A me piace arrivare a fine festa con gli occhi ancora aperti.
Quando tutti stanno già dormendo, io continuo a osservarli attentamente.
(German Burgos)
Il momento più difficile della vita del Mono Burgos arrivò pochi minuti prima di entrare in sala operatoria, un sabato del marzo 2003, per la rimozione di un tumore maligno al rene sinistro – quello destro, in compenso, era atrofizzato fin dalla nascita per un difetto congenito. Ottimista di natura, aveva assorbito bene lo shock della notizia che lo aveva colto impreparato a soli 33 anni, in piena attività. Aveva chiesto di rimandare il ricovero di qualche giorno, perché prima voleva giocare l'ultima partita di campionato contro il Mallorca; i medici dell'Atletico e l'allenatore Luis Aragones gli avevano fatto capire che era meglio di no. Di quella mattina ricorda, come tutti, la preoccupazione di amici e familiari, le luci bianche sul soffitto, gli istanti immediatamente precedenti all'anestesia, l'affastellarsi di tante facce sconosciute sopra e attorno a lui; ma soprattutto quell'infermiere che, pensando di essere simpatico, si avvicinò e gli disse: «Guarda che il chirurgo che sta per operarti tifa per il Real».
Per Germán Adrián Ramón Burgos (le sue quattro iniziali le ha tatuate sulle nocche della mano destra) il calcio è soluzione e risposta a ogni dilemma, dall'esistenza di Dio a cosa fare in un pomeriggio di pioggia a Mar del Plata. Nulla su cui stare troppo a riflettere, intendiamoci, dal momento che è sempre meglio farsi trascinare dall'istinto, che nel suo caso si trasforma in azione fatta di riflessi folgoranti e gag fulminanti, sia verbali che visive, come lo sguardo con cui ha incenerito un petulante Julen Lopetegui senza neanche aprire bocca, solo mascherando sgangheratamente la cicca (lo si vede a 1:20 del video qui sotto).
Nello stemma dell'Atletico Madrid campeggia l'Orso che fruga in cerca di bacche in cima a un alto corbezzolo, che è anche il simbolo della capitale spagnola. Truce, alto e massiccio, Burgos è una fedele antropomorfizzazione del simpatico mammifero, eppure – com'è noto – il suo apodo affonda le radici in un'altra branca del regno animale. A 16 anni, durante uno dei suoi primi allenamenti con il Ferro Carril, viene notato dall'allenatore Carlos Griguol, uno dei più longevi della storia del calcio argentino. “Come sei alto, sembri una scimmia!”, gli dice, cadendo in un lapsus – voleva dire gorilla? - che rimarrà appiccicato al Mono per tutta la vita. E la tradizione zoologica proseguirà quando sarà proprio Burgos a incrociare al River un giovanissimo Javier Saviola e chiamarlo prima di tutti “el Conejo”.
Cose da Argentina: in un Velez-River del 1996, Chilavert sorprende Burgos quasi da 60 metri. “Praticamente ha tirato dal Paraguay”, commenterà amaramente il Mono.
Da otto anni il Mono Burgos è l'ombra di un allenatore formidabile. L'appellativo di “più grande” esige criteri di valutazione molto soggettivi, ma di sicuro possiamo dire che Diego Simeone è il più pagato, come da contratto rinnovato il mese scorso fino al 2022 a 24 milioni l'anno. I due fanno coppia fissa dai tempi di Catania, inverno 2011: a metà campionato il presidente Pulvirenti esonera Marco Giampaolo, incamminato verso una salvezza tranquilla ma noiosa, preferendo affidare la sua rosa di dodici argentini a un giovane Cholo che smania per misurarsi con il calcio europeo dopo gli ottimi risultati in patria. Burgos è a spasso, dopo essersi dimesso tre mesi prima dal piccolo Carabanchel, sesta divisione spagnola. Simeone si ricorda di lui e inoltre deve aver sentito parlare della sua meticolosità che confina con la follia (dicono che mandasse delle spie a misurare la lunghezza dei campi dove avrebbe giocato in trasferta). Ci ha giocato insieme per dieci anni, otto in Nazionale e due all'Atletico, e inoltre possiede un dettaglio non secondario per uno come il Cholo, segretamente appassionato di astrologia. Burgos è Ariete, segno di Fuoco, mentre Simeone è Toro, segno di Terra, perciò lo dicono le stelle: i due andranno d'amore e d'accordo qualsiasi cosa accada.
Ecco Simeone e Burgos in panchina durante un Catania-Lecce qualunque, il Cholo con il cappotto completamente aperto come da regola della casa, il Mono sempre un passo indietro. I siciliani scesero in campo con nove argentini titolari – Andujar, Schelotto, Silvestre, Spolli, Ledesma, Ricchiuti, Llama, Maxi Lopez e il Papu Gomez - e vinsero 3-2 grazie a una doppietta su punizione dello “straniero” Ciccio Lodi.
Burgos il pazzo
Il calcio death metal dell'Atletico Madrid nasce dalla fusione del corpo e della mente di questi due bastardi senza gloria, che i detrattori (e ne hanno, eccome se ne hanno) paragonano piuttosto ad Asterix e Obelix. Il Cholo gioca furbamente sulla somiglianza e certe volte la cavalca apertamente, come quella volta a Leverkusen quando Burgos venne quasi a contatto con l'allenatore del Bayer Roger Schmidt, uno dei profeti del gegenpressing. In questi cinquanta secondi di bronca sgangherata con Schmidt sta tutta l'essenza del rapporto tra i due: «Non so neanche cosa gli ha detto, ma è amico mio, e questo basta», chioserà il Cholo in conferenza stampa.
Chi è Burgos, “il numero uno dei numeri due”, come si è definito una volta? Un orco, un buttafuori, uno psicopatico, una rockstar, un professore matto? Tutte queste cose insieme? Intanto ha un senso dell'umorismo sensazionale: internet è pieno di deliziose interviste in lingua originale in cui a un certo punto ci infila una perla da consumato stand-up comedian. «Mono, cosa ti sarebbe piaciuto essere se non avessi fatto il calciatore?» «La moglie di un calciatore». «Mono, segui qualche altro sport?». «No, niente che non sia il calcio. Cosa dovrebbe piacermi, il tennis? Ti stai pisciando sotto e non puoi uscire, non puoi parlare, non puoi fumare, passa un aereo e il gioco si ferma... Il basket? Ti tengono là dentro quattro ore e quando esci non sai neanche se nel frattempo è scoppiata la Terza Guerra Mondiale. Poi uno cade per terra e subito entra un ragazzino a pulire il sudore... mi prendi per il culo? L'hockey su ghiaccio? Pensa se io giocassi a hockey e dicessi a mia mamma "Perché non mi vieni a vedere?”. Lei alla fine viene e a fine partita le dico “Allora, come ti sono sembrato?”. E lei: “Ma tu chi eri? Avevate tutti il casco, la maschera...”. Nooooo, mi piace solo il calcio».
La vis comica di Burgos si nota anche in questo spot girato nel 2002 dopo il ritorno dell'Atletico in Primera Division alla fine di due anni di intollerabile purgatorio. “Hanno scelto me perché lo sapete come sono le agenzie pubblicitarie, alla fine prendono sempre quello più figo”.
Ancora più di Simeone, Burgos rappresenta il peculiare modo di essere dell'Atletico Madrid, raffigurato in tante bellissime clip tutte confezionate dall'agenzia di comunicazione Sra. Rushmore (si legge “señora”), che in questi anni si è impadronita dell'immaginario sentimentale del popolo colchonero. Si innamora quando ancora gioca a Mallorca, guardando in tv un Leganes-Atletico Madrid. È il primo anno in Segunda Division dell'Atleti, ma il piccolo Estadio de Butarque, la casa del Leganes, è stato invaso dai sostenitori colchoneros.
«Mi venne la pelle d'oca e subito pensai: voglio giocare lì!». Ma nelle Baleari incappa anche in quella che è tuttora la terza squalifica più lunga della storia della Liga: undici giornate e mezzo milione di pesetas di multa (circa 3 mila euro) per aver mandato all'ospedale con un gancio alla mandibola Serrano dell'Espanyol, che in una mischia su corner gli ha detto «Puto sudaca, me follo a tu madre!» (“sudaca” è un termine dispregiativo che in Spagna si usa verso i sudamericani). La dirigenza ne approfitta per farlo fuori, preferendogli i connazionali Roa e Leo Franco anche se lui, ormai degradato a terzo portiere, ha comunque l'orgoglio di mettere su una raccolta di firme presso i tifosi per dimostrare alla società che la gente è dalla sua parte.
È il titolare dell'Atletico che torna in Primera nel 2002, ma il momento più alto in riva al Manzanarre è sicuramente il rigore parato di narice a Luis Figo, nella prima partita al Bernabeu dopo la promozione (poi pareggiata a tempo scaduto grazie a una magistrale punizione di Demetrio Albertini, che da allora è idolo per tutti i tifosi dell'Atleti). Così come, da assistente, in copertina sono finite soprattutto le scenate a bordocampo nei derby di Madrid: la frase sibilata a Mourinho - «Yo no soy Tito, yo te arranco la cabeza» (io non sono Tito Vilanova, io ti stacco la testa), in riferimento alla rissa scoppiata alla fine del Clasico di Supercoppa dell'agosto precedente, quando Mou aveva infilato un dito nell'occhio al tecnico blaugrana prima di darsela a gambe negli spogliatoi – e soprattutto l'uno contro tutti al Calderon nell'anno dello scudetto, prendendosela soprattutto con l'arbitro Delgado Ferreiro, in un pantagruelico crescendo in cui a un certo punto gli stanno per cadere i pantaloni, lui se ne accorge e si copre pudicamente la pancia.
Burgos lo stratega
Insomma, praticamente in ogni vigilia in cui il pianeta Atletico incrocia l'orbita di una squadra italiana, il personaggio Burgos viene raccontato e dipinto con ciclica banalità: le risse, le minacce e tutto quanto possa servire a confermare la tesi di un Atletico machista e vagamente fascista. Non che il clan di Simeone faccia molto per sottrarsi a questa narrazione: il gesto d'esultanza del Cholo al gol di Gimenez alla Juventus si commenta da sé, così come la notizia della notte in caserma passata a gennaio dal “profe” Oscar Ortega, preparatore atletico e altro fedelissimo del tecnico, accusato di presunte violenze su una donna. Eppure le interviste televisive, radiofoniche e su carta stampata che il Mono concede con grande generosità tratteggiano un ritratto di Burgos tutt'altro che cupo e oscurantista, ma l'esatto contrario.
Un allenatore vero, moderno, rigoroso, appassionato di statistiche e tecnologia tanto da essere stato il primo a guardare una partita ufficiale, Getafe-Atletico del 2014, attraverso le lenti di un paio di Google Glass, incuriosito dalle potenzialità del mezzo. Uno stratega, persino, che ha da sempre un ruolo determinante nella micidialità dell'Atletico sui calci piazzati. Certamente uno showman alla costante ricerca del centro del palcoscenico: «Ho giocato al Maracanà contro Ronaldo e Romario di fronte a 100 mila brasiliani, non posso più avere paura di nulla». Un uomo che sa parlare e che sa convincere, prima di tutto sé stesso, capace di migliorare l'umore e l'attitudine della gente che lo circonda. Svelò la sua filosofia in una bella intervista al Clarin del 2003, poche settimane dopo l'operazione al rene che gli lasciò per sempre il souvenir di una cicatrice e 35 punti di sutura: «Sono sempre tranquillo, perché prima delle cose veramente importanti mi faccio una chiacchierata con lo specchio, e obbligo il tizio al di là dello specchio a fare quello che dico io. Gli parlo, e gli dico quello che dobbiamo fare. È un'abitudine che ho da quando andavo a scuola e avevo un'interrogazione, ora lo faccio prima di certe partite. Fin qui, il tizio dall'altra parte mi ha sempre dato retta».
Com'è noto, il Mono Burgos è anche ottimo performer ed è stato per tanti anni il frontman dei The GARB, la rock band che prende il nome dalle sue iniziali e che ha pubblicato quattro dischi dal 1996 al 2005. Notate, tatuata sulla spalla sinistra, la linguaccia dei Rolling Stones.
Burgos&Simeone: una testa sola
È eccessivo pensare che Burgos ordini “quello che dobbiamo fare” anche a Simeone, l'uomo/l'allenatore che non deve chiedere mai? Probabilmente sì, ma forse non è neanche necessario: la relazione simbiotica tra i due può anche fare a meno della comunicazione verbale. Quando Simeone è stato squalificato per quattro partite dopo aver insultato l'arbitro Turpin nella semifinale d'andata d'Europa League contro l'Arsenal, la squadra non ha fatto un plissé e con Burgos sulla tolda ha vinto il ritorno in casa, ha vinto la finale di Lione contro il Marsiglia e ha vinto la Supercoppa a Tallinn contro l'odiato Real Madrid, battendolo come a Simeone non era mai riuscito sulla scena internazionale. «Ho pranzato più spesso con lui che con la mia famiglia. Appena uno dei due alza lo sguardo, l'altro sa già cosa dirà. Il mio ruolo è quello di dirgli la verità».
Il loro modo di porsi sembra confermare il luogo comune secondo cui gli argentini possono essere sia le migliori che le peggiori persone al mondo. Carismatici e intimidatori, strateghi di stampo militare ma all'occorrenza anche volgari mestatori nel torbido, Simeone e Burgos incoraggiano ogni suggestione, anche la più sgradevole. Il Cholo viene criticato per il suo look da gangster italo-americano, cravatta nera su camicia nera che neanche nella Las Vegas degli anni Settanta? Il Mono risponde che «siamo come Robert De Niro e Joe Pesci». C'è una fortissima consapevolezza di sé e di ciò che è stato costruito in otto anni: dal 2011 il fatturato dell'Atletico Madrid è salito da 100 a 353 milioni di euro, e di fronte a questi numeri forse lo stipendio del Cholo non suona più così oltraggioso.
Ma il SudAtletico non è certo arida contabilità da ragioniere, è fuoco, passione, mistica, magari anche plagio e manipolazione – tutte doti che, vi piacciano o no, richiedono una spiccata intelligenza. È anche follia, certamente. È Simeone che programma le nozze con Carolina qualche settimana dopo la fine del Mondiale '94 – chiuso in modo traumatico dall'Argentina, eliminata agli ottavi dalla Romania dopo la squalifica di Maradona – e in un discorso agli invitati chiede scusa con le lacrime agli occhi: «Vi chiedo scusa per non essere riuscito a portarvi la coppa». È il Mono Burgos che non disdegna le parate di faccia – nelle compilation su YouTube ce n'è anche una niente male su una sventola di Roy Makaay che lo lascia intontito a terra per qualche secondo – o addirittura di petto, nelle partite dal risultato già chiuso. Del resto il suo idolo è “el Loco” Hugo Gatti, il portiere kamikaze del Boca anni 70 e 80 che gli somigliava anche fisicamente: “Divertirsi è il modo migliore di stare su un campo di calcio”. E' lo stesso Mono che una volta, da portiere del Ferro Carril, ha l'ardire di entrare a piedi uniti sull'addome di Blas Giunta, un tipo che la tifoseria del Boca Juniors – non la più mite del mondo – chiamava “Huevo”. E Giunta, una volta ripresosi dal brutale patadon si avvicina a Burgos e gli fa: “Nene, querés morir en este instante?” (“Ragazzino, vuoi morire adesso?”).
https://twitter.com/Tuitbol/status/986563430286012416
La cupezza della divisa sociale dell'Atletico e il ghigno perennamente nella fondina, pronto a essere sfoderato per imbruttire al primo che si mette di traverso, ci stanno facendo cadere in un grave errore: pensare che il nero sia anche il colore dell'anima di questa banda di pirati in missione per conto di – uhm, per conto di cosa? Una maglia “che vale il doppio di tutte le altre”, come da motto cholista? Un ideale? Un riscatto sociale? Un disegno divino? Anche le solite frasi sul conflitto di classe che nella bocca di altri personaggi suonerebbero leziose e ruffiane, pronunciate dal Mono Burgos acquistano tutto un altro sapore: “Non avrei mai potuto giocare per il Real, soprattutto perché mi avrebbero obbligato a tagliarmi i capelli. Preferisco l'Atletico, il club dei muratori e dei tassisti. Quando giocavo, arrivavo due ore prima per fare colazione con gli operai che lavoravano accanto alla Ciudad Deportiva. “Mono, cosa ci fai qui a quest'ora? Tua moglie ti ha cacciato di casa?”. “No, sono in anticipo per vedere la mia amante”. Il tutto seguito dall'immancabile carcajada, la risata roca, prorompente e fragorosa dell'Orco Burgos. Decisamente, questa è gente che sa divertirsi.