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Il Qatar ha già vinto
22 nov 2022
Perché questo Mondiale rappresenta una vittoria politica per il regime di Doha.
(articolo)
15 min
(copertina)
Jun Qian ATPImages/Getty Images
(copertina) Jun Qian ATPImages/Getty Images
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Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche, in questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.

Il semplice numero di anni, dodici, non riesce a esprimere la quantità di Storia passata dall’assegnazione del Mondiale al suo inizio. Per dare un’idea più vivida di quanto è successo nel mondo da quel giorno è più utile utilizzare altri espedienti, per esempio pensare che il 2 dicembre del 2010, giorno in cui la FIFA ha ufficialmente consegnato i Mondiali al Qatar, il mondo non aveva ancora visto l’inizio della cosiddetta Primavera Araba. È un pezzo di storia gigantesco insomma e oggi che le discussioni su un eventuale boicottaggio sono al loro apice fa ancora più impressione pensare che in questi lunghi dodici anni il Qatar è stato a un passo dal diventare uno stato paria, e quindi probabilmente dal perdere il Mondiale, per ben due volte.

La prima volta è avvenuta intorno al 2014, durante l’espansione dello Stato Islamico, quando il Qatar venne accusato, e non da inchieste giornalistiche ma da molte potenze occidentali, di essere uno dei suoi principali sponsor. Proprio quell’anno, per esempio, il sottosegretario per il terrorismo e l’intelligence finanziaria del Tesoro americano accusò le autorità di Doha di aver permesso ai suoi finanziatori di vivere liberamente all’interno del proprio Paese. Le cose sembravano mettersi molto male per il Qatar quell’anno. In Egitto, dove a seguito della Primavera Araba aveva appoggiato la salita al potere dei Fratelli Musulmani, Doha aveva visto il loro leader, Mohamed Morsi, venire deposto da un colpo di stato con l’implicita approvazione degli Stati Uniti e dell’Europa, spaventati dall’esplosione del terrorismo islamico. Alla luce della successiva instaurazione della dittatura militare di al-Sisi assumono una sfumatura tragica le parole dell’ex presidente della FIFA, Sepp Blatter, che allora cercò di presentare l’assegnazione del Mondiale al Qatar come una vittoria per il «mondo arabo».

La seconda, più celebre, è avvenuta nel 2017. Il 5 giugno di quell’anno Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto interruppero le proprie relazioni diplomatiche con Doha, cercando di isolare il Qatar bloccandone i confini e le comunicazioni. È stata una crisi molto più grave di quanto ricordiamo. Le autorità di Doha hanno ammesso che si è arrivati vicini a un conflitto militare, e anche se quella prospettiva è stata alla fine scongiurata, bisogna ricordare che il confine con l’Arabia Saudita è l’unico collegamento terrestre che il Qatar ha con il resto del mondo (e in quel momento anche le vie aeree e marittime erano quasi del tutto bloccate). Insomma, il Qatar era isolato in un senso molto reale del termine ma dopo mesi di tensione è riuscito a uscirne più forte di prima, come si dice dei calciatori provenienti da un grave infortunio. E ai fini di questo pezzo è interessante capire come.

Qualche giorno fa su Play the Game è uscito un pezzo interessante. Al suo interno l’autore, Stanis Elsborg, riflette sul successo del termine sportwashing e su quanto in realtà sia riduttivo rispetto al reale potere politico dello sport. «Questo concetto è privo di sfumature cruciali nella comprensione del motivo per cui molti stati nazionali investono massicciamente nello sport», scrive Elsborg «Per paesi come Russia, Cina, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bielorussia e Arabia Saudita, lo sport è politica e fa parte di strategie nazionali orchestrate». Elsborg specifica che questo è vero non solo per gli stati autoritari elencati, ma anche per le democrazie occidentali. Da fuori, ovviamente, non è sempre facile intravedere queste strategie, ma nel caso specifico del Qatar non ci vogliono informazioni riservate per capire che l’assegnazione della Coppa del Mondo e gli investimenti nel calcio europeo (e in particolare nel PSG) siano stati due tra i principali fattori che hanno permesso al regime di Doha di uscire indenne dalle due crisi esistenziali che hanno segnato la sua storia negli ultimi dodici anni.

Ci sono due ragioni molto pratiche per cui questo è vero. La prima, più superficiale, è che il Qatar ha speso per questo Mondiale risorse economiche e umane davvero senza precedenti (si parla di una cifra che oscilla tra i 200 e i 300 miliardi di dollari, cioè almeno 20 volte di più di quanto speso dalla Russia nel 2018), e per quanto la Monarchia del Golfo abbia budget molto ampi è difficile pensare che si possa spendere una cifra simile per diventare il bersaglio numero uno della stampa occidentale quando si parla di diritti umani. Il Qatar non ha lavato la propria immagine attraverso questi Mondiali (questo sarebbe il significato letterale di sportwashing) ma al contrario si è messo nelle condizioni di far vedere a tutto il mondo la sua “sporcizia”, che nel caso specifico è il sistema di oppressione e sfruttamento disumano a cui sottopone i lavoratori migranti provenienti dall’Asia. Perché, quindi, il Qatar ha speso così tanto pur di ospitare il Mondiale? Cosa ci guadagna?

Per rispondere bisogna ritornare al blocco diplomatico promosso dall’Arabia Saudita nel 2017. Mettetevi per un attimo nei panni del governo di Riyadh (capisco che non sia la cosa più piacevole del mondo): come si fa a isolare del tutto un Paese che si appresta a ospitare il più grande evento sportivo del pianeta il cui senso è proprio quello di riunire tutto il mondo intorno a un unico torneo? La risposta, molto semplicemente, è che non è possibile, a meno che non gli si tolga quell’evento, il Mondiale per l’appunto. Non è un caso se è esattamente ciò che l’Arabia Saudita ha provato a fare al tempo, chiedendolo esplicitamente alla FIFA con l’accusa che il Qatar fosse diventato una “base per il terrorismo”.

La Coppa del Mondo, però, ha un valore simbolico troppo grande per essere revocata a cuor leggero (e infatti non è mai successo, a parte nel 1986 quando la Colombia si ritirò di sua spontanea volontà per problemi economici) e la FIFA, come ha scritto lo stesso Gianni Infantino pochi giorni fa, è perfettamente cosciente che «il calcio non vive nel vuoto». Questo significa che non agisce “di testa sua” ma, al contrario, segue la direzione delle relazioni politiche che la circondano. A questo proposito, quando si parla con indignazione di questo Mondiale bisognerebbe anche ricordarsi del sistema di relazioni che la monarchia del Golfo si è costruita per arrivarci, e che le radici di questo sistema affondano soprattutto in Europa.

È piuttosto noto, per esempio, che l’ingresso dei fondi del Qatar in Francia sia stato suggellato da un pranzo che avvenne all’Eliseo alla fine di novembre del 2010, a cui erano presenti Michel Platini, allora presidente della UEFA e in quanto tale membro del Comitato Esecutivo della FIFA (l’organo che fino a poco tempo fa decideva sulle candidature per il Mondiale); Nicolas Sarkozy, allora presidente della repubblica francese; e alcuni rappresentanti della famiglia reale del Qatar, tra cui lo sceicco Tamim Bin Hamad Al Thani.

Quell’incontro ha sancito l’ingresso in Francia degli investimenti della monarchia del Golfo per quanto riguarda il calcio (e in particolare il PSG, che sarà acquistato l’anno successivo), il suo mercato dei diritti televisivi (con l’ingresso in Francia, per la trasmissione delle partite della Ligue1 e della Champions League, di BeIN, il network sportivo di Al-Jazeera) e altri settori industriali (si dice che da quell’incontro nacque anche l’ordine del Qatar all’Airbus di 50 nuovi aeroplani per la sua flotta), oltre al probabile appoggio di Platini alla candidatura del Qatar per i Mondiali del 2022. Oltre a lui, c’erano altri sei membri europei nel Comitato Esecutivo della FIFA che ha votato per l’assegnazione dei Mondiali al Qatar (quindi poco meno di un terzo del totale, 22).

L'assegnazione di questo Mondiale al Qatar non è nata per caso, quindi, ma è stata il frutto di scelte politiche prese dai vari attori che compongono la FIFA, che molto spesso trascendono il calcio. Per quanto Infantino insista con le sue dichiarazioni megalomani nel volersi presentare come un ambasciatore del calcio e della pace, non è vero, come ha detto alla vigilia di questo Mondiale, che «qualsiasi Paese può ospitare un evento», e che, se volesse, potrebbe farlo anche la Corea del Nord. E questo non è vero non tanto perché la Corea del Nord è una feroce dittatura, cosa che alla FIFA come visto non interessa, ma perché non ci sarebbero le premesse politiche e diplomatiche per permetterlo. La Corea del Nord, al contrario del Qatar del 2010, del 2017 e di oggi, è uno stato paria. Come lo è, almeno per il mondo occidentale, anche la Russia, che la FIFA infatti non si è fatta troppi problemi ad espellere appena quattro anni dopo aver celebrato lì la sua competizione più importante.

Se durante la crisi con l’Arabia Saudita questo Mondiale in Qatar non è stato revocato, quindi, è perché il fronte per isolarlo a livello internazionale non era così ampio da giustificarlo, soprattutto nei posti che contavano. E se non era così ampio, o se non lo è diventato in quei mesi, una buona parte del merito è da imputare al Mondiale - alle relazioni che il Qatar si era costruito per arrivarci, e alla sua forza simbolica e politica, che permette di mantenerle salde nonostante le avversità. Insomma, non si va troppo lontani della verità dicendo che questa Coppa del Mondo ha salvato il Qatar, che i soldi spesi in questa “assicurazione” si siano rivelati ben spesi.

Alla luce di tutto questo diventa anche più chiaro il potere della FIFA, che nonostante tutto rimane la chiave per avere e (eventualmente) togliere un Mondiale. Un potere, come si può vedere, molto vasto e concreto, che permette al suo presidente di avere un senso di impunità tale da dichiarare di sentirsi «gay, arabo, lavoratore migrante, disabile» senza alcuna conseguenza. Infantino è stato talmente inebriato da questo potere da illudersi in questi anni di poter rovesciare il rapporto tra sport e politica.

Poco prima del calcio d’inizio del Mondiale ha preso un aereo per andare al G20, uno dei più grandi summit politici del mondo, e ha chiesto a Russia e Ucraina una tregua di un mese solo per la Coppa del Mondo. L’anno scorso aveva proposto di fare un Mondiale condiviso tra Israele e Palestina per risolvere il loro conflitto secolare. Nel 2017, per risolvere la crisi tra Qatar e Arabia Saudita, aveva cercato di anticipare l’espansione dei Mondiali a 36 squadre, chiedendo a Doha di condividere alcune delle partite con i vicini che gli stavano facendo la guerra.

Sul tema c'è anche questo episodio di Trame, il nostro podcast di sport e geopolitica.

Nessuna di queste proposte ha avuto successo, ovviamente, ma il fatto che Infantino ci abbia provato è comunque significativo di quanto la FIFA si senta potente, politicamente parlando. D’altra parte, il presidente svizzero non si sta inventando niente, e anzi è perfettamente in linea con i suoi due illustri predecessori, che hanno reso la FIFA la piovra che conosciamo oggi.

«Sono stato in Russia due volte, invitato dal presidente Eltsin, in Italia ho incontrato tre volte papa Giovanni Paolo II. Quando mi reco in Arabia Saudita, re Fahd mi accoglie in modo splendido. Pensa che un capo dello Stato dedicherebbe tutto questo tempo a chiunque? È rispetto. Loro detengono il loro potere e io ho il mio: il potere del calcio, che è il più grande che esista». Lo ha dichiarato Joao Havelange, poco prima di lasciare lo scettro a Sepp Blatter. Oggi queste parole risuonano mentre vediamo Infantino parlare da vecchio amico con Xi Jin Ping, qualcosa che per esempio il primo ministro canadese, Justin Trudeau, non può permettersi di fare.

È soprattutto grazie alla FIFA e al suo Mondiale che oggi la vittoria politica del Qatar sembra pressoché totale. Durante la cerimonia d’apertura lo sceicco Tamim bin Hamad Al Thani ha iniziato il suo discorso parlando a nome non solo del Qatar ma anche di tutto il «mondo arabo» (e questo nonostante gli arabi, in Qatar, siano una minoranza, rispetto alle comunità provenienti da India, Bangladesh, Nepal, Filippine, Pakistan e Sri Lanka). Dopo il suo discorso, dentro lo stadio al-Khor di Doha, al Thani ha accolto gli ex nemici che solo cinque anni fa volevano annientarlo: il presidente dell’Egitto, al-Sisi, il primo ministro degli Emirati, al-Maktoum, soprattutto il principe saudita, Mohammed bin Salman. La presenza ufficiale dell’Arabia Saudita è forse il segno più chiaro che la vittoria del Qatar non è solo diplomatica, ma anche, se così si può dire, ideologica.

Dopo il fallimento del blocco diplomatico del 2017, Riyadh ha deciso di seguire la strada già tracciata da Doha. Ha comprato una squadra in Europa (il Newcastle), ha investito massicciamente sugli eventi sportivi (persino sugli esports), soprattutto ha iniziato a pensare a una candidatura ufficiale per i Mondiali del 2030, insieme a Egitto e Grecia. La presenza surreale del Paese ellenico nella candidatura è una mossa intelligente (perché permetterebbe all’Arabia Saudita di ospitare il Mondiale nonostante la regola tacita che impedirebbe alla FIFA di portarlo per due volte nella stessa confederazione in otto anni) e svela un’altra volta l’ipocrisia dei Paesi europei nel loro rapporto con le monarchie del Golfo.

Federazioni come quella olandese, belga o danese l’anno scorso avevano promosso una vaga campagna di sensibilizzazione al rispetto dei diritti umani, ma sempre precisando di essere contrarie a un boicottaggio vero e proprio. Ciò che è peggio, però, è che questi Paesi abbiano provato a convincere le proprie opinioni pubbliche, giustamente preoccupate per ciò che succedeva in Qatar, che un loro passo indietro non avrebbe cambiato sostanzialmente niente, come se l’Europa non avesse alcun peso diplomatico.

Lo ha detto per esempio la premier danese Mette Frederiksen (secondo cui «la politica estera e il calcio dovrebbero essere separati»), ma anche in maniera ancora più esplicita Toni Kroos: «Qual è il punto di un boicottaggio? Migliorerebbe davvero le cose laggiù? Cambierebbe le condizioni di lavoro? Non penso». Davvero dobbiamo pensare che il boicottaggio di una Nazionale storica e potente come quella tedesca, non avrebbe avuto nessun effetto?

Dietro queste iniziative, l’Europa non solo ha seguito la propaganda ufficiale della FIFA e del Qatar, che voleva convincerci che il Mondiale fosse in fin dei conti una buona notizia per le condizioni dei lavoratori, ma ha anche cercato di appropriarsi dei suoi presunti meriti. Ad agosto dello scorso anno, per esempio, il segretario generale della federazione olandese, Gijs de Jong, durante una visita ufficiale a Doha ha dichiarato che «il Qatar ha fatto dei progressi negli ultimi tre anni e questo ha totalmente a che fare con la Coppa del Mondo».

Pochi giorni fa molte federazioni europee si sono congratulate con la FIFA e con il Qatar «per il progresso significativo» fatto su alcune loro proposte per i lavoratori migranti. L’Europa, insomma, ha di fatto avallato la crisis management aziendale del Qatar riguardo alle polemiche legate al Mondiale, finendo per essere umiliata dalla FIFA per ben due volte in pochi giorni.

Prima direttamente da Infantino, per cui gli europei «dovrebbero scusarsi per i prossimi tremila anni prima di dare lezioni morali alle persone». Poi dall’organizzazione, che ha minacciato di ammonire i capitani che avrebbero indossato la fascia One Love a sostegno della comunità LGBTQ+, costringendo le federazioni europee a una penosa marcia indietro (almeno per quanto riguarda Inghilterra e Galles, vedremo cosa faranno Germania e Danimarca, che un paio di giorni fa avevano dichiarato di voler indossare la fascia lo stesso).

Il fatto che l'Europa per questa battaglia non abbia voluto rischiare nemmeno un cartellino giallo è triste, ma è in linea con le decisioni prese finora. Com'è assolutamente in linea con la storia del calcio maschile, un ambiente in cui deve ancora arrivare un coming out di un giocatore di primo livello, il fatto che nessuno dei calciatori si sia nemmeno sognato di fare di testa propria, uscendo dai binari istituzionali. E per quanto un giocatore non sia in dovere di prendere posizioni politiche, come ha ricordato Klopp prima del Mondiale, fa impressione allo stesso tempo vedere membri della Nazionale iraniana non cantare l'inno, e poi prendere posizione in maniera molto netta in conferenza stampa rispetto a ciò che sta succedendo nel proprio Paese (e a proposito di contesto politico va ricordato che lo stanno facendo in Qatar, uno dei grandi alleati dell'Iran).

Forse è vero, quindi, che gli europei dovrebbero prima interrogarsi su sé stessi. E viene da chiedersi, a questo proposito, se dopo questi giorni le federazioni europee inizieranno finalmente a mettere in discussione le strategie messe in atto negli ultimi anni. È più probabile, però, non avranno molta libertà di manovra rispetto al contesto politico che ne ha plasmato le scelte fino ad adesso. Il Qatar, oggi, è un Paese politicamente centrale nel Medio Oriente e ha un potere così trasversale da potersi permettere di ospitare la più grande base militare statunitense di tutta la regione e al contempo la rappresentanza ufficiale dei talebani.

Con l’invasione russa dell’Ucraina e la crisi energetica che ne è seguita, poi, è diventato ancora più importante per le economie occidentali. Un diplomatico europeo, interpellato da Reuters in un pezzo che descrive il successo della strategia di soft power di Doha, ha esplicitamente dichiarato che i Paesi europei non possono più permettersi di rompere le loro relazioni con Paesi come il Qatar. In questo contesto prendere scelte coraggiose sarà quasi impossibile, tanto più dopo la pena del contrappasso subita a seguito del progetto Superlega, che ha messo il cuore del calcio europeo nelle mani di uno degli uomini della famiglia reale del Qatar.

L'anno prossimo la FIFA torna al voto per rinnovare il mandato del proprio presidente, e potrebbe essere una buona occasione per invertire la rotta se non fosse che molto probabilmente Gianni Infantino si presenterà senza alcun avversario.

In Europa per adesso l'unica federazione che ha fatto sapere di non voler appoggiare l'attuale presidente è quella tedesca, e anche se se ne dovessero unire altre sembra difficile al momento che la cosa possa sortire un qualche effetto. Forse è già tardi per evitare che Infantino ottenga un nuovo mandato, con tutto ciò che ne consegue (il Mondiale del 2030 in Arabia Saudita?).

Per l'Europa, invece, non è troppo tardi per capire che il calcio si può usare in modo politico anche per seguire piani meno cinici e più coerenti con le idee professate finora, almeno a parole.

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