La giornata che precede Serbia-Italia, giovedì 31 agosto, a Manila si è aperta con un’alba decisamente particolare. Alle 5.57 del mattino diversi telefoni cellulari in città si sono attivati con un’allerta meteo che preannunciava l’arrivo delle precipitazioni legate al tifone Goring. Dei quattro assistenti allenatori integranti lo staff azzurro, però, l’unico a svegliarsi per la notifica push del suo telefono è stato, dopo che la giornata precedente di lavoro era terminata soltanto un paio d’ore prima, Edoardo Casalone.
Piemontese, classe 1989, è colui il cui rapporto di lavoro con Gianmarco Pozzecco antecede l’ingresso nello staff tecnico azzurro. Casalone, infatti, è stato assistente del CT azzurro anche ai tempi della Dinamo Sassari, dove insieme hanno vinto la FIBA Europe Cup e la Supercoppa Italiana nel 2019. A integrare la “squadra nella squadra”, insieme al Senior Assistant Carlo Recalcati, ci sono Federico Fucà, 46enne bolognese con una lunga esperienza nelle prime categorie del basket italiano e da anni assistente allenatore a Reggio Emilia; Riccardo Fois, 36enne sardo che integra lo staff azzurro da EuroBasket 2017 e, dopo un passato tra Gonzaga e i Phoenix Suns, è oggi assistente di Tommy Lloyd ad Arizona; e infine Giuseppe “Peppe” Poeta, ritiratosi nell’estate 2022 dopo una lunga carriera da giocatore in Serie A e oggi parte integrante anche dello staff tecnico dell’Olimpia Milano.
In aggiunta a questo quartetto, anche la presenza di un Senior Assistant, Carlo Recalcati. Decano della nostra pallacanestro - e ultimo CT ad avere vinto una medaglia con la Nazionale, l’argento di Atene 2004 - svolge un ruolo soprattutto di confronto continuo con Pozzecco per la gestione del gruppo e di memoria storica, contribuendo a parte del processo di lavoro durante la partita e i momenti che la precedono.
«La proposta di Gianmarco, nata con entusiasmo e complicità, di unirmi a lui, insieme a quella di Messina a Milano, mi hanno dato la spinta ulteriore per decidere di smettere di giocare e di intraprendere questo nuovo percorso», dice Poeta, uno dei personaggi più amati e apprezzati del basket italiano degli ultimi anni. Abbiamo avuto la possibilità di trascorrere la giornata che precede la sfida crocevia del nostro Mondiale, il nuovo atto della rivalità con la Serbia, con lo staff tecnico che supporta Pozzecco per la seconda manifestazione consecutiva dopo l’esperienza di EuroBasket 2022.
Dall’allenamento mattutino a una lunga conversazione sul gruppo di lavoro, tra passioni e pallacanestro - giocata, vista, pensata - nelle ore che precedono la partita in cui «non vediamo l’ora di scendere in campo», per dirla con le parole di Riccardo Fois. «È un sogno che viviamo». Quello che segue è il racconto, tra quanto visto nel corso della giornata e discusso con i protagonisti che a breve vivranno la sfida dell’Araneta Coliseum.
L’importanza di fare gruppo
La vigilia azzurra è dominata dai rovesci torrenziali come conseguenza del tifone citato in precedenza. Arrivati di buon mattino alla PhilSports Arena - centro di allenamento designato per le nazionali che giocano all’Araneta Coliseum, data la vicinanza sia al campo da gioco che all’albergo delle squadre dei Gruppi A e B - gli azzurri hanno iniziato la loro classica routine, con i quattro assistenti a interfacciarsi ciascuno con un gruppo di giocatori prima dell’attivazione fisica e di una serie di esercizi col pallone.
Il confronto di Pozzecco con Casalone, Fois, Fucà e Poeta è continuo e costante, con i quattro assistenti a condurre (a coppie) uno degli esercizi più intensi della seduta. Due gruppi da sei - Fois e Fucà con Ricci, Datome, Tonut, Diouf, Pajola e Polonara; Casalone e Poeta con Severini, Melli, Fontecchio, Spissu, Spagnolo e Procida - con l’obiettivo di arrivare a quota 80 canestri complessivi (tiri da 3, lay-up, tiri dal mid-range) nello spazio di 3 minuti. Target raggiunto agevolmente, con il contatore che si ferma a 85, e il gruppo che suggerisce di alzare l’asticella per un nuovo blocco da tre minuti con obiettivo 90. Cifra raggiunta sulla sirena, grazie a un tiro dai 6 metri di Tonut.
Momenti che sono in grado di mostrare non solo l’affiatamento e l’ottimo clima del gruppo di giocatori, ma anche dello staff. «Qui trascorriamo insieme tra le 18 e le 19 ore al giorno», dice Casalone. «Ci sono delle cose che sono imprescindibili e una di queste è il rapporto tra di noi. Quando passi due mesi insieme o stai bene in generale, non solo lavorativamente, o fai fatica a vivere in simbiosi. Tutto nasce dalla volontà di Gianmarco di fare tutto insieme». «È una cosa che va allenata, come dice lui», aggiunge Poeta. «Ci vuole tolleranza, come in un rapporto di coppia. Tutto nasce da una chimica che c’era da prima».
«Nella vita di staff con il club questa vita la fai al massimo una settimana, quando sei in ritiro», si accoda Fucà. «Qui invece passiamo un mese e mezzo sempre insieme, viviamo veramente in simbiosi con un’energia e un’intensità viscerale. Qui si respira un’armonia reale: i giocatori percepiscono immediatamente se l’affiatamento tra i membri dello staff è reale o finto. La differenza qui, rispetto ad altri staff che ho vissuto, è che noi andiamo realmente in armonia. Tra noi non c’è cattiveria o invidia, è un aspetto incredibile».
L’armonia del gruppo azzurro è evidente anche dall’imperdibile podcast registrato dai due leader storici Melli e Datome in avvicinamento al Mondiale.
L’affiatamento e affinità elettiva tra i quattro allenatori che agiscono di concerto con Pozzecco non è da sottovalutare, dato il background diverso. «Lavoriamo tutti insieme, non abbiamo specializzazioni», dice Fois. «Cerchiamo di sommare le nostre culture cestistiche. Peppe è un ex giocatore, io ho una cultura più americana, Edo ha lavorato con Gianmarco da anni e Fede fa da 20 anni l’allenatore o l’assistente. Proviamo a fondere tutto insieme per vincere».
«Conosce tutti i giochi delle squadre italiane ed europee da 20 anni», Fois prosegue il concetto riferendosi a Fucà, «e in un attimo riconosce diverse situazioni che in America non ci sono. Ma lo stesso vale anche al contrario: non so quanti staff sono in grado di relazionarsi così». Poeta aggiunge un concetto chiave, su cui tutti e quattro concordano: «Siamo molto trasversali, grazie alle nostre esperienze. Ad esempio ho un background da giocatore che è quello più vicino a Gianmarco, nelle nostre riunioni provo a portare il suo pensiero, a immaginare cosa possa pensare di una nostra proposta».
Ad affinare i rapporti tra i componenti dello staff c’è anche l’extra campo. E per il gruppo che guida il gruppo azzurro, questo è soprattutto il padel. Ancora impossibilitati, a causa del meteo e dei tempi tecnici, a giocare una partita in uno dei momenti liberi a Manila, le sfide - tra Folgaria e Verona - dell’estate tra le coppie Pozzecco-Fucà e Casalone-Poeta (con Fois comunque spettatore partecipe e coinvolto) sono uno dei momenti cult del gruppo azzurro. «Non esiste un altro sport che ti dia un risultato così immediato la prima volta», dice Fucà, «che sia così inclusivo e aperto a tutte le età».
Dal generale al particolare e alla sintesi
La simbiosi e il continuo confronto operativo che abbiamo visto in precedenza, tra i quattro assistenti azzurri, porta a un confronto continuo che non è solo basato sulle idee, ma anche sulla sintesi da proporre prima a coach Pozzecco e poi alla squadra. Dopo l’allenamento, ogni giornata azzurra prevede anche momenti analitici con sessioni video e di confronto generale per analizzare l’avversaria di turno.
Un lavoro, però, che è preceduto dall’approfondimento fatto dal gruppo tecnico di supporto al CT. «A Pozzecco proviamo a portare un’idea di staff, invece di quattro punti diversi», dice Poeta. «È importante, per non confondere le cose. In riunione tra di noi, invece, ci confrontiamo su tutto per arrivare con dei piani». Gli fa eco Casalone: «Usciamo con una linea, la presentiamo a Gianmarco, la ridiscutiamo e poi la portiamo alla squadra».
I differenti step servono ad affinare il processo lavorativo e preparativo, per uno staff che non ha al suo interno delle divisioni per ambiti e settori come avviene in altri esempi. Nel coaching staff azzurro non vi è, per esempio, l’assistente dedicato alla difesa o quello dedicato all’attacco. C’è una conversazione collettiva tra i quattro, e l’entrata in gioco del capo allenatore in un secondo momento.
Da sinistra verso destra i “pupazzi”, come li ha soprannominati Pozzecco: Federico Fucà, Riccardo Fois, Peppe Poeta ed Edoardo Casalone. (Credit: FIP)
«Noi prepariamo il lavoro guardando alcune partite, tutti insieme», sostiene Poeta, «ma anche Pozzecco guarda la sua. Noi estrapoliamo la parte tattica, le difese e gli schemi. Lui guarda la big picture, e poi analizziamo le singole situazioni insieme». Fois aggiunge: «Gianmarco non è stato parte della discussione iniziale, e in un secondo tempo può arrivare con un suo punto, cosa che secondo me è bella e arricchente. Ci confrontiamo continuamente e lui è parte del processo».
È importante, per far filare al meglio una macchina lavorativa oliata e definita, anche la conoscenza di tutti gli elementi del roster: l’obiettivo finale è quello di arrivare a una sintesi, a una selezione di concetti. «Dal nostro lavoro riduciamo tanto, prima per portare all’allenatore una parte ridotta e poi per dare ai giocatori le chiavi per risolvere un problema che si può trovare dentro in campo», dice Casalone. «Bisogna conoscere ciò che l’allenatore si aspetta, e quindi avere una visione vicina alla sua, e poi conoscere i giocatori: se sai che uno ha necessità o desiderio di avere più informazioni, allora lo fai. Altrimenti potrebbe sentirsi sommerso».
«I giocatori più bravi riescono a processare 3-4 concetti», continua Poeta. «Se li fai pensare troppo c’è un dispendio di energie mentali. Se c’è bisogno possiamo prendere singolarmente alcuni giocatori. Edo lo spiega in generale e poi io, Peppe e Fede andiamo da alcuni in particolare. Condividendo qualche dettaglio su situazioni possibili, ma anche sulle caratteristiche del singolo giocatore e del possibile marcatore diretto».
«La grande differenza tra calcio e basket», afferma Fois, «è che da noi le partite non possono terminare 0-0. In entrambi gli sport ci sono delle scelte tattiche, ma nel calcio lo spettatore medio tende a notarle meno perché riconduce molto agli episodi che determinano il risultato. Nel basket due squadre più o meno dello stesso livello hanno nelle mani 70 punti in ogni partita: andare oltre quella soglia per farne di più o per concederne di meno fa parte di aspetti su cui andiamo a influire. Cerchiamo, nell’ambito della nostra idea comune, di fare delle scelte che pensiamo siano giuste: l’anno scorso spesso ci è andata bene, ma a volte anche eseguendo al meglio abbiamo perso. È qualcosa che sfugge allo spettatore occasionale, non è realistico pensare che gli altri non segnino mai da 3 o che non facciano schiacciate e lay-up».
Un momento importante di questo processo informativo, tra l’acquisizione dei dati - con la visione, dal vivo e in registrazione, delle partite integrali - e la condivisione dei risultati, è rappresentato dalle sessioni video. «Durano poco», dice Fois, «all’incirca sui 3 minuti e mezzo a clip. Ai giocatori cerchiamo di dare un’idea precisa, un’indicazione diretta il più possibile». «Nel momento storico in cui siamo», continua Casalone, «è importante essere diretti e dobbiamo adeguarci a questo modo di vivere e di comunicare. Il video non deve essere la proiezione di Ben Hur: se uno mette tutto si para il sedere, ma viene di 15 ore. La difficoltà sta nel provare ad asciugare tutto per non disperdere energie mentali».
«Un video di 4 minuti, poi, equivale a una riunione di almeno 15’», prosegue Poeta. «Un giorno facciamo gli individuali con le caratteristiche dei singoli avversari, dei punti deboli e sui giochi che la squadra fa per il singolo». Nell’esemplificare questo concetto, Fois ricorre a un esempio calcistico: «Se fai vedere una clip di Robben mostri come lui sulla destra fa la finta per rientrare sul sinistro. Noi mostriamo quello che vuole fare il Robben della situazione, poi ci sono le volte in cui va a destra ed è efficace, ma il focus principale è un altro. Prendiamo Bogdanović, il migliore della Serbia: cercheremo di fargli mettere di più la palla a terra, di non fargli prendere tiri in uscita dai blocchi, di farlo ragionare in situazioni fuori dalla sua comfort zone».
Quattro anni fa andò così.
Non tutto ciò che è parte dello studio e dell’analisi pre partita, tra l’altro, viene condiviso con gli atleti nelle ore antecedenti la palla a due. «C’è una parte di informazioni che non diamo alla squadra, che fa parte di eventuali piani B o C», dice Poeta. «Una particolare scelta, un determinato quintetto, un protagonista inatteso. Sono informazioni che possiamo dare in un timeout». Tutto deve girare al meglio, con la massima concentrazione, anche perché «ogni scelta può essere fatta in una frazione di secondo», dice Casalone. «Il lavoro che si fa la sera, alla vigilia, sta anche nell’organizzare mentalmente ciò che facciamo. Anche perché non puoi prevedere tutto ciò che accade durante i 40 minuti».
Pensare a un basket migliore
Proprio sui tempi di una partita emerge, nella diversità di conoscenze e abitudini durante le stagioni degli assistenti azzurri, una differenza rilevante nel lavoro di un allenatore. Quella legata ai timeout, ai momenti in cui si può fermare una partita per discutere un concetto. Da un lato Fois, con i minuti di sospensione più lunghi negli USA e anche i media timeout nel corso dei tempi di gioco, dall’altro gli altri tre abituati ai ritmi e alle regole del basket europeo. «I media timeout allungano la partita», dice Fois, «e la rendono di circa due ore come al college. Penso sia anche la durata perfetta per vederle dal vivo e in televisione, rispetto a una partita FIBA che dura tra l’ora e mezza e l’ora e quaranta minuti».
«Secondo me la cosa più difficile, che noto quando mi confronto con amici che allenano nazionali americane o canadesi, è che qui non hai un controllo della partita», continua l’assistente di Arizona. «Con i media timeout e i tuoi, negli USA hai la possibilità di controllare la partita, di cambiare le cose. Qui hai molti meno spazi e spesso devi chiamare minuto per interrompere un parziale. Poi, magari, di là in 10 minuti ne giochi solo uno, ma è una differenza rilevante».
Altro aspetto importante su cui gli assistenti azzurri si soffermano, nella ricerca di una visione più armoniosa della pallacanestro per nazionali, è il regolamento tecnico. L’esempio, uno dei più discussi in ambito FIBA, è quello delle infrazioni di passi e su un metro più o meno permissivo. «Credo non sia un problema di arbitri, ma di linguaggio comune da seguire», dice Fucà. «Con la Repubblica Dominicana avevamo fischietti europei, ma i passi agli americani non li fischiavano. In competizioni così hai tanti giocatori che vengono dalla NBA, bisogna decidere quali regole seguire e che siano uguali per tutti. Lo stesso movimento dello stesso giocatore in un possesso viene sanzionato e in quello successivo magari no. Dobbiamo metterci d’accordo e decidere».
«In 20 anni di carriera non ho mai incontrato qualcuno che abbia mai dubitato della buona fede degli arbitri, mai», prosegue Poeta. «Mi sono sempre messo nei loro panni: fanno il lavoro più difficile del mondo e un loro errore viene demonizzato o ingigantito molto più che per qualsiasi giocatore. Estrema solidarietà, ma il metro va chiarito».
Il più americano dei quattro, Fois, fa un esempio specifico relativo alla squadra più discussa sotto questo punto di vista, gli Stati Uniti: «Brandon Ingram sta un po’ faticando perché il suo movimento è jab e partenza a destra. In due partite gliel’hanno chiamato come infrazione di passi per sei volte: lui sicuramente va in difficoltà perché non si ritrova in quello che fa, fuori vedono un giocatore che in NBA è una stella e qui non può stare in campo. È una situazione complicata per tutti, se vogliamo fare crescere il basket serve trovare un linguaggio comune che permetta ai giocatori di diventare la migliore versione di loro stessi».
Oltre alle regole definite, i quattro allenatori rivolgono l’attenzione anche a una differenza spesso discussa: la possibilità di comunicare, o meno, con i direttori di gara durante gli incontri. Portando il suo punto di vista americano, Fois sottolinea come «lì a ogni timeout uno degli arbitri affianca la panchina mettendosi a disposizione per un confronto breve mentre l’allenatore parla alla squadra. Qui, invece, non si può parlare».
Anche negli ultimi anni il basket europeo ha previsto l’istituzione del Challenge, la chiamata da parte di un allenatore dell’Instant Replay per determinate situazioni di gioco. «Esiste per far sì che non vi siano dubbi su una chiamata», afferma Casalone. «Viene fatto, come ogni cosa, per far sì che il gioco e i giocatori si sentano tutelati, e che la partita si svolga nella massima regolarità. Per me però è sbagliato che in caso di chiamata non convertita si perda il diritto a chiedere una nuova revisione: io ho dato una mano alla partita permettendole di non avere un potenziale errore, perché non posso farlo nuovamente. Nello sport odierno la tecnologia può solo aiutare ed è importante non spezzare troppo il ritmo di una partita, ma perché non aiutare lo svolgimento?».
Con l’orologio che scorre e le ore alla palla a due di Manila che diventano sempre di meno, l’emozione di un appuntamento così importante è palpabile anche in uno staff giovane ma allo stesso tempo esperto. «La Nazionale è un sogno, e devi viverlo come tale», dice Casalone. «Un atleta veste la maglia del suo club per nove mesi, ma sogna sempre di vincere con la Nazionale, e per farlo devi stare bene. Un bambino vuole andare a Disneyland perché vuole incontrare i suoi personaggi preferiti. Quando un giocatore viene in azzurro vuole divertirsi, vivere delle emozioni».
«Ho giocato in nazionale per 10 anni ed è la sensazione più bella», aggiunge Poeta. «Tutti tifano per te, non ci sono divisioni. Non ho mai pensato, nemmeno per un secondo, di non venire. La Nazionale, come dice il presidente Petrucci, è un valore inestimabile. Ti lascia nella storia, è unica ed è un sogno che devi vivere con entusiasmo». Fois aggiunge: «La partita di oggi è un sogno, siamo tranquillissimi. Avete visto tutti la Serbia, è una delle nazionali favorite. Noi siamo una squadra orgogliosa, che gioca insieme e che ha vinto 15 delle ultime 18 partite. La nostra partita, il nostro sogno, è alzare l’asticella, far sì che la serie diventi 16 su 19, 17 su 20, puntare a una medaglia».
«È quello che ha fatto la Spagna nel tempo», Fois conclude con un esempio illustre. «Oggi è alla fine di quel percorso che nasce ad Atene 2004, quando vincono il girone della prima fase da primi in classifica, ma ai quarti beccano gli Stati Uniti ed escono. È una sliding door che poteva annientarli, e successivamente hanno perso in modo bruciante come il canestro di JR Holden o il Mondiale 2014. Ma hanno anche vinto tutto. Se devi giudicare 20 anni, da dove erano partiti a dove sono arrivati, hanno fatto passi da gigante. La prossima partita, per noi, è arrivare a quel punto lì».