Applausi, spettacolo, qualche brivido finale. E il liberatorio “We want Boston” del Barclays Center a chiudere la serata. I Brooklyn Nets sfuggono alle sabbie mobili del torneo play-in battendo i Cleveland Cavaliers, guadagnandosi così il biglietto per il primo turno dei playoff NBA. Sfideranno appunto i Boston Celtics, proprio come la scorsa stagione. Questa volta, però, con il fattore campo a sfavore, e anche i pronostici. È stata una vittoria dominante, più netta del 115-108 finale; eppure, a modo suo, più sudata del dovuto. Come se i Nets si fossero sforzati di mostrare con dovizia di particolari le mostruose alternanze di corrente di cui sono capaci: fasi di pallacanestro inarrestabile; giocate individuali sempre pronte a fare la differenza; una grande voglia di giocare assieme; ma pure periodi di black-out preoccupante, sia davanti che dietro, che rischiano di compromettere tutto quanto costruito negli altri momenti.
Non sono bastati a rimettere in discussione il risultato questa sera, complici anche dei Cavs troppo spuntati per fare davvero paura; ma hanno comunque impedito a Brooklyn di chiudere in anticipo una partita che, sul +22 di metà del terzo quarto, sembrava morta e sepolta. Ne esce allora rafforzata l’immagine dei Nets come mina vagante della Eastern Conference: un enigma indecifrabile, imprevedibile, che rischia di complicarsi ulteriormente con un possibile debutto di Ben Simmons. Che, stando alle ultime voci, potrebbe materializzarsi a un certo punto non meglio precisato della serie contro i Celtics. In attesa di capire come si svilupperanno le cose, i Nets possono però godersi una serata di relativa tranquillità al termine di una giornata che, oltre allo stress competitivo di una partita da dentro o fuori, ha pure portato la paura per quanto successo fuori dal campo, a pochi isolati dal centro di allenamento dei Nets. Creando un contesto difficile da separare dagli eventi del campo.
Una giornata surreale
È una giornata surreale per essere a New York City, e non potrebbe essere altrimenti. Le notizie si propagano rapidamente per tutta la mattinata: spifferi su Twitter, aggiornamenti sulla CNN, e i soliti messaggi di cordoglio che accompagnano avvenimenti del genere. Ma ancora più assurda è la calma di questa città. Uno dei pochi posti al mondo dove, poche ore dopo una sparatoria in metropolitana, tutto procede come se fosse una giornata normalissima. Le due ore di camminata da Penn Station al Barclays Center — frutto di precauzione, più che di reale intenzione — si rivelano infatti il modo migliore per godersi da una prospettiva inedita un angolo di mondo che non finirà mai di stupire.
Dandoci modo di attraversare in rapida successione una serie di universi spazio-temporali distinti, legati assieme da un assurdo filo comune: le eleganti piazze lungo la sezione bassa di Broadway; le fornitissime piastrellerie cinesi alle porte di Chinatown; gli alimentari di Little Italy col tonno Callipo in bella mostra; fino al maestoso ponte pedonale che congiunge Manhattan e Brooklyn, dall’altra dell’Hudson. Dove la presenza di polizia si intensifica, senza però mai destare eccessivamente nell’occhio. Ci vuole l’elicottero che volteggia sopra la baia, oltre a sporadiche incursioni delle volanti a sirene spiegate, a ricordarci della violenza delle ore precedenti. Il tumulto era invece stato più che mai tangibile per i Nets, che avevano passato la mattinata nel proprio centro di allenamento, a poche centinaia di metri di distanza dalla zona dell’attacco. «È la fermata della metro a fianco a dove passiamo le nostre giornate. Dove ci sono le nostre strutture, i nostri uffici. I miei figli vanno a scuola lì vicino. Inevitabile sentirsi scossi» dice Steve Nash prima della palla a due.
Poche ore dopo, fuori dal Barclays Center iniziano a incolonnarsi i tifosi. Pronti a tuffarsi in una serata bizzarra: decisiva per il destino della stagione, ma con lo strano cuscinetto dell’esame di riparazione in caso le cose dovessero andare male. Roba tipica dei play-out delle minors nostrane, più che della postseason dello sport americano. «La vivo come se fosse una gara-7, come una partita da vincere a ogni costo» dirà Nash. «Questa sera vuoi vincere e basta». Meno deciso, però, sembra essere l’approccio della tifoseria dei Nets. L’intero primo quarto si svolge davanti ad ampi squarci di seggiolini vuoti su entrambi gli anelli: un colpo d’occhio più da partita di dicembre che di aprile. Serviranno le pennellate di Irving e Durant per elettrizzare la scena a dovere, assieme a un primo piano di Edie Falco, aka Carmela Soprano, a bordocampo. Preceduta da una clip dai Sopranos mandata in onda sul tabellone luminoso, l’immagine dell’attrice strappa l’applauso convinto della folla. Evidentemente incurante del fatto che, anni fa, la stessa Falco aveva partecipato a un video di reclutamento per convincere LeBron James a giocare per i Knicks. Scaldati i motori, il pubblico si rivela un elemento importante. Giustamente galvanizzato dalla partenza sparata dei Nets — 40-20 dopo un un primo quarto da 70% al tiro — e poi pronto a farsi sentire durante il singhiozzante finale di partita dei propri beniamini. Ci sono i cori “MVP MVP” per Kevin Durant, gli applausi per le prodezze di Kyrie Irving, e infine il canto “Brooklyn Brooklyn” che suggella la vittoria, creando un clima di giustificata attesa per i playoff che verranno. La stagione, pur tribolata, non è ancora finita.
Il videogioco è acceso
La frase se la ricorderanno i millennial tendenti al boomer, usata a profusione da Flavio Tranquillo e Federico Buffa durante i playoff NBA del 1999 per descrivere le elettrizzanti escursioni in campo aperto di Latrell Sprewell con la maglia dei Knicks. Ventitre anni dopo, un videogioco è tornato ad accendersi per le strade di New York City. È quello di Kevin Durant, che a 33 anni sta giocando la migliore pallacanestro di una brillante carriera. Ormai più simile a un Avatar che a un giocatore in carne ossa. Viene da pensarlo quando percorre tutto il campo per inseguire Garland, recuperando metri di svantaggio in pochi decimi di secondo, e inchiodando perentoriamente al tabellone quella che fino a un istante prima sembrava un comodo appoggio. È la giocata che dà il primo, decisivo scossone alla partita. Sul ribaltamento arriverà la tripla di Kyrie Irving che regala il massimo vantaggio ai Nets, facendo schizzare in piedi il Barclays Center. Seguirà un’ulteriore pioggia di canestri a raffica, che scava un vantaggio che si rivelerà insormontabile.
E dire che non viene neanche conteggiata come stoppata, altrimenti sarebbero state quattro nella sua partita insieme a 25 punti e 11 assist.
Ma se a finalizzare ci pensano i compagni, la supremazia dei Nets poggia le sue fondamenta sulle gesta di Durant. Che tira pochissimo, eppure comanda senza sforzo ogni aspetto del gioco. Guida la transizione, apre spazi, manda la palla dove vuole, difende alla morte sull’uomo, chiude le penetrazioni in aiuto. Il vero giocatore totale, che domina per il solo fatto di essere in campo. Pronto poi a estrarre dal cilindro le giocate decisive quando l’attacco si inceppa e l’avversario si fa vicino. Dopo tre quarti trascorsi a distribuire palloni, Durant è salito in cattedra nel momento più delicato, con l’attacco dei Nets in rottura prolungata, e lo spettro della frittata che iniziava a farsi strada tra gli spalti del Barclays Center. I Cavs arrivano a due possessi di distanza, ma senza mai davvero riuscire a riaprire i conti. Merito di tre canestri chirurgici dell’ex Oklahoma: prima una tripla dall’angolo; poi due canestri dalla media distanza cadendo indietro, dopo il tipico palleggio di avvicinamento. Gesti tecnici raffinati, fluidi, ammorbanti per la loro apparente semplicità. «È stata la sua energia, il suo spirito competitivo l’aspetto più importante» dirà dopo la partita Steve Nash.
«Mi aiuta a non dare niente per scontato»
Galvanizzati dal proprio leader, i Nets hanno risposto presente a livello di squadra. A partire da un Kyrie Irving con un livello di intensità costante e il tasto della concentrazione ben premuto. L’ex Cavs ha sfondato la barriera dei 30 punti a inizio terzo quarto senza errori al tiro: il frutto di un momentaneo 12/12 dal campo (12/15 alla fine) che ha incluso una buona dose di conclusioni acrobatiche, come nelle corde del personaggio, e una costante dedizione nell’attaccare il canestro. Spesso aggirando in maniera disinvolta i raddoppi e gli aiuti estesi che la difesa dei Cavs ha portato sul perimetro, nel vano tentativo di togliergli la palla dalle mani. E così, a fronte di una prestazione del genere, l’attenzione si è inevitabilmente spostata sulla sua fase di digiuno dall’alba al tramonto, in osservazione del Ramadan. «È un percorso personale di cui non mi piace parlare. Ma voglio dire che mi aiuta a vivere ogni momento durante la giornata. A non dare niente per scontato. A respirare, e a prestare attenzione a tutti i dettagli» dirà lui a fine partita, incalzato sulla questione, dopo che dalla rivelazione della sua fede islamica è passato quasi un anno.
Una brutta notizia per i Celtics: nei 1.096 possessi che hanno giocato assieme quest’anno, il rating offensivo dei Nets con Irving e Durant in campo è un astronomico 124.8. Considerando che giocano 40+ minuti a partita ciascuno, potrebbe essere un problema.
Al suo fianco, quasi tutto il resto del gruppo ha portato un contributo importante. Da un Bruce Brown che ha sfiorato la tripla doppia — 18 punti, 9 rimbalzi e 8 assist per lui alla fine, ma a quanto pare senza nemmeno accorgersi di avere quelle cifre fino alla consultazione del tabellino finale — a una solida prestazione di Andre Drummond e Nic Claxton, la coppia di lunghi che ha garantito i rimbalzi e l’intimidazione che Steve Nash si aspettava. «Quando i tuoi lunghi totalizzano 29 punti e 17 rimbalzi, vuol dire che hanno fatto il loro dovere» dirà di loro il coach. Unico neo la partita incolore di Seth Curry, i cui 0 punti in 34 minuti sono difficili da ignorare anche tenendo conto di un problema alla caviglia con cui convive da tempo e con cui dovrà convivere per il resto della stagione. Ma al termine di una partita da 33 assist e solo 9 palle perse di squadra è difficile lamentarsi, considerando pure che questo gruppo non ha giocato assieme nemmeno per dieci partite. «Stiamo ancora cercando gli equilibri migliori. Non abbiamo avuto tempo per farlo, ogni partita è un’occasione per fare passi in questa direzione. Dobbiamo inserire Seth nel migliore dei modi. Ma alla fine abbiamo raccolto i frutti del nostro lavoro» è il commento finale di Nash.
Mentre Brooklyn si prepara a gara-1 con Boston, rimane ancora aperta la stagione dei Cavs. Che venerdì potranno sfidare in casa la vincente tra Atlanta e Charlotte e avere così un secondo tentativo per assicurarsi un posto nei playoff. «Se vai sotto di 22, poi diventa quasi impossibile recuperare contro una squadra con giocatori che hanno vinto il titolo come Brooklyn» sarà il commento a fine partita di coach J.B. Bickerstaff, pure orgoglioso per la risposta dei suoi giocatori. Cleveland ha pagato un primo quarto difensivamente disastroso, in cui tutti i tentativi di levare la palla dalle mani di Irving e Durant si sono tradotti in canestri facili per i compagni, oltre che per i due giocatori. Con le rotazioni ridotte all’osso e una difesa perennemente apparsa in balia degli eventi, non sono bastati i lampi di Darius Garland e Kevin Love per colmare uno svantaggio insormontabile. Le speranze passano dunque per il recupero di Jarrett Allen, rimasto fuori per un dito rotto, e il cui status per la partita di venerdì resta incerto. «Aspettiamo e vediamo» dice Bickerstaff, con apparente calma. A questo giro, però, di seconde chance non ce ne saranno. Come nelle vere partite decisive.