza senso: è davvero incredibile che di 12 giocatori acquistati solo uno abbia avuto un buon rendimento, tra l’altro il più imprevedibile, cioè Zaniolo. E non perché si tratti di pessimi giocatori, ma perché inadatti al contesto, in diverse gradazioni: alla Serie A, al gioco di Di Francesco, al compito che gli veniva chiesto di svolgere.
Il tweet con cui il Siviglia annuncia l’incredibile ritorno di Monchi, che se n’era andato dicendo di non potercela più fare dopo 29 anni nello stesso posto.
In una delle sue tante, troppe interviste, Monchi aveva detto di aver bisogno di tempo perché era la prima volta, dopo 29 anni a Siviglia, che usciva dalla sua comfort zone.
E forse è proprio questo il grande problema di Monchi: può davvero essere se stesso nell’unico posto in cui il suo brand ha un senso. Quel posto è Siviglia, casa sua, dove può essere narciso, passionale, demagogo senza che nessuno gli presenti mai il conto. L’unico posto in cui, dopo un fallimento del genere, sono disposti ad accoglierlo da trionfatore: il tweet che annuncia il ritorno di Monchi al Siviglia è degno di un grande acquisto (e va detto che dopo il suo addio i rojiblancos hanno vissuto una crisi manageriale-sportiva).
Nella conferenza stampa di (ri)presentazione, Monchi ha parlato della Roma come si parla di un Erasmus andato non troppo bene. Ha detto di aver commesso degli errori alla Roma dovuti alla sua mancanza di conoscenza del club, e ha spiegato il suo improvviso addio con una presunta divergenza di vedute con quel presidente, Pallotta, che fino a un paio di mesi prima gli garantiva invece la totale autonomia. Il presidente della Roma, a sua volta, ha assicurato di aver dato a Monchi pieni poteri, ma che questo non gli aveva presentato un piano B a novembre, quando le cosa hanno iniziato a scricchiolare.
Per sedurre nuovamente la sua storica tifoseria, si è lasciato andare a frasi che un professionista dovrebbe probabilmente risparmiarsi, come “questo è un giorno che speravo arrivasse il prima possibile” o “ero sevillista lavorando alla Roma 24 ore su 24, e adesso lo sono però lavorando per il Siviglia”, ed è ricorso a una metafora cinematografica per sostenere che farà ancora meglio di prima: “il Padrino II è stato migliore del Padrino I”. Un seduttore, come detto, deve sempre rilanciare.
E quando Monchi dice che non si pente di aver scelto la Roma - così come Don Giovanni non si pente neanche in punto di morte - dice la sua verità: è la Roma, sono i suoi tifosi, a pentirsi di essersi fatti sedurre e abbandonare.
Probabilmente il mistero di Monchi è racchiuso in questo ritorno alla comfort zone (nonostante ci fosse un forte interesse dell’Arsenal, allenato dal “suo” Emery - quello sì, sarebbe stato un percorso di crescita professionale): può essere uno dei più grandi dirigenti solo se può essere un grande seduttore, un ingannatore, un burlador.
Ma per un carattere del genere, forse è più corretta la frase che Tirso de Molina fa pronunciare al servo Catalinón: el que vive de burlar, burlado habrá de escapar.
Chi vive di inganni, prima o poi sarà ingannato.