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La morte di Rebellin e la cultura della violenza sui ciclisti
09 dic 2022
È arrivato il momento di fare un ragionamento sulle nostre regole, ma anche sulla nostra sensibilità.
(articolo)
15 min
(copertina)
Foto di Joel Saget / AFP / Getty Images
(copertina) Foto di Joel Saget / AFP / Getty Images
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È passata poco più di una settimana da quando Davide Rebellin è stato ucciso mentre era in bicicletta. Aveva 51 anni e da poco aveva dato il suo addio al ciclismo professionistico dopo trent’anni di carriera in cui ha attraversato tutte le fasi possibili della vita di uno sportivo professionista: la giovane promessa nei primi anni Novanta, poi l’affermazione e i grandi trionfi, la consacrazione nella primavera del 2004, quando fu capace di infilare la tripletta vincendo Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi nel giro di una settimana. Da lì in poi vengono gli anni più maturi, in cui Rebellin consolida la sua posizione di stella del ciclismo italiano e Mondiale fino all’argento olimpico di Pechino 2008.

Lì iniziano i problemi: l’argento gli viene tolto per una positività al Cera, un nuovo tipo di eritropoietina che in quel periodo stava facendo ripiombare il ciclismo in un’epoca che sembrava ormai chiusa. Rebellin viene abbandonato, scaricato da tutti mentre tentava di provare la sua innocenza. Scontata la squalifica ha già quasi 40 anni ma decide di tornare a correre e lo farà per i successivi 10 anni. Sempre in squadre minori, sempre con la stessa passione. Nel frattempo, nel 2015, arriva anche la tanto attesa assoluzione per quel caso di doping, ma è troppo tardi per riavere indietro tutto ciò che gli è stato tolto.

Nel 2022 annuncia il ritiro: ha più di 50 anni, ne sono passati 11 da quando è tornato, da quando tutti pensavano che il suo fosse solo un capriccio di chi non voleva darsi per vinto. Undici anni, un anno dopo l’altro in cui ogni volta tutti pensavamo che quello sarebbe stato l’ultimo. Fino al ritiro, a fine stagione 2022. Finalmente aveva deciso di fermarsi, di prendersi del tempo per se stesso. Un tempo che però gli è stato preso da un camionista, in pieno giorno, mentre si allenava come sempre per passione.

Ci sono tanti modi per descrivere questo avvenimento. La maggior parte dei media hanno scritto che Rebellin è morto, altri hanno usato formule più implicite come “si è spento” o “ci ha lasciato”. Entrambi i modi suonano scorretti: Davide Rebellin è stato ucciso. Come altri ciclisti è stato ammazzato per strada, in un giorno qualunque, senza movente ma non casualmente. È stato ammazzato perché andava in bicicletta per strada, per una di quelle strade che ogni giorno delle persone in bicicletta condividono con altri mezzi meccanici più grandi di loro: automobili, camion, furgoni, tir.

Questo ci porta alla seconda parte del modo in cui la notizia di Rebellin è stata data dai media, ovverosia il complemento d’agente: da un camion. Investito da un camion. Ci si sente meglio a dirla così perché un camion è un oggetto inanimato, che è altro da noi. La maggior parte di noi non l’ha mai neanche guidato, un camion, e per questo è più facile distaccarsi, è più facile prendere le distanze da quanto successo. Più facile non sentirsi parte del problema. Suonerebbe diverso se dicessimo che Rebellin è stato ucciso da un uomo che guidava un camion, perché in questo caso l’azione la compie un altro essere umano come noi, che fa un gesto che facciamo tutti noi: guidare, per strada. Ed è più difficile allora sentirsi diversi da quell’uomo.

Nel solo 2021 sono morti in bicicletta, secondo i dati ISTAT, 220 persone e altre 16.057 hanno riportato lesioni in seguito a incidenti stradali. 220 persone sono più di un morto ogni due giorni nel solo 2021. Nel 2019 (l’ultimo anno pre-pandemia) furono 253 i morti in bicicletta, il 15,5% in più rispetto al 2018. Insomma è di questo che parliamo: di una strage continua, quotidiana, silenziosa. Una strage di cui si parla sempre troppo poco, e spesso anche male, in un continuo scontro fra ciclisti e automobilisti, come se poi non fossimo tutti ora da una parte e ora dall’altra.

Ancora più impressionanti sono questi dati messi in relazione con gli altri dati che abbiamo a disposizione. Secondo il Rapporto PATH (Partnership for Active Travel and Health) l’Italia è il paese europeo con il più alto tasso di incidenti mortali in bicicletta per chilometro percorso, come si può facilmente capire dal grafico che riporta i dati per pedoni e ciclisti in cui il pallino raffigurante l’Italia svetta in entrambi i casi solitario lassù in alto a sinistra.

Nei due grafici, il rapporto fra i chilometri percorsi in media da ogni persona - a piedi e in bici - e il numero di morti per chilometro percorso nei vari paesi europei.

Come è stato ben riassunto in un articolo di Bikeitalia a commento di questo rapporto, «il grafico sull’incidentalità in Europa racconta una storia già sentita ma molto triste: l’italiano medio percorre meno di 100 km in bici in un anno, ma si espone a un pericolo per la sua vita 5 volte superiore rispetto ai suoi coetanei danesi e olandesi». E non è un caso.

Nel rapporto di Legambiente “Clean Cities - Non è un paese per bici” si legge che «il nostro è il paese europeo dove si registra – ormai da un decennio – la maggiore densità di autoveicoli per 100 abitanti. Nel 2020 erano 67, e in costante crescita da diversi anni». Numeri che se non sono direttamente proporzionali a quelli delle persone morte in bicicletta sono però strettamente collegati. Sono dati che seguono gli investimenti fatti dai vari governi che si sono succeduti: «a partire dalla Legge di Bilancio 2018 (L.145/2018) e con vari successivi provvedimenti, il Governo italiano ha stanziato complessivamente quasi 10 miliardi e mezzo di euro per il rinnovo del parco veicolare privato» contro i soli 300 milioni per quel che riguarda il sostegno all’acquisto di biciclette o altri veicoli leggeri.

Sulla costruzione di piste ciclabili invece ci sarebbe da stendere un velo pietoso, ma invece purtroppo abbiamo dati molto chiari che ci indicano sì una costante crescita (nel 2020 - sempre secondo i dati ISTAT - si è registrato un +5,3% rispetto al 2019 e un +20,7% dal 2015) ma anche due grandi problemi: da un lato la spaccatura fra Nord e Sud del paese e dall’altro l’enorme ritardo nei confronti del resto d’Europa. Non serve scomodare il Belgio o i Paesi Bassi, ma anche Varsavia e Cracovia in Polonia hanno un numero di chilometri di ciclabili in proporzione agli abitanti che è nettamente superiore a Torino o Milano (rispettivamente 2,5 e 2,1 chilometri ogni diecimila abitanti contro i 3,8 di Varsavia e i 3,2 di Cracovia. Gent, in cima alla classifica, ne ha 20,2). Sempre secondo il rapporto di Legambiente, solo il 3,8% delle città italiane «hanno già livelli di ciclabili che dovrebbero favorire un utilizzo quotidiano e largamente diffuso della bicicletta» mentre «oltre il 50% delle città hanno infrastrutture ciclabili del tutto insufficienti». Ne viene fuori un quadro drammatico, in cui mancano proprio le fondamenta per un profondo quanto necessario cambiamento culturale che potrebbe salvare la vita a tante di quelle persone che ogni anno muoiono a piedi o in bicicletta.

A questo punto di solito si fanno due obiezioni: la prima è di puro benaltrismo e mira a sostenere che ci sono altri problemi, che i morti sul lavoro sono di più e che dovremmo preoccuparci prima di altre questioni più urgenti o che semplicemente smuovono numeri più consistenti (come per esempio i morti in macchina, che nel 2021 sono stati 1.192 persone, più di 3 al giorno). È vero: ci sono altre situazioni di pericolo che mietono più vittime, ci sono altre questioni di cui la nostra società deve occuparsi. Ma occuparsi di una cosa non vuol dire ritenere meno importanti le altre e anzi, è possibile occuparsi di più cose contemporaneamente. I discorsi sono spesso intrecciati.

Un modo, non l’unico, con cui si possono limitare le morti per incidenti d’auto è usarla meno. Significherebbe ripensare per intero la mobilità urbana, dentro città costruite attorno all’automobile come unico mezzo di trasporto. Negli ultimi anni l’uso della bicicletta in alcuni comuni è cresciuto ed è stato incentivato con la costruzione di percorsi ciclabili. Ma sembra sempre troppo poco, e di recente il nuovo governo ha tagliato uno dei fondi che confluiscono nella costruzione di ciclabili. C’è un importante lavoro sulle infrastrutture, ma ce n’è anche una sulla sensibilità al tema della sicurezza, al rispetto reciproco fra utenti - leggeri e pesanti - della strada. Le morti in automobili e quelle in bici non sono temi separati.

Sempre secondo il Rapporto Path «ogni giorno mille persone vengono uccise per strada mentre camminano o vanno in bici. Gli incidenti stradali sono la prima causa di morte fra le persone fra i 5 e i 30 anni». Un concetto che forse va riletto un paio di volte per capirlo a fondo e ci dice che il pericolo più grande per tutti i noi, nei nostri primi 30 anni di vita, è la strada. E non importa se siamo a piedi o su un camion, in bicicletta o in macchina: siamo tutti in pericolo, e quello è il principale pericolo da cui dobbiamo guardarci.

A tal proposito quindi «il miglioramento della sicurezza stradale e la protezione del pianeta, della nostra salute e del nostro benessere vanno di pari passo poiché tante delle soluzioni per entrambi i problemi sono collegate. Per esempio, - prosegue il rapporto Path - riducendo la velocità dei veicoli si riduce l’incidenza di gravi incidenti per chilometro percorso, e aiuta anche creare spazi dove le persone possono ogni giorno sentirsi più al sicuro camminando o andando in bici». Ma lasciando per un attimo da parte il problema ambientale - per quanto possibile - dobbiamo comunque sottolineare che aumentare il numero di pedoni e di ciclisti, incentivare quindi un tipo di mobilità sostenibile, «migliora anche la sicurezza creando un fenomeno noto come “safety in numbers”: più alto è il numero delle persone a piedi o in bicicletta, più basso sarà il numero di incidenti gravi per chilometro percorso. Questo avviene per una serie di ragioni, incluso il fatto che quando un automobilista vede più pedoni e ciclisti sulla strada impara ad anticipare i loro movimenti e a gestire meglio lo spazio stradale e gli incroci».

Per questo motivo alcuni sostengono che la costruzione di piste ciclabili sia in realtà una falsa soluzione, perché non risolverebbero il problema della convivenza su strada laddove le piste ciclabili non siano presenti (come avviene in praticamente tutte le strade extraurbane). La ghettizzazione - per così dire - dei ciclisti su percorsi dedicati non favorirebbe lo sviluppo di una sensibilità e un’attenzione diversa da parte degli automobilisti nei confronti delle biciclette. Sono teorie che possono sembrare un po’ estreme ma che si basano su studi concreti, come appunto il Rapporto Path, ma anche sulla banale osservazione della realtà in cui viviamo, fatta di percorsi ciclopedonali pensati male e realizzati peggio, spesso senza una rete di collegamenti funzionale. Si tratta spesso di corsie ricavate qua e là a bordo strada, dove le auto non si fanno troppi problemi a sconfinare.

Eppure è innegabile che la costruzione di piste ciclabili risolverebbe almeno nelle zone urbane tanti problemi di convivenza sulle nostre strade. Ma sarebbe, appunto, una soluzione basata sull’eliminazione stessa di questa convivenza; è vero però che stimolerebbe l’uso della bicicletta o di altri mezzi alternativi e leggeri, che è il vero obiettivo che dovrebbero porsi tutte le politiche di questo tipo.

Per raggiungere questo obiettivo, gli analisti di Path hanno individuato una serie di azioni da mettere in pratica il più presto possibile: creare infrastrutture adatte alla mobilità pedonale e ciclabile, ma soprattutto sensibilizzare con campagne mirate, pianificare lo sviluppo territoriale in modo da favorire la prossimità, ma soprattutto potenziare il trasporto pubblico e integrarlo con la rete di infrastrutture ciclopedonali. Soluzioni percorribili, concrete, pratiche.

In Italia, invece, trainato da testate di proprietà di grandi gruppi industriali del settore automobilistico e da giornalisti con idee di mondo totalmente distaccate dalla realtà e senza alcun concreto appiglio statistico, il dibattito pubblico verte sulla responsabilizzazione del ciclista. E qui arriviamo alla seconda obiezione che di solito si muove a questo discorso sull’emergenza dei ciclisti ammazzati per strada, che si basa principalmente sulla colpevolizzazione delle vittime. È di pochi giorni fa una serie di editoriali sul Corriere della Sera, ad esempio, sul “problema” dei ciclisti che non accendono le luci quando pedalano la sera per le strade di Milano. In un articolo del 30 novembre - di lì a poche ore sarebbe stato ucciso Davide Rebellin - di Giangiacomo Schiavi dall’eloquente titolo Milano, ciclisti in bici a luci spente. La voce dei lettori: «Basta anarchia sulle strade di sera», si parla apertamente di «una campagna di civiltà nella Milano dei rider e delle due ruote che ignorano le regole della sicurezza e del buon senso» relativa ai ciclisti senza luci. L’articolo prosegue citando altri interventi che lanciano appelli alle autorità affinché facciano rispettare le regole ai ciclisti, rei di atteggiamenti pericolosi. Si arriva al punto in cui qualcuno si chiede «perché, se investo un ciclista senza luci, ci devo andare di mezzo io?».

L’articolo di Schiavi fa da eco a un altro pezzo pubblicato il giorno prima in cui Beppe Severgnini denuncia il fatto che «solo una bicicletta su cinque, in una città civile come la nostra, usa le luci». Un dato preciso e perentorio che non viene però da qualche studio statistico, bensì dalla sua esperienza personale: «quella percentuale — uno su cinque — non è buttata lì: ho contato i fanalini accesi, più volte». Più volte, addirittura.

A Severgnini risponde ancora Giangiacomo Schiavi che fa da sponda alle parole del collega sottolineando anche che «c’è poi la pattuglia degli irresponsabili che si è adeguata al peggio, in bici senza luci e senza casco: e non sono solo stranieri». Ci si sorprende quindi del fatto che anche gli italiani, fra lo stupore generale del pubblico che sbarra le palpebre stupefatto, spesso e volentieri non rispettano alcune regole del codice della strada (e non solo). Schiavi però riconosce che «le strade di Milano stanno diventando un pericolo pubblico» che bisogna in qualche modo arginare. Ma la soluzione che propone lascia quantomeno esterrefatti: non sono le macchine il problema, bensì i monopattini «che si sentono padroni dei marciapiedi». Poi i ciclisti senza luci, ovviamente.

Il non detto di questi interventi è che se i ciclisti vengono ammazzati per strada la colpa è loro che non si mettono in sicurezza: non indossano il casco, non mettono le luci, non si vestono come dei pannelli catarifrangenti ambulanti. Appelli che - sia chiaro - sono tutti giusti e condivisibili: i ciclisti devono pedalare con il casco e di notte devono mettere le luci sulle biciclette. Per una questione di sicurezza e di buon senso, non ci piove. Sono anni che si fanno campagne di sensibilizzazione sull’utilizzo del casco, a partire dai professionisti che sono obbligati a indossarlo in corsa dal 2004, fino agli amatori che sempre più spesso scelgono saggiamente di indossarlo.

È chiaro come il sole quindi che i ciclisti debbano attuare tutte queste misure di sicurezza, per la loro stessa incolumità. Il punto però è che non possiamo cadere nella trappola di colpevolizzare la vittima, di colpire l’anello debole della catena alimentare della strada in cui il mezzo più grande mangia il più piccolo. Di fronte alle tragedie quotidiane dei ciclisti (e dei pedoni o dei monopattini) la nostra risposta non può essere quella di guardare verso la vittima per controllare se aveva il casco o le luci o se stava su una pista ciclabile o se procedeva in mezzo alla carreggiata.

Una visione distorta della realtà che non nasce di certo oggi ma che anzi affonda le sue radici in un sostrato di insofferenza diffusa in buona parte della popolazione comune. È però un discorso che trova facile sponda in chi questa visione avrebbe il potere mediatico di plasmarla e che invece non si fa problemi a cavalcare, mostrando così una pericolosa miopia che portò Pierluigi Battista, altra importante firma del giornalismo italiano, a definire “una mania” quella per le biciclette. È un discorso fondamentalmente violento che si sfoga contro chi rappresenta l’anello debole quando si tratta del trasporto su strada e che ha portato all’incancrenirsi di un conflitto dal quale non riusciamo a uscire, forse proprio per questa sua insensatezza. Un punching down che come tale non è quindi accettabile in un contesto in cui dovremmo anzi stimolare e favorire la circolazione di sempre più biciclette, con il doppio fine di rendere più sicure le nostre strade per tutti - automobilisti compresi - e di rendere più vivibili le città.

Ma se guardando alle strade delle nostre città e al livello di pericolosità che hanno ormai raggiunto riusciamo invece a individuare come soluzione primaria soltanto una continua limitazione all’uso di monopattini e biciclette, allora abbiamo un problema - noi in quanto collettività - che va ben al di là dei numeri. Il problema è invece molto più profondo e riguarda una trasformazione culturale, dei paradigmi di pensiero, che ancora stenta ad arrivare. Finché continueremo a puntare il dito contro i ciclisti indisciplinati senza guardare al mondo nel suo complesso, finché troveremo giustificazioni ai nostri comportamenti sulla strada, finché continueremo anche nel nostro piccolo a fare battute sui ciclisti, a suonare il clacson quando ne incontriamo uno per strada, a insultarlo se non ci fa passare; finché non cambieremo il nostro modo di pensare alla strada e alle nostre modalità di trasporto, «fino a quando non capiremo - ha detto il ciclista Alessandro De Marchi in un video pubblicato sul suo profilo Instagram - che un’auto equivale ad avere una pistola carica, col colpo in canna e il dito sul grilletto, non andremo lontano».

De Marchi nel suo video - pubblicato il giorno dopo la morte di Rebellin - parla anche delle false soluzioni di cui abbiamo parlato in queste righe. A queste se ne dovrebbe aggiungere un’altra - e lo dico a malincuore - che è la proposta di legge di Mauro Berruto per obbligare gli automobilisti a lasciare un metro e mezzo di spazio fra la macchina e il ciclista durante i sorpassi. Una proposta che sulla carta risolverebbe molti problemi ma che come tante di queste norme sarebbe quasi impossibile da applicare.

Sarebbe però un passo importante - e questo l’ha sottolineato lo stesso Berruto nel suo intervento in Parlamento - da un punto di vista culturale, nel lento percorso che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della sicurezza stradale e soprattutto sul rispetto di chi sceglie di muoversi in bicicletta. Perché non dobbiamo mai dimenticarci, quando saliamo in macchina, che stiamo salendo su un oggetto potenzialmente letale, capace di uccidere una persona alla minima distrazione. E il mancato rispetto delle regole non può mai essere una giustificazione per uccidere una persona.

Sta quindi a noi automobilisti porre maggiore attenzione, avere maggiore rispetto; accettare l’idea di poter perdere anche un po’ di tempo se l’alternativa è prendersi il rischio di uccidere un altro essere umano la cui unica colpa è quella di essere in bicicletta davanti a noi.

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