È stato davvero il Mondiale dei calci piazzati?
di Alfredo Giacobbe
È stato davvero il Mondiale dei calci piazzati, o i nostri occhi ci stanno ingannando? Esplodere nel dettaglio i numeri delle reti realizzate ci permette di avere un quadro della situazione più chiaro.
In Russia sono stati segnati 169 gol, 73 di questi sono arrivati da situazione di palla inattiva, ovvero il 43% del totale. Nelle 3 precedenti edizioni della Coppa del Mondo sono stati segnati mediamente 151 gol, con una percentuale di reti da palla inattiva del 32%. Per fare un ulteriore paragone con la massima competizione per club, nell’ultima Champions League la percentuale di gol da “palla morta” è stata ancora più bassa (25%). Indubbiamente in questa edizione del Mondiale la percentuale di gol da palla inattiva è salita oltre le medie consuete, ma nel computo il contributo dei calci di rigore è tutt’altro che trascurabile.
Al Mondiale russo sono stati realizzati 22 calci di rigore, il 76% di quelli assegnati. La percentuale di conversione non è anomala, nei maggiori campionati europei si segnano normalmente 3 rigori su 4. Ad essere anomalo è il numero di rigori fischiati, ben 29: nelle precedenti 3 edizioni della Coppa del Mondo la media di rigori assegnati è stata di 15.
Si può addossare alla VAR, novità di questa edizione, la responsabilità del numero quasi doppio di fischi arbitrali da un’edizione all’altra? L’unico termine di paragone che abbiamo è rappresentato dalla Serie A e dalla Bundesliga, che hanno introdotto la video assistenza nell’ultima stagione. Al contrario di quello che si possa credere, in entrambi i campionati i rigori fischiati sono diminuiti rispetto alla stagione immediatamente precedente. Che i giocatori dei campionati in cui non è in uso la VAR si siano fatti cogliere per inesperienza più spesso in flagranza di reato è però un’ipotesi spericolata e difficile da dimostrare.
L’alto numero di calci di rigore ha ingannato la nostra percezione circa i gol del Mondiale. Togliendo le estreme punizioni, restano 51 gol da calci piazzati e l’impatto rispetto al totale scende così dal 41% al 30%. Nei 3 precedenti Mondiali le reti che sono state segnate da corner o da punizioni sono state il 25% del totale; all’ultimo Europeo hanno rappresentato il 26% dei gol segnati.
Una tale variazione positiva del 4-5% può definirsi sostanziale ma nella norma, lo sarebbe stata anche se fosse stata negativa della stessa entità. Anche perché in campo, a dire il vero, non si sono registrate grosse novità dal punto di vista tattico, tali da sovvertire i numeri. Per quanto riguarda le difese da calcio d’angolo, solo Brasile, Croazia, Danimarca, Germania e Islanda hanno adottato una pura difesa a zona; tutte le altre squadre hanno adottato un sistema misto, con alcuni uomini disposti a zona e i restanti dedicati alla marcatura degli avversari. Solo il Messico, e solo nella partita contro il Brasile, un avversario per niente temibile col pallone in aria, ha adottato un sistema di pure marcature a uomo, allo scopo di tenere in avanti il maggior numero di uomini pronti a scattare in contropiede. La scelta dell’uno o dell’altro sistema è comunque più filosofica che legata a specifiche convenienze.
Dal punto di vista offensivo, le nazionali hanno attaccato ciascuna secondo le proprie caratteristiche: le squadre con saltatori forti hanno mirato più spesso verso il secondo palo; quelle con minori risorse in aria hanno optato per giocare il pallone corto e provare a muovere le difese avversarie prima del cross. Anche qui però vale lo stesso discorso di prima, cioè non si registrano particolari novità tattiche.
Anche sulle punizioni indirette non si è visto altro che il consueto allineamento fuori area, con la linea degli ultimi sedici metri presa come riferimento. Sono stati invece segnati 7 gol direttamente su calcio di punizione, contro una media di circa 5 degli ultimi 3 Mondiali. Avvicinato, ma imbattuto, il record di segnature dell’edizione 2002: 9 gol su punizione.
Un discorso a parte va fatto solo per l’Inghilterra, che ha provato a portare in campo qualche novità. Nella difesa sui calci d’angolo, Southgate ha rispolverato l’uomo disposto sul palo (Trippier), una sorta di battitore libero alle spalle di un portiere non particolarmente alto. In fase offensiva, in particolar modo sui corner, l’Inghilterra ha provato più di uno schema. Quello più utilizzato prevedeva la partenza in fila indiana di tutti gli uomini portati in area, per impedire che un difensore prendesse in consegna il suo marcatore. Poco prima della battuta, solitamente diretta verso la testa di Maguire, gli attaccanti si aprivano a ventaglio per “pulire” la zona del dischetto dagli avversari e permettere lo stacco del difensore del Leicester. Southgate ha dichiarato di aver studiato il modo in cui le squadre NBA utilizzano i blocchi per liberare l’uomo al tiro. Uno sforzo apprezzabile, che ha pagato: l’Inghilterra ha realizzato 6 reti da calci piazzati, più di tutte.
Escludendo i rigori, quindi, questo Mondiale non ha rappresentato un punto di svolta per le marcature da calcio piazzato rispetto ai precedenti soprattutto dal punto di vista tattico. Forse però il fatto che molti match fondamentali siano stati decisi da un gol su calcio piazzato ha condizionato la nostra percezione. Dal punto di vista statistico c’è un’unica eccezionalità da rilevare: escludendo i rigori, il numero di marcature da piazzato nelle ultime 3 Champions League è stato percentualmente più basso, circa il 17% di tutte le reti realizzate.
Probabilmente per le situazioni da calcio piazzato vale l’inverso rispetto a quello che normalmente si dice per le fasi statiche di difesa e attacco. Per le squadre nazionali, con i loro giocatori che passano poco tempo insieme durante l’anno, è difficile organizzare una fase d’attacco efficace; mentre è più semplice organizzare una buona fase difensiva, soprattutto se la si organizza posizionalmente e attraverso un blocco basso a protezione dell’area di rigore. Per gli schemi su calcio piazzato deve valere l’inverso: è più semplice organizzare un buon attacco alla porta, cioè organizzare una serie di stratagemmi per liberare un uomo, piuttosto che difenderla.
Esiste un dominio del calcio europeo?
di Emiliano Battazzi
Dopo l’eliminazione nei quarti di finale delle uniche due squadre sudamericane superstiti, Brasile e Uruguay, è fortissima la tentazione di agitare con orgoglio il presunto dominio europeo sul calcio mondiale: di nuovo le prime 4 classificate appartengono all’UEFA, com’era accaduto nel 2006.
La proiezione di questo risultato a un livello più grande di quello temporaneo del Mondiale, però, rischia di essere ingannevole come la proiezione del cartografo fiammingo Gerhard Kremer, da noi chiamato Mercatore: nelle cui mappe, tuttora molto utilizzate, l’Europa risulta grande quanto il Sudamerica, che nella realtà è invece quasi il doppio per estensione territoriale.
Un po’ di numeri, partendo dal bersaglio grosso: nazionali sudamericane hanno vinto la Coppa del Mondo in 9 occasioni, contro le 12 volte delle squadre europee. Un sostanziale equilibrio.
Per 22 volte squadre sudamericane hanno raggiunto i primi 4 posti di un Mondiale, contro le 60 europee: e qui invece il dominio storico europeo è evidente. Ma sapete quante squadre appartenenti alla CONMEBOL, la federazione calcistica sudamericana, hanno partecipato all’ultimo Mondiale? Solo 5, contro le 14 europee. Un rapporto che è stato quasi sempre così squilibrato, in alcune occasioni persino peggiore. (2 vs 12 nel 1934, 1 vs 13 nel 1938, 2 vs 11 nel 1954). In un torneo che prevede una fase ad eliminazione diretta, è abbastanza facile capire che avere più squadre a disposizione comporta un vantaggio significativo. Con il mondiale a 48 squadre purtroppo la situazione non si riequilibrerà, visto che incredibilmente il numero di Nazionali sudamericane dovrebbe aumentare solo di un’unità.
Nelle uniche due occasioni in cui Nazionali sudamericane sono arrivate nei primi due posti, il rapporto era il seguente: 7 sudamericane vs 4 europee nel 1930; 5 sudamericane vs 6 europee nel 1950. In sostanza, nelle uniche due occasioni in cui il numero dei partecipanti delle due aree geografiche era simile.
Bisogna anche ricordare che la popolazione del Sudamerica è quasi la metà di quella europea (Russia e Turchia comprese), e questo si riflette sui numeri del calcio. Secondo il rapporto Fifa del 2006, il numero di giocatori maschi era pari a circa 25 milioni nell’area CONMEBOL, contro il i 55 milioni dell’area UEFA. Se consideriamo solo i giocatori maschi tesserati (cioè in qualche modo registrati presso società calcistiche), la sproporzione diventa incredibile: circa 4 milioni in Sudamerica contro i circa 21 dell’area UEFA.
A questo punto sembra persino strano che possa esserci un equilibrio nella distribuzione dei titoli mondiali: se l’anomalia è l’equilibrio, questi dati dimostrano la grande abilità storica del Sudamerica nel gioco del calcio.
Eppure, c’è qualcosa che non va nel calcio sudamericano e che non può essere negato. Dal 1982, in 10 edizioni dei Mondiali, solo in 8 occasioni squadre sudamericane sono riuscite ad arrivare tra le prime 4, contro le 14 delle precedenti 11 edizioni. Insomma, potrebbe esserci stato un punto di svolta nell’evoluzione dei due grandi blocchi calcistici.
Una possibile spiegazione è quella fornita dal Ct dell’Uruguay Oscar Tabarez, dopo la sconfitta contro la Francia: c’è un vantaggio europeo evidente a livello infrastrutturale ed economico. In Europa si gioca il torneo più competitivo del mondo del calcio, la Champions League: è chiaramente un fattore allenante positivo anche per giocatori di nazioni più piccole.
Dal minuto 2, la risposta quasi piccata del Maestro sulla domanda di un giornalista boliviano: la Bolivia non ha la potenza della Germania, e l’anomalia appunto è che il Sudamerica abbia avuto così tanti successi storicamente.
Per quanto riguarda l’altro fattore sottolineato da Tabarez, in effetti la distanza a livello economico è aumentata nel periodo di riferimento: nel 1950 il PIL pro capite di Argentina, Brasile, Cile e Uruguay era simile o più alto di quello di Italia, Portogallo e Spagna, mentre adesso è molto più basso (tra i fattori decisivi, anche l’integrazione economica europea).
Nel calcio, poi, questa differenza economica è ancora più grande: trattenere Pelè al Santos adesso sarebbe impossibile. Per adeguarsi al differente sviluppo economico, le squadre sudamericane si sono sostanzialmente trasformate in fabbriche di talenti: l’unico modello di business ritenuto sostenibile si basa ormai sull’esportazione di calciatori verso le squadre europee, e questo significa selezionare giovani giocatori soprattutto in base ad abilità più appariscenti, o in ruoli economicamente più attraenti (come l’incredibile produzione di attaccanti in Argentina, e la contemporanea sparizione di registi).
E in questo sta forse la più importante differenza con il modello europeo, in cui si sviluppa sempre più un approccio sistematico nei settori giovanili: la crescita del talento all’interno di un contesto, lo sviluppo di giocatori come nodi principali di un’intelligenza collettiva.
E forse non è un caso che il calciatore più forte del Sudamerica negli ultimi decenni, Messi, sia cresciuto calcisticamente (dai 13 anni) proprio secondo i principi del settore giovanile europeo più sistematizzato che esista: quello del Barça.
Si possono trovare ragioni contingenti anche legate all’evoluzione calcistica, certo: in un Mondiale iper-speculativo come quello appena terminato, basato sulla riduzione dell’errore, della fatica e del rischio, le squadre europee si sono trovate molto di più a loro agio, in parte anche “preparate” dall’Europeo del 2016, che per alcune dinamiche è stato molto simile. Ma è difficile dire che tatticamente il calcio sudamericano sia meno sviluppato, se pensiamo all’influenza di Bielsa e i suoi “seguaci” nel calcio europeo (o guardando al calcio latino nella sua interezza, anche l’influenza del calcio messicano sullo sviluppo dei principi di Guardiola).
Un’altra possibile spiegazione è quella del presidente della FIFA Infantino, che ne fa una questione di qualità dei giocatori, di cultura del lavoro e di attitudine professionale. Mentre quest’ultima valutazione sembra implicitamente basata su un approccio razzista (i sudamericani incapaci di essere professionisti seri: chiedere a Simeone, Batistuta, Cafu, Messi, ecc.), è vero che c’è bisogno di investire di più nella formazione, ma soprattutto investire meglio - e per questo bisogna anche migliorare le governance delle varie Federcalcio (quella argentina in particolare è stata simbolo di corruzione e inefficienza).
Il dominio del calcio europeo, insomma, è stato evidente in questo Mondiale, ma è difficile darne un’interpretazione più estensiva; e il generale equilibrio nelle vittorie rimane comunque un grande risultato per il Sudamerica, in netta inferiorità numerica sotto tutti i punti di vista. Il problema è capire le forze sottostanti ai risultati delle ultime 4 edizioni: se la differenza risiede davvero nello sviluppo sistematico dei settori giovanili europei, a confronto con quelli più market-oriented dei sudamericani, allora potremmo davvero trovarci davanti ad una frattura, capace di aumentare la differenza di successo.
Come si è attaccato ai Mondiali
di Fabio Barcellona
La percezione comune è che quello di Russia sia stato il Mondiale della prudenza. Le squadre con il progetto di gioco più ambizioso e propositivo, Spagna e Germania, sono state eliminate molto presto dal torneo, in maniera sorprendente, A trionfare è stata invece la Francia, con un atteggiamento tattico reattivo e focalizzato alla minimizzazione dei rischi.
Facciamo come se 64 partite, concentrate in un mese, di 32 nazionali, per loro natura squadre con poco tempo a disposizione per perfezionare le loro strategie, possano effettivamente darci delle indicazioni sulle tendenze tattiche nel mondo del calcio. Allora cosa ci racconterebbe questo Mondiale? E in particolare, come hanno scelto di attaccare le migliori nazionali del mondo?
Tra le grandi squadre, solo Spagna e Germania hanno provato a giocare un calcio basato sul possesso palla e la manipolazione della struttura difensiva avversaria. Tramite l’occupazione dell’ampiezza, la ricerca delle ricezioni negli half-spaces e la creazione di zone di superiorità posizionale e, perché no, tecnica.
La natura delle due squadre, attente ad attaccare partendo da una struttura definita e compatta, unita alla costante scelta degli avversari di difendere intasando gli spazi nella propria metà campo, ha definito la loro altezza sul campo. In un torneo in cui le squadre hanno tenuto un baricentro mediamente basso (50,3 metri), Spagna e Germania sono le due nazionali che hanno - di gran lunga - tenuto la posizione più avanzata (53 metri per la Germania, 52,5 della Spagna).
I maggiori problemi delle due squadre non sono stati però di natura offensiva: Spagna e Germania sono state rispettivamente la prima e la terza squadra per xG prodotti per 90 minuti, ma hanno sofferto, specie i tedeschi, in fase di transizione difensiva, concedendo occasioni ai contrattacchi avversari. La strategia offensiva, che portava tanti uomini sopra la linea del pallone e teneva la difesa alta e con tanto campo alle spalle, è stata pagata coi veloci contropiede avversari in spazi ampi. Hanno funzionato male le marcature preventive e, in genere, gli equilibri necessario da trovare, durante una fase offensiva così ambiziosa, per gestire al meglio la successiva fase di transizione dopo la perdita del pallone.
Spagna e Germania sono state le due squadre che hanno avuto la percentuale più alta di possesso palla (rispettivamente 69.2% e 65.3%), accompagnata dalla più alta precisione di passaggi. Ad esse può essere assimilata l’Argentina che, nella confusione tattica mostrata nel suo mondiale, ha comunque provato a giocare un calcio di possesso e pressing, tenendo alto il baricentro della squadra. I risultati sono stati deludenti, sia in termini di produzione offensiva (dodicesima squadra per xG prodotti tra le sedici giunte agli ottavi, nonostante i 6 gol segnati) che in termini di gestione, disastrosa, delle transizioni difensive.
In un’immaginaria fascia intermedia possono essere collocate squadre che hanno usato il possesso palla come tratto caratteristico della loro strategia, ma declinato, in maniera diversa e più prudente da quanto fatto da Spagna e Germania.
Brasile e Croazia hanno affrontato il tema della gestione delle transizioni difensive con maggiore cautela. La squadra di Tite ha, di fatto, cercato l’equilibrio grazie alla presenza di campo di Casemiro, sempre dietro alla linea del pallone e alla posizione di Paulinho che compensava, in fase di palleggio, la libertà concessa a Coutinho, per poi attaccare l’area solamente quando la palla giungeva nell’ultimo terzo di campo. Le possibilità di disordinare le difese avversarie erano affidate, più che alla struttura posizionale e a una circolazione del pallone mirata, all’estro dei suoi fuoriclasse. Questi erano capaci, da soli o in combinazione tra loro, di creare zone puntuali di superiorità tecnica. Il Brasile non disdegnava, quando possibile - in situazione di vantaggio nel punteggio - di attaccare in transizione, dove le capacità dei suoi fuoriclasse si sono spesso esaltate. L’equilibrio raggiunto è poi crollato di fronte all’assenza per squalifica di Casemiro e alle doti in campo aperto di Lukaku, De Bruyne e Hazard.
La Croazia ha invece utilizzato il possesso a scopi difensivi, tenendo il pallone tra i piedi più per evitare rischi che per creare pericoli. Per questo la struttura posizionale è stata sempre molto prudente, coi centrocampisti quasi sempre sotto la linea del pallone e l’attacco contro le difese schierate basato quasi esclusivamente sulle combinazioni esterne tra ala e terzino (è stata la seconda squadra del mondiale per cross effettuati per 90 minuti, 21,7). Preoccupata di proteggersi col possesso, la Croazia è stata efficace in fase d’attacco solo quando ha potuto giocare in transizione offensiva su spazi ampi (come contro l’Argentina) potendo dispiegare la velocità di Rebic e Perisic e la tecnica di Rakitic e Modric.
L’Inghilterra in fase offensiva ha adottato alcuni strumenti del gioco di posizione, come l’occupazione strategica e contemporanea dell’ampiezza e degli half-spaces e la costruzione paziente dal basso per di attirare il pressing avversario, liberando spazio alle spalle della pressione. Il gioco d’attacco è stato principalmente verticale e, dopo la fase di impostazione arretrata, si risolveva in una giocata verticale verso la zona alle spalle del centrocampo avversario. Il progetto tattico ha avuto un discreto successo, ma non è stato esente da difetti. La squadra non ha assorbito tutti i concetti da parte della squadra, apparsa spesso troppo rigida nell’applicazione della propria strategia e alla mancata implementazione di una continua fase di transizione difensiva volta al recupero veloce del pallone, necessaria per le caratteristiche dei giocatori e per la struttura posizionale adottata in possesso di palla.
Anche il Belgio ha scelto una strategia particolare e flessibile durante il suo Mondiale. Negli impegni contro squadre teoricamente più deboli, Panama, Tunisia e Giappone, Martinez ha proposto il 3-4-3 progettato e perfezionato nei due anni precedenti, con De Bruyne sulla linea dei centrocampisti e un gioco di possesso mirato a sfruttare con gli esterni l’ampiezza, gli half-spaces occupati da Hazard e Mertens, con Lukaku impegnato ad abbassare la linea difensiva avversaria. La partita con il Giappone, oltre alle enormi difficoltà mostrate in transizione difensiva, hanno però convinto Martinez a cambiare strategia contro il Brasile, abbassando la linea difensiva e, avanzando De Bruyne sulla linea degli attaccanti, sfruttando le transizioni in campo aperto dello stesso giocatore del City, accompagnato da Hazard e Lukaku. A quel punto si è visto il Belgio migliore.
Infine, un folto gruppo di nazionali ha scelto di preferire il controllo basso degli spazi in fase difensiva anche per potere attaccare in spazi ampi e con pochi uomini. L’esempio dei campioni del mondo della Francia è il più evidente, ma con caratteristiche tutte diverse, anche Russia, Svezia, Uruguay, Portogallo e Colombia hanno adottato strategie molto prudenti e un baricentro basso per proteggersi dai pericoli per poi attaccare utilizzando le transizioni offensive, declinate secondo le qualità di ognuna delle squadre.
Ampliando la sguardo al resto delle nazionali, gli esempi più distintivi vengono forse dal Messico, dal Marocco, dal Giappone, dall’Iran e dall’Arabia Saudita.
L’Iran ha esasperato il concetto di difesa bassa e compatta ed intasamento degli spazi arretrati, attaccando esclusivamente in ripartenza partendo da posizione particolarmente arretrata e facendo affidamento, per risalire il campo in maniera rapida, ai lanci lunghi verso il centravanti Azmoun. La squadra di Queiroz è quella che ha giocato meno passaggi di tutto il mondiale, la meno precisa (62.6%) ed ampiamente la prima per percentuale di palle lunghe (27%, la seconda, per avere un’idea, è stata l’Islanda con il 20,6%). Questa strategia, così estrema, ha portato l’Iran a un passo dalla qualificazione.
Dal lato opposto dello spettro c’è l’Arabia Saudita, la quarta squadra del mondiale per possesso palla (57%) e la quinta per precisione dei passaggi (86.2%) giocando un acerbo e fragile gioco di posizione. Anche il Giappone ha utilizzato diversi concetti del gioco di posizione per disordinare, col suo calcio ordinato e cerebrale, le difese avversarie.
Nel Marocco il CT Renard ha provato a far convivere i tanti giocatori offensivi a disposizione giocando un calcio offensivo basato sul possesso palla e la tecnica dei suoi giocatori. Infine, il Messico ha adottato invece una strategia mista, basata su una difesa aggressiva e sulle ripartenze, agevolate dalla posizione sempre avanzata dei suoi attaccanti che obbligava i difensori avversari a rimanere prudenti, ma, al contempo, costringeva la squadra a difendere quasi sempre con pochi uomini e in parità numerica.
È chiaro che uno sport continuo e con pochissime pause come il calcio, la strategia tattica complessiva influenza in maniera decisiva la maniera di attaccare di ogni squadra. Attacco e difesa sono collegati e dialogano continuamente tra loro. Le squadre che hanno provato a giocare un calcio offensivo, tenendo il pallone tra i piedi e il baricentro alto, hanno fallito. Più per la difficoltà nella gestione delle transizioni difensive che per problemi puramente offensivi. Invece, molte squadre, come la stessa Francia campione del mondo, hanno aggirato le loro difficoltà di costruzione e in transizione difensiva, limitando le occasioni in cui sono state costrette a giocare queste specifiche fasi di gioco, adottando un baricentro basso, consegnando volentieri il pallone agli avversari e attaccando velocemente e in maniera semplice, affidando alla strategia difensiva il compito di creare gli spazi per la successiva fase d’attacco.
I risultati lasciano pochi dubbi sul fatto che nel mondiale i risultati migliori sono stati ottenuti da approcci tattici prudenti ed attacchi scarni e diretti. La maggior parte delle squadre ha scelto questo approccio, anche se, come visto, non sono mancati esempi diametralmente opposti e diverse sfumature della medesima filosofia di fondo. L’indicazione più ragionevole che si può trarre è che in un torneo breve la difficoltà di costruire strategie di gioco complesse è amplificata dal poco tempo a disposizione e dall’impossibilità di effettuare anche un solo passo falso. Organizzare una difesa posizionale e un attacco veloce centrato sulle migliori caratteristiche dei propri calciatori è sembrato a molti allenatori la strada più realistica per ottenere i risultati migliori. E stavolta hanno avuto ragione.
I Mondiali hanno smesso di dirci qualcosa sullo stato del calcio?
di Daniele V. Morrone
A livello storico il Mondiale ha spesso rappresentato il picco del calcio, il torneo dove le migliori squadre e i migliori giocatori si riunivano per generare il migliore spettacolo. Chi vince supera la concorrenza più spietata nel palcoscenico più importante e quindi è considerato il migliore.
Non è più così per diversi motivi, ma rimaniamo comunque ancora affascinanti da quella bolla che si crea nella nostra vita per un mese, quando le partite scandiscono la nostra giornata. È forse un istinto umano quello di trarre conclusioni generali da eventi particolari, figuriamoci se quest’evento è una competizione che si gioca in ogni angolo del mondo ogni quattro anni. Da tempo però il Mondiale non è un buon giudice del livello attuale del calcio, non ne rappresenta insomma l’espressione massima. Si tratta di un torneo distaccato dalle normali dinamiche calcistiche per sua stessa natura: innanzitutto per la durata brevissima (7 partite in un mese per essere campioni), poi per la struttura stessa della competizione con un sorteggio che determina sin dall’inizio il percorso delle partecipanti e l’eliminazione diretta dopo un turno unico dagli ottavi. Per la natura stessa della competizione il fattore fortuna risulta determinante: trovare il sorteggio giusto, arrivare al massimo della forma in quel determinato mese, avere gli episodi giusti nelle partite.
Un tempo il Mondiale era la vetrina più affidabile per capire il valore di un giocatore e muoversi sul calciomercato. Ora è l’esatto opposto, Rory Smith sul New York Times riportava il giudizio di uno scout di una squadra di Premier League: «Se aspetti il Mondiale per prendere delle decisioni, non stai facendo abbastanza bene il tuo lavoro». Oggi con piattaforme come Wyscout possiamo vedere tutte le partite dei principali campionati del mondo, e abbiamo abbastanza materiale per poter conoscere tutte le caratteristiche di un giocatore. Solo sette partite non possono influenzare un’opinione formata. Anche i club un tempo più tradizionali nell’approccio agli acquisti, come il Real Madrid che prese James dopo il Mondiale del 2014, ora hanno imparato a trattare il Mondiale come il torneo chiuso che è. Un torneo bellissimo che cattura l’immaginazione di tutti, ma sempre un torneo a sé stante per i fattori descritti prima.
La sentenza Bosman ha causato una crescente disuguaglianza tra i club più ricchi e quelli più poveri. Nel calcio per nazionali, dove il mercato non è così aperto, la Bosman ha permesso invece l’aumento della competitività delle nazionali minori, proprio per la possibilità dei giocatori di questi paesi di spostarsi più facilmente.
Uno studio dell’economista Branko Milanovic affronta proprio l’effetto di ritorno nelle nazionali. Il presupposto è che mettere un buon giocatore accanto ad un altro buon giocatore porta entrambi a migliorare (per la teoria dei rendimenti crescenti). Allora più giocatori vengono in Europa, tornando poi a giocare con la loro Nazionale, maggiore è la crescita del livello della Nazionale stessa. Nel calcio delle nazionali quindi ormai le squadre con meno tradizione hanno avvicinato quelle più sviluppate. L’organizzazione difensiva ormai è ad uno standard generale alto (tranne qualche sporadica eccezione negativa) e il livello dei giocatori medi a sua volta è maggiore in comparazione col passato. Tutto questo spiega la nostra sensazione del sempre minore numero di squadre facili da battere per le grandi.
Un aspetto che in un Mondiale aumenta il fattore sorpresa e spiega perché in sostanza un singolo campione fa più difficoltà ad affrontare dominando una nazionale minore ora rispetto a trent’anni fa. I sistemi difensivi sono più organizzati e gli avversari hanno la possibilità di studiare meglio il singolo e la capacità di rendergli la vita più difficile.
Eppure in un Mondiale vogliamo comunque formulare giudizi definitivi sui singoli. Ma chiediamo quindi ad un singolo di imporsi in un torneo di un mese dovendo essere decisivo, con 60 partite sulle gambe alle spalle, una squadra che gioca per non perdere, un sistema con la palla non sviluppato come quello del club da cui proviene, con la possibilità di uscire per un errore del suo portiere. Per quanto affascinante sia il torneo, questo non può determinare giudizi definitivi. Si può parlare di miglior giocatore del Mondiale, ma il modo in cui i grandi giocatori giocano queste competizioni ha solo relativamente a che fare col loro livello assoluto.
Anche il rapporto tra approccio tattico e risultati, in un Mondiale, non ci dice molto su dove sta andando il calcio. Le nazionali non possono più rappresentare l’avanguardia tattica per loro stessa natura: si riuniscono qualche settimana prima del torneo e non hanno il tempo materiale per sviluppare i meccanismi rodati di una squadra che si allena insieme tutto l’anno.
Un allenatore oggi studia le 60 partite annue del Real Madrid più che le 7 della Francia. Soprattutto perché la Francia trova ispirazione dai club di appartenenza dei giocatori e non viceversa. Inoltre lo sviluppo delle squadre un tempo minori ha portato ad un livellamento del torneo in termini tattici, per cui diventa più facile giocare per non perdere che assumere dei rischi, con la possibilità di venire puniti dall’unico errore nei 90’. La fragilità degli equilibri in un Mondiali portano le squadre a voler minimizzare i rischi.
Il Mondiale è un torneo affascinante e bellissimo da vivere per spettatori e giocatori, ma la sua struttura non permette di farne un banco di prova in grado di formare giudizi in termini generali nel 2018. Il Mondiale non rappresenta dove sta andando il calcio ma ne è solo un riflesso peculiare, visto attraverso le lenti di un torneo molto specifico. Non è neanche in grado di dirci quale giocatore è il migliore al mondo perché il percorso per arrivare a vincerlo è troppo influenzato dalla fortuna e dai singoli episodi.