Nel suo libro "Il pallone non entra mai per caso", scritto nel 2009, l'ex vicepresidente del Barcellona Ferran Soriano (attualmente CEO del City Football Group, il mega conglomerato che controlla il Manchester City) spiegò così la scelta del Barcellona di promuovere Pep Guardiola ad allenatore della prima squadra e successore di Frankie Rijkaard, preferendolo a José Mourinho: «Mourinho è senza dubbio un vincente, ma per vincere ha bisogno di portare l'ambiente a un livello di tensione che può diventare un problema».
L'allenatore portoghese, nello specifico, infrangeva il sesto dei nove punti stilati da Soriano e il direttore sportivo Beguiristain: «L'allenatore deve sempre portare rispetto per arbitri, avversari e istituzioni in generale. Non deve mai insultare i media o creare polemiche pretestuose, ma concentrarsi sugli aspetti del gioco e sul rendimento della squadra».
In un altro libro, "Barca: The Making Of The Greatest Team In The World" del giornalista scozzese Graham Hunter, viene ricostruito l'incontro fatidico del 2008 tra Mourinho e i dirigenti del Barcellona, Beguiristan e l'altro vice-presidente Marc Ingla, avvenuto a Lisbona. Mou era estremamente motivato, tanto da preparare una presentazione Powerpoint, ma la discussione si arenò sul punto fatidico.
«José», gli dissero Ingla e Beguiristain, «sei troppo aggressivo con i media. L'allenatore è l'immagine del club: parla con i giornalisti per un'ora tre volte alla settimana, rappresenta il club, non può sparare fuochi d'artificio ogni volta, perché questo non è il nostro stile».
«Lo so», rispose Mourinho «ma è il mio stile, e non lo cambierò. Prendete Van Gaal. Ha allenato il Barcellona in due periodi diversi. La prima volta era cattivo, acido, polemico, ed è stato un successo. La seconda volta decise di cambiare il suo stile comunicativo, comportandosi in modo più materno e protettivo, e fu un fallimento».
D'altronde, secondo il sommo Jonathan Wilson, il miglior Mou è in grado di portare i ragionamenti a un numero di livelli di pensiero superiore a quello del subconscio in “Inception”: «Uno dei problemi con Mourinho è che, nel momento in cui stai sostenendo che è un manipolatore, devi fermarti e chiederti: è davvero un manipolatore, o è quello che vuole che si pensi di lui?». Abbiamo raccolto i principali casi in cui l'allenatore portoghese ha utilizzato questo potere contro i suoi stessi giocatori, non sempre con risultati felici.
Mourinho contro Vitor Baia
È il settembre 2002, Mourinho allena il Porto da un paio di mesi dopo che le due eccellenti stagioni all'Uniao Leiria l'hanno messo al centro dei radar del calcio portoghese. Già lì si è fatto apprezzare per le sue doti da prestigiatore del pensiero, brandendo come asce le parole degli avversari, come ha ricordato al Guardian Vitor Pontes, preparatore dei portieri dell'Uniao dal 2000 al 2002. Per tutto il mondo fuori è uno sconosciuto, noto al limite con il non esaltante appellativo di traductor ai tempi del Porto e poi del Barcellona (lo avevamo incrociato a Firenze, nel 1997, commentando la qualificazione del Barça in finale di Coppa delle Coppe ai danni della Fiorentina, con un montaggio malandrino che lo fa comparire subito dopo Guardiola).
Un giorno in allenamento, senza particolare preavviso, Mou trova un pretesto per litigare con Vitor Baia, in modo anche piuttosto acceso. José ha 39 anni, appena sette in più del portiere-monumento che a Oporto ha vinto sette campionati e ha giocato 80 partite in Nazionale e a cui, a fine seduta, viene notificata una sospensione di un mese.
«Aveva bisogno di un bersaglio per affermare la propria leadership, e quel bersaglio fui io», ricorderà Vitor Baia. «Allora non ne rimasi certo contento, ma oggi – dopo aver parlato con tanti miei compagni, e anche con Mourinho stesso – posso dire che era tutto un piano. Aveva bisogno di dimostrare chi era a comandare, e la sua filosofia: amici fuori dal campo, giocatori sul campo. Un mese dopo Mourinho venne da me, mi abbracciò calorosamente e mi diede il bentornato in prima squadra».
Una squadra che in due anni vince due campionati, una Coppa del Portogallo, una Supercoppa del Portogallo, una coppa UEFA e una Champions League: si può comprendere perché Mourinho abbia deciso di esportare il suo metodo anche nelle tappe successive.
Mourinho contro Joe Cole
Il primo bersaglio dell'avventura londinese di Mourinho è un giocatore talentuoso ma leggerino come Joe Cole, in un momento piuttosto insolito: nella conferenza stampa immediatamente successiva all'importante vittoria del Chelsea per 1-0 sul Liverpool, firmata proprio da Joe Cole, entrato a fine primo tempo al posto dell'infortunato Drogba e poi premiato con il premio di Man of the Match.
Ma l'auto-ribattezzatosi Special One ha un'attrazione perversa per i colpi di scena: «Quando ha segnato, per lui la partita è finita. Avevo bisogno di undici giocatori per organizzare la fase difensiva, ma ne avevo solo dieci. Deve imparare ancora molto, deve capire che deve giocare per impressionare me, non il pubblico. È vero, ha avuto un grande impatto sulla partita e sulla fase offensiva, ma la sua partita ha due facce. Quella bella, e un'altra che non mi piace e che va cambiata».
L'esercizio retorico di Mourinho si conclude con un classico del repertorio: il paragone con un compagno di squadra virtuoso da cui prendere esempio, in questo caso Paulo Ferreira: «Un minuto è un'ala, il minuto dopo lo trovi 70 metri indietro a fare il terzino». Nei suoi primi due anni a Stamford Bridge, Mourinho è più intoccabile della Regina: Cole prenderà atto e ne accetterà le parole senza colpo ferire.
Mourinho contro Ricardo Carvalho
Al Chelsea Mourinho si è circondato di portoghesi, anche non del tutto necessari, come il suddetto Paulo Ferreira, Tiago o la meteora Nuno Morais. La maggior delusione però gliela dà il più forte di tutti, Ricardo Carvalho, con cui fa coppia fissa da quattro stagioni. Nell'agosto 2005, lasciato fuori alla prima di campionato in casa del neopromosso Wigan, Carvalho si lamenta con il quotidiano portoghese "A Bola" di non aver capito perché Mou gli ha preferito Gallas: «È una cosa che trovo totalmente incomprensibile, non posso pensare di essere diventato la terza scelta. Ci ho pensato parecchio a lungo, ma davvero non riesco a capire perché mi ha detto quello che mi ha detto al momento di lasciarmi fuori».
La replica non è delle più sottili: «Mi sembra che Carvalho abbia problemi a capire le cose, forse dovrebbe fare un test sul quoziente d'intelligenza. Non mi ha fatto piacere leggere queste cose sui giornali, lavoro con lui da quattro anni e non capisco queste cose. Forse ha bisogno di un dottore». Ma il caso rientrerà e i due faranno coppia fissa ancora a lungo, tanto da portarselo dietro nei tre anni al Real Madrid dal 2010 al 2013. Quando ne avrà bisogno.
Mourinho contro l'Inter (e in particolare Super Mario)
Dal punto di vista delle polemiche interne, i due anni italiani sono il periodo più tranquillo dell'epopea mourinhiana. In un calcio più ipocrita Mou affina ulteriormente l'intelligenza, capisce subito l'antifona e dedica tutti i suoi sforzi a cannoneggiare l'ambiente esterno, con memorabili tirate come quella sugli “zeru tituli” o sul rumore dei nemici che mandano in sollucchero la tifoseria interista, rivangando il recentissimo passato.
Nel gennaio 2009, dopo un balordo primo tempo a Bergamo che vede l'Inter sotto 3-0, sbotta negli spogliatoi: «Il primo scudetto l'avete vinto in segreteria, il secondo senza avversari, il terzo all'ultimo minuto. Siete proprio una squadra di merda». Tempo dopo, in un'ospitata a Chiambretti Night, Mourinho confermerà tutto per poi chiarire il concetto con parole di pragmatismo prussiano: «Dovevo dare una strigliata, e in effetti la partita è finita 3-1... Ogni tanto serve dire bugie per stimolare i giocatori, farli incazzare. Perchè non dire bugie se poi ottieni il risultato?».
Non sarà l'unica scenata risolutiva del biennio: un'altra arriverà per esempio negli spogliatoi di Kiev, all'intervallo di una partita cruciale per la qualificazione agli ottavi dell'Inter del Triplete, che in quel momento sta perdendo 1-0. «Ha sfondato il lettino dei massaggi», racconterà Stankovic a Inter Channel, e la storia gli darà ragione.
Un capitolo a parte, naturalmente, è rappresentato da Mario Balotelli. Mourinho lo tratta pubblicamente come una specie di scemo del villaggio, ben consapevole che non ci sarebbe nemmeno bisogno di calcare la mano tanto è diffuso il fastidio nei confronti dell'attaccante italiano. «Lavora al 25% dell'intensità degli altri, come può pretendere di giocare? Io non regalo privilegi a nessuno», dice con toni persino paterni in una conferenza stampa del dicembre 2008.
Anche quando Balotelli farà uscire dai gangheri tutto San Siro entrando nei minuti finali della semifinale Inter-Barcellona con l'atteggiamento di chi sta andando a rinnovare l'abbonamento ATM, Mourinho il Misericordioso non aggiungerà la sua stoppia al rogo mediatico. E l'aneddoto dell'espulsione contro il Rubin Kazan, dopo che Mou si era raccomandato per tutto l'intervallo di tenere a freno i nervi e non rimediare la seconda ammonizione, fa oggettivamente molto ridere.
Mourinho contro Pedro Leon
L'ambiente del Real Madrid, una cristalleria così silenziosa e rispettosa delle gerarchie e delle tradizioni, è quanto di più distante dall'autogestione avallata da Massimo Moratti. Mourinho capisce presto che ha bisogno di una vittima sacrificale per scaldare un ambiente che gli sembra rassegnato alla supremazia tecnica del Barcellona. E allora sceglie il povero Pedro Leon, un ragazzotto comprato in estate dal Getafe per 10 milioni di euro: sono i mesi in cui tutta la Spagna festeggia il primo titolo mondiale, l'autocritica e la capacità di discernimento sono messe da parte e qualsiasi giovanotto nato tra Vigo e Palma di Maiorca sembra degno di giocare titolare nel Real.
A fine settembre, in una partita che la "Casa Blanca" sta pareggiando 0-0 in casa del Levante nonostante gli sforzi simultanei di Ronaldo, Higuain, Özil e Di Maria, Mourinho lo manda a scaldare, ma ne rimane particolarmente deluso quando lo vede gironzolare attorno alla bandierina del corner invece che darci dentro. Allora si rivolge alla sua panchina e protesta: «Guardate, neanche si sforza! E dopo pretende di giocare!». Gli concede ugualmente mezz'ora, che però non passa alla storia, e lo 0-0 regge fino alla fine. In spogliatoio arriva lo shampoo: «Stai cercando di prendere in giro me e i tuoi compagni? Hai avuto due occasioni per mettere un compagno davanti alla porta e le hai fallite. Qui al Real Madrid tutti hanno i loro cinque minuti per mostrare cosa sanno fare. Tu li hai già avuti». L'aneddoto è stato riportato da Jerzy Dudek nella sua autobiografia uscita nel 2016, anche se Pedro Leon smentirà tutto su Twitter.
Due giorni dopo, nell'allenamento di rifinitura prima di incontrare l'Auxerre in Champions, Mourinho lo fa fuori con i consueti modi felpati, davanti a tutti i compagni: «Non sembri interessato a giocare per il Real Madrid. Gli altri darebbero la vita per questa maglia, ma tu no». Per dare l'esempio e umiliare pubblicamente Pedro Leon, chiama a sé il giovane canterano Juan Carlos, 19 anni, gli chiede se se la sentirebbe di giocare nel Real e poi, dopo l'ovvia risposta affermativa, gli regala la gioia della panchina la sera dopo. Infine la stilettata finale: «Pedro, domani la partita te la guardi da casa. Ho bisogno di giocatori disposti a morire per il Real».
Pedro Leon giocherà solo altri quattro spezzoni di partita in campionato, mai dall'inizio, e farà in tempo a segnare a tempo scaduto il gol del 2-2 contro il Milan, nella partita in cui Mourinho torna a San Siro sei mesi dopo il Triplete, mostrando le tre dita ai tifosi rossoneri che lo fischiano.
La conferenza stampa successiva diventa storia nel momento stesso in cui avviene, ed è uno dei non frequenti momenti mediatici in cui Mourinho sembra aver ragione su tutta la linea: «Perché mi chiedete solo di Pedro Leon? Non è Zidane né Maradona... giocava nel Getafe fino a due giorni fa! Se il presidente mi chiamasse e mi chiedesse conto di questa cosa, glielo spiegherei... ma non mi ha chiamato».
Mourinho contro Iker Casillas & Sergio Ramos
È intuibile anche dal lettore meno esperto che tutto quel che abbiamo letto e ascoltato finora è solo un lungo giro di tapas, gustoso prologo per la portata principale, che è uno dei tanti “subplot” dei quattro Clasicos in 18 giorni contro il Barcellona nell'aprile 2011. Il cambio di strategia architettato da Mourinho nelle quattro sfide in due settimane contro la squadra leggendaria di Guardiola – un Real molto più arcigno e difensivo, con Pepe avanzato a centrocampo – non piace ai senatori dello spogliatoio, infastiditi dall'idea che non si possa sfidare il Barcellona con le sue stesse armi. Iniziano a filtrare alcuni brontolii, rilanciati in particolare da Sara Carbonero, la giornalista diventata star planetaria dopo il bacio in mondovisione del consorte Iker Casillas dopo la finale mondiale del 2010.
Nell'agosto 2011, a ridosso della tremenda doppia sfida di Supercoppa di Spagna in cui un Mourinho ormai fuori controllo infila un dito nell'occhio a Tito Vilanova, Casillas telefona a Xavi e insieme cercano di costruire una strategia della distensione, per il bene della Nazionale spagnola. Dopo un inizio di chiacchierata piuttosto teso, gli animi si rilassano e i due concordano sulla necessità di abbassare i toni. La cosa giunge all'orecchio di Mourinho, come sempre teso a costruire un clima di “noi contro tutti” all'interno del proprio spogliatoio, e non gli piace, come non gli piace che giocatori di lungo corso come Casillas e Sergio Ramos abbiano accesso diretto agli uffici di Florentino Perez, come da consuetudine della "Casa Blanca".
«Il nostro rapporto è cambiato tra settembre e dicembre 2011», dirà Casillas nel febbraio 2016, quando sarà già portiere del Porto. «Non gli andava giù che io parlassi con gli altri spagnoli del Barcellona, ma io parlavo con Xavi e Puyol perché temevo che la Nazionale risentisse dei problemi tra Real e Barça, visto che avevamo un Europeo davanti. Da qui cominciò a preferirmi altri portieri, sentivo dire in giro che giocavo per decreto, poi arrivò il mio infortunio e in quel periodo ho sentito tante schifezze sul mio conto».
Nel maggio 2011 Mourinho chiede e ottiene da Florentino Perez la testa del direttore generale Jorge Valdano, suo arcinemico. La prima uscita ufficiale della stagione successiva si conclude, non casualmente, con la gazzarra del dito nell'occhio: se visto al rallentatore, l'attacco di Mourinho a Vilanova sembra ancora più cattivo e premeditato.
La stagione 2011-2012 è uno stillicidio continuo di tensioni e discussioni, ma nonostante questo – o forse proprio per questo – si concluderà con la vittoria della Liga, nonché con l'inizio dell'anno sabbatico scelto da Guardiola per salvaguardare la propria sanità mentale. E forse Sara Carbonero non è l'unica ben informata dei fatti, visto che il 22 gennaio, tre giorni dopo la sconfitta interna contro il Barcellona nell'andata dei quarti di Coppa del Re, anche Marca esce con una prima pagina molto eloquente in cui è riportata una conversazione tra Mourinho e Sergio Ramos avvenuta all'interno delle mura, solo apparentemente insonorizzate, di Valdebebas:
Mourinho: «Nelle interviste mi avete massacrato»
Ramos: «No mister, lei ha letto solo quello che hanno scritto i giornali, non tutto quello che abbiamo detto»
M: «Chiaro, voi spagnoli siete campioni del mondo e i vostri amici giornalisti vi proteggono... come con il portiere”
Casillas (a 30 metri dai due): “Mister, qui le cose ce le diciamo in faccia, ok?»
M: «Sergio, dov'eri sul primo gol del Barcellona?»
R: «Stavo marcando Piqué»
M: «Però dovevi marcare Puyol»
R: «Sì, però Piqué ci stava mettendo in difficoltà e abbiamo cambiato marcatura»
M: «Ah, quindi adesso giochi a fare l'allenatore?»
R: «No! Ma dipende dalle situazioni, ci sono dei casi in cui bisogna cambiare le marcature. E siccome lei non ha mai giocato a calcio, queste cose forse non le sa»
Sergio Ramos ha l'ardire di rivolgersi così a Mourinho perché sa di essere intoccabile tecnicamente, tatticamente e politicamente. Così, Mou medita a lungo su una motivazione tecnica per far fuori Casillas, che dal canto suo non le manda certo a dire. Dopo una sconfitta per 2-1 contro il Getafe a settembre, Mou dichiara urbi et orbi che i suoi giocatori sono «pigri e responsabili dei pessimi risultati». Il giorno dopo Iker gli risponde a muso duro in allenamento: «Sei tu il primo che deve fare autocritica, per quello che fai dentro e fuori dal campo. Spero che sia l'ultima volta che critichi la squadra in pubblico». Lo spalleggia ancora una volta Sergio Ramos, che porta alla luce la strisciante sensazione che, in un posto sacro come il Real, ci sia un allenatore che faccia apertamente figli e figliastri: «Perché mi hai venduto alla stampa? Perché proteggi alcuni e altri li accusi pubblicamente?», riferendosi al gruppo di portoghesi (Pepe, Coentrao, Cristiano Ronaldo) che condivide con Mourinho anche l'agente, Jorge Mendes.
Il bubbone esplode a dicembre 2012, quando Casillas viene mandato in panchina prima a Malaga e poi nella gara successiva, contro la Real Sociedad, ma all'ottavo il titolare Adan viene espulso e tocca a lui entrare: la reazione del Bernabeu è sorprendentemente un misto di fischi e applausi. La situazione precipita definitivamente nel gennaio 2013, quando Casillas si frattura una mano e il Real prende Diego Lopez dal Siviglia promuovendolo subito titolare, relegando Casillas in panchina dopo oltre dieci anni anche dopo la guarigione.
Mourinho difende pubblicamente una scelta così impopolare: «Come Casillas ha tutto il diritto di preferire Del Bosque o Pellegrini, io ho il diritto di preferire Diego Lopez. E finché allenerò il Real Madrid, il titolare sarà Diego Lopez. Avrei dovuto prenderlo già nel 2011». Siamo al puro regolamento di conti senz'alcun giovamento tecnico: il Barcellona di Vilanova vince la Liga con 100 punti, 15 in più del Real, mentre Casillas guarderà il suo collega raccogliere per quattro volte il pallone calciato in rete da Robert Lewandowski nella semifinale di Champions con il Borussia Dortmund. In primavera Casillas e Sergio Ramos vanno da Florentino: «Presi, a giugno o va via lui o andiamo via noi». Andrà via lui.
Mourinho contro Pepe
Il resoconto della relazione complicata con Pepe è ancora più clamoroso, perché parliamo di uno che ha avuto per anni il phisique du role del pretoriano di Mourinho: portoghese, alfiere di un calcio difensivo e muscolare maggiormente nelle corde di Mou, simbolo della “rivoluzione conservatrice” con cui – come abbiamo visto - José intese sfidare Guardiola nelle fatidiche quattro partite del 2011. Invece la ghigliottina cala anche su di lui.
«Casillas merita più rispetto, è un'istituzione del calcio spagnolo e del Real Madrid», dichiara Pepe a Canal Plus nel maggio 2013: e nella testa di Mourinho, che negli ultimi mesi a Valdebebas è ormai ridotto a Hitler nel bunker, questo equivale a un tradimento. E alla conferenza successiva, via col napalm: «Pepe ha un problema, e il problema si chiama Raphael Varane. Tutto qui. Non è facile per un uomo di 31 anni con un sacco di esperienza essere travolto da un ragazzino di 19 anni, un niño che io ho deciso di far giocare, una delle poche mie decisioni che non è stata contestata né dalla stampa né dal pubblico. Posso capire la sua frustrazione, non è una situazione facile per lui, la vita di Pepe è cambiata a livello sportivo».
Il 1° giugno 2013 Mourinho saluta dopo il 4-2 all'Osasuna all'ultima giornata. Quando si guarda alle spalle, per riguardare i cocci per l'ultima volta, scopre che al suo fianco sono rimasti solo in tre: Diego Lopez (e ci mancherebbe altro), Michael Essien (suo fedelissimo già al Chelsea, tanto da chiamarlo affettuosamente “daddy”) e l'ancora ingenuo Luka Modric, arrivato l'estate precedente dal Tottenham.
Mourinho contro Cristiano Ronaldo
Difatti, non gli è rimasto accanto neanche CR7. Settembre 2012: dopo una doppietta al Granada, celebrata senza ombra di esultanza, Ronaldo semina il panico. «Non esulto perché sono triste. Sono triste per motivi professionali, e la società sa il perché. Non posso aggiungere altro». Ce l'ha con Mourinho? Madrid gli è venuta a noia? Vuole solo battere cassa? Non ci è dato saperlo, ma ha comunque segnato quattro gol da agosto (due al Barcellona) e i numeri, una volta di più, sono inattaccabili.
Nel redde rationem primaverile che segue l'eliminazione dalla Champions, Mourinho non risparmia neanche l'unico portoghese più famoso di lui: «Abbiamo iniziato il campionato un po' tristi, e siccome eravamo tristi abbiamo perso punti». A giugno, i titoli di coda sono ancora i suoi: «Lui pensa di sapere tutto e che un allenatore non possa farlo crescere. Ho avuto un problema molto semplice con lui: l'ho criticato dal punto di vista tattico e non l'ha presa bene. Nelle ultime settimane diceva di essere infortunato, e non ne dubito...».
Stabilisce così un nuovo primato mondiale: unico allenatore sulla faccia della Terra che abbia osato sollevare dubbi sulla professionalità di CR7, evidentemente non al meglio della condizione nella semifinale di ritorno contro il Borussia, vinta solo 2-0 dopo l'1-4 dell'andata.
Mourinho contro Kevin De Bruyne
Dopo essere stato acquistato dal Genk per 7 milioni di sterline ed essere stato girato un anno in prestito al Werder Brema (10 gol in 33 partite e Premio come miglior giovane dell'anno), Kevin De Bruyne sbarca finalmente in Premier League nell'estate 2013, contemporaneamente al Mourinho-bis al Chelsea. Il Borussia Dortmund si fa sotto per comprarlo, ma Mourinho vuole tenerselo. Giocherà appena nove partite, equamente divise in Premier, Champions e Coppa di Lega, prima di capire la mala parata e chiedere la cessione al Wolfsburg, che avviene il 16 gennaio 2014 per 16 milioni di sterline (a lui si era interessato anche l'Atletico Madrid).
Mesi d'inferno in cui gli tocca subire addirittura il trattamento Pedro Leon, non convocato in Champions contro la Steaua Bucarest e poi sbeffeggiato pubblicamente: «De Bruyne non c'è perché non mi è piaciuto come ha giocato contro lo Swindon in Coppa di Lega e come si è allenato in questi giorni». Proprio il fatale Swindon fa segnare il punto di caduta della relazione tra i due: Mourinho lo manda ad allenarsi con l'Under-21 e gli riserva solo 5 panchine su 16 partite in Premier prima della cessione, senza sentire ragioni anche altolocate come quelle di Piet De Visser, il vecchio consigliere di Abramovich famoso per aver scovato in Brasile Romario e Ronaldo, portandoli al PSV («Il ragazzo è pronto per giocare, gli dicevo, ma Mourinho rispondeva che non si voleva allenare»).
Gli stracci proseguiranno a volare a distanza per un altro paio d'anni, in forma molto più stucchevole rispetto alle faide che vi abbiamo precedentemente raccontato. A un De Bruyne che nel 2014 elencherà petulante le cifre della sua forma fisica al Chelsea («Dopo quella conferenza stampa a Bucarest mi sono allenato ancora più duramente, ho perso tre chili e il 2% di massa grassa. Quelle critiche hanno dato un'immagine sbagliata di me»), José replicherà inflessibile che in un grande club l'allenatore è pagato per prendere decisioni.
Un Mourinho sempre più conservatore e cupo, sempre più tagliatore di teste e sempre meno allenatore. «Ci ho parlato appena due volte in sei mesi», concluderà De Bruyne, dando una violenata picconata al mito del Mourinho psicologo, taumaturgo, motivatore.
Mourinho contro Luke Shaw
Il buon Luke Shaw, uno che difficilmente diventerà Maicon, sembra appartenere alla specie dei Pedro Leon o dei Joe Cole: pesci piccoli attraverso cui Mourinho può sadicamente sfogare i suoi istinti da cattivo da kolossal Marvel. Data la rosa torrenziale dello United e la sempre più spiccata vocazione di José a tagliare teste, è finito senza troppi complimenti sulla lista nera, in (buona) compagnia di Darmian, Martial, Mata, Smalling.
Schierato finalmente titolare nella partita di FA Cup contro il Brighton, dopo un primo tempo passato a sentirsi urlare di “difendere meglio”, Shaw viene brutalmente sostituito all’intervallo. A quel punto non ci vede più e risponde alzando la voce a tal punto che, scrive il Daily Mail, il litigio oltrepassa le mura dello spogliatoio. “Why are you always picking on me?”, perché mi prendi sempre di mira? Il Telegraph parla addirittura di “bullismo” e di compagni di squadra “sconcertati” per il trattamento ricevuto.
Matt Le Tissier, grande gloria del Southampton da cui proviene Shaw, ha insinuato il tema della vendetta da consumarsi fredda: “Forse Mourinho si comporta così con lui perché ci è rimasto male quando nel 2014 Shaw ha scelto di trasferirsi allo United invece che al Chelsea, all’epoca allenato proprio da Mourinho”.
Mourinho contro Eden Hazard
Prossimo a un'altra stagione da “zeru tituli”, nel 2013-2014 José viene umiliato a domicilio dal rampante Atletico Madrid di Simeone, uno che sembra più mourinhiano di Mourinho, costretto a schierare il proverbiale autobus al Calderon per strappare lo 0-0 e per poi perdere 1-3 in casa.
Come già successo al Real, i giocatori di talento del Chelsea non hanno apprezzato. Intervistato da una radio francese in zona mista, Eden Hazard spara a zero: «Il Chelsea non è fatto per giocare al calcio, è fatto solo per correre. E quindi solo per il contropiede. L'Atletico Madrid ha meritato la vittoria [...] Spesso mi viene chiesto di fare tutto da solo e non è facile». E come spesso succede, Mourinho si difende insinuando dubbi sulle capacità di sacrificio e generosità del giocatore che lo attacca: «Certe considerazioni sono fatte in questi casi da giocatori che cercano anche di giustificare i loro errori. Nell’azione del primo gol dell’Atletico, Ashley Cole si è trovato solo. Hazard non è ancora pronto a sacrificarsi al cento per cento per il Chelsea».
Ma Hazard sarà il migliore (tanto da essere eletto Miglior Giocatore del Campionato) del Chelsea 2014-2015, che vincerà il titolo nel proverbiale secondo anno di Mourinho, prima di affondare come tutti i "Blues" nella stagione successiva, con l'allenatore esonerato a dicembre dopo una sconfitta con il Leicester di Ranieri. In un Chelsea-Porto di Champions League cruciale per la qualificazione agli ottavi dei "Blues", Mourinho lo aveva tolto sul 2-0 (ed era stato decisivo in entrambi i gol) provocandone una reazione stizzita. Qualche giorno dopo, contro il Leicester, Hazard prende un colpo da Vardy e fa platealmente segno alla panchina che non può continuare, mentre Mourinho vorrebbe che rimanesse in campo nonostante il dolore.
Il Chelsea perde 2-1 e, pur senza fare nomi, Mou sbotta in conferenza stampa: «Mi sento tradito dai miei giocatori. Abbiamo lavorato per quattro giorni su questa partita, abbiamo identificato quattro situazioni in cui il Leicester va spesso in gol e i due gol di oggi fanno parte di queste quattro. Hazard si è fatto male e subito mi ha detto che non ce la faceva. Poi ha provato a rientrare ma immediatamente è uscito di nuovo. Ha fatto tutto da solo, ha deciso in 10 secondi. Dev'essere un infortunio molto serio...».
Il belga, almeno pubblicamente, non sparerà fuochi d'artificio per l'esonero di Mourinho; anzi, dirà di avergli mandato un SMS e di sentirsi colpevole per la brutta stagione. Ma l'anno dopo, Hazard parlerà di Conte in questi termini: «Sono lo stesso giocatore dell'anno scorso, quando le cose erano andate male. Ma Conte sa come trattare i giocatori, essendo stato lui stesso un giocatore di alto livello». Dopo Sergio Ramos, un altro giocatore che per vendicarsi di Mourinho cerca di ferire il suo orgoglio rivangando il suo passato.
Mourinho contro Samuel Eto'o
La seconda esperienza al Chelsea rappresenta l'evidente “salto dello squalo” di Mourinho (espressione gergale dell'ambiente televisivo americano per indicare una serie TV che ha imboccato la parabola discendente). Nella medesima stagione 2013-2014 Mourinho si fa prendere in castagna da un fuori onda trasmesso da Canal Plus, in cui ironizza pesantemente sull'età del suo vecchio/nuovo attaccante Samuel Eto'o: «Il problema del Chelsea è che ci manca uno che faccia gol. Ne ho uno ma ha 32 anni, o magari 35, chi lo sa?».
Grande imbarazzo e gelo tra i due, in un rapporto già freddino ai tempi dell'Inter, quando ogni tanto il camerunese riceveva una strigliata per non essersi applicato quotidianamente al 100%. Prima dei Mondiali 2014, interpellato sulla sua carta d'identità, Eto'o sarà tranchant: «Ho 33 anni. Non è perché un idiota ha detto diversamente che bisogna credergli». Ma già in stagione, dopo un gol segnato al Tottenham, aveva festeggiato mimando sarcasticamente un mal di schiena.
Mourinho contro Bastian Schweinsteiger (o anche: il suo solo pentimento)
Nell'estate 2015, a 32 anni, dopo 17 anni di Bayern Monaco e una coppa del Mondo, Schweinsteiger inizia la sua avventura in Premier League firmando un triennale con il Manchester United (che lo paga 6 milioni e mezzo di sterline). Il primo anno è decoroso, anche se i Red Devils di Van Gaal non sono proprio uno schiacciasassi e lui non è il pilastro di centrocampo che si aspettavano i tifosi: a gennaio si fa male al ginocchio contro lo Sheffield United e da allora gioca solo quattro partite di campionato. Quando in estate arriva Mourinho, lo mette immediatamente nella lista dei partenti; al suo rifiuto di risolvere il contratto e di accettare una transazione da 11 milioni di sterline in luogo dei 18 che ancora gli spettano, viene posteggiato negli Under 23 ed escluso dalla lista per l'Europa League.
Il fratello Tobias (viceallenatore degli Under 17 del Bayern) twitta un laconico “no respect”. Interpellato sulla questione, Mourinho veste ancora una volta i gelidi panni del super manager d'azienda: «Ha un contratto con il Man Utd e ha deciso di rimanere. Non è un nostro problema, il calcio è fatto di decisioni, è stato così per la mia intera carriera. Bastian non parla molto di questa cosa, è libero di farlo ed è libero di usare i social nel modo corretto e obiettivo che sta adoperando».
Viene reintegrato in rosa a fine novembre a causa dei tanti infortunati, ma non giocherà che 4 partite in tutto (e nessuna di Premier) fino al 21 marzo, quando approfitta della finestra di mercato ancora aperta in America e si trasferisce in MLS, ai Chicago Fire, salutato da un Mourinho non particolarmente commosso: «Era spesso fuori per infortunio, non si è mai curato all'interno del club. Ho pensato che non avesse la giusta mentalità, era il tipo di giocatore che non mi piaceva avere in squadra». L'affaire Schweinsteiger non ha nulla di troppo interessante, trattandosi anche di un giocatore evidentemente a fine carriera, a eccezione di un dettaglio inedito: il mea culpa recitato da Mourinho nel marzo 2017, a buoi abbondantemente scappati.
«Non sono stato giusto con lui. Lui è uno di quei giocatori nei confronti del quale mi sento in difetto e gliel'ho detto che non sono stato giusto con lui e da adesso lo sarò. Mi pento e non è un problema per me ammetterlo. Così, quando mi ha chiesto di poter andare via gli ho detto di sì. Perdiamo un bravo ragazzo, un grande professionista. Probabilmente avremmo avuto ancora bisogno di lui ma dovevo lasciarlo andare».
Mourinho contro Romelu Lukaku
Dulcis in fundo, la polemica rientrata e il sole che torna a splendere dopo il temporale. Nell'estate 2013 Romelu Lukaku rientra dal prestito al WBA, dove ha fatto benissimo (17 gol), e il rientrante Mourinho è ben lieto di poter lavorare con lui, riempiendolo di complimenti anche nella tournée estiva in Malesia. Ma il rigore sbagliato nella finale di Supercoppa Europea contro il Bayern dell'acerrimo nemico Guardiola, agosto 2013, unico errore su dieci tentativi, cambia le cose. Non ci sono riscontri immediati del cambio di relazione tra i due, ma pochi giorni dopo Lukaku viene subito ceduto in prestito all'Everton, ed è una decisione tutta del giocatore.
A Goodison Park, Lukaku riprende a segnare e commenta: «Sono stato allenato da Mourinho per due mesi ed è stata un'esperienza speciale. Sta ricostruendo le fondamenta di una macchina invincibile. Non abbiamo avuto alcun tipo di problema: lui voleva che rimanessi e mi ha chiesto perché volessi andarmene, e alla fine ha capito i miei desideri e mi ha lasciato andare. L'ho apprezzato molto». Il ragazzo è loquace, e a novembre torna ancora sulla situazione estiva: «È una situazione un po' strana, non sento nessuno del Chelsea da due mesi. Se giocassi con loro avrei giocato forse cinque partite e avrei segnato uno o due gol. Ma adesso in Inghilterra tutti parlano di me». Ricevendo la risposta di Mourinho, graffiante come ai vecchi tempi: «Romelu è un ragazzo giovane che parla troppo. Si chieda perché oggi non è qui. Ci pensi: perché gioca nell'Everton e non nel Chelsea? E l'ultima volta che l'ho sentito gli ho chiesto esattamente questo: perché non dici il motivo per cui te ne sei voluto andare? Se ti piace parlare, parla di tutto, non parlare solo a metà. Perché sei voluto andare via dal Chelsea? Chiedeteglielo».
Lukaku si trasferisce all'Everton a titolo definitivo, segna valanghe di gol e nel giro di tre anni torna uno dei centravanti più appetiti sul mercato interno. Nell'estate 2017 il Manchester United di Mourinho paga Lukaku a peso d'oro con i buoni uffici di Mino Raiola, strappandolo al Chelsea. Evidentemente il ragazzo è cresciuto, perché arrivano solo parole al miele per il suo nuovo allenatore: «La prima volta ero molto giovane e volevo giocare. Quando gli ho chiesto di andare via ha capito. Oggi ho 24 anni, sono cresciuto e lui ha visto quanto sia maturato. Per questo lo ringrazio per avermi dato una nuova opportunità. È l'uomo perfetto per la mia crescita».
E così, quando a fine novembre Lukaku ha avuto un breve periodo d'astinenza, Mourinho l'ha difeso fino alle soglie del grottesco: «Penso che abbia bisogno di un grosso contratto per le sue scarpe perché al momento non ha un contratto con nessuna marca, è per questo che gioca con le scarpe nere. Il suo accordo è finito e ora sta aspettando l’offerta appropriata. Serve un marchio che gli dia le scarpe giuste e lo paghi il giusto prezzo e poi ricomincerà a segnare».
Lukaku è uno dei pochi titolari inamovibili di un Manchester United che ha speso tantissimo e sta rendendo discretamente (secondo in campionato, in finale di FA Cup; ma anche l'eliminazione agli ottavi di Champions League contro il Siviglia) senza però entusiasmare nemmeno i suoi tifosi. Il sentimento dei giocatori e del pubblico nei confronti delle squadre di Mourinho riflette anche la sua parabola da comunicatore-manipolatore, a seconda del punto di vista. Se all'apice della sua carriera l'allenatore portoghese sembrava poter cambiare il contesto utilizzando solo un microfono, adesso anche un Lukaku qualsiasi riesce a portarlo dalla sua parte.