
«Ha cambiato il modo di giocare, ma soprattutto ha cambiato il mondo». Non si può trovare una manciata di parole più adatta per ricordare Dikembe Mutombo di quelle che ha scelto martedì Michael Jordan, commentando la tragica notizia appena sopraggiunta: la scomparsa dell’ex stella NBA per un tumore al cervello, all’età di 58 anni. Sulla stessa lunghezza d’onda, al breve tributo di MJ si sono accodate tantissime altre voci dentro e fuori la lega, unite dall’urgenza di sottolineare un aspetto: se i traguardi raggiunti da Mutombo sul campo sono stati qualcosa di grande, da celebrare, ciò che ha realizzato lontano dal parquet lo è ancora di più. «Non importa cosa sapete di lui come giocatore di basket», ha confermato Stephen A. Smith, che durante i suoi anni al Philly Inquirer ha lavorato a stretto contatto con l’ex centro, tra le altre squadre, dei Philadelphia 76ers. «Era un essere umano ancora migliore, una delle persone più incredibili che abbia mai visto». “Larger than life”, invece, l’espressione usata dal commissioner Adam Silver - e mai quanto nel caso di Mutombo, non si tratta di sola retorica, anzi.
La morte del gigante di Kinshasa lascia infatti un vuoto grande quanto lo spazio che il suo viaggio - in NBA e nel mondo - ha creato, e poi dilatato, a beneficio delle vite di tante persone e in particolare delle nuove generazioni di atleti africani. Se sotto ai tabelloni Mutombo, riconosciuto come uno dei migliori difensori di sempre, ha fatto del rifiutare e del rispedire al mittente un’arte, quella della stoppata, nel resto del suo tempo ha rappresentato un esempio con pochissimi eguali di accoglienza, di impegno in campo sociale e di sforzo, concreto, per unire le persone. Ciò che nel basket di solito fa un playmaker, in un certo senso: creare linee di passaggio per raggiungere i più isolati e dare loro un tiro aperto. E non soltanto in ambito sportivo e nel continente che chiama “casa”, come aveva ricordato in una recente intervista: «In questo mondo non vivo da solo, sono circondato da persone di diversa cultura, lingua e provenienza: non mi prendo cura di persone congolesi o africane, mi prendo cura di persone e basta».
Da giovane, Mutombo sognava di diventare un medico, prima che le doti fisiche e il talento cestistico prendessero il sopravvento; ciò nonostante, ha dedicato gran parte della sua carriera e soprattutto del suo tempo dopo il ritiro, senza esagerare, a salvare vite. Quelle di centinaia di migliaia di congolesi che hanno avuto accesso alla cure nell’ospedale da lui fondato a Kinshasa, ad esempio. Parlava nove lingue, era laureato in diplomazia ed è stato il primo Global Ambassador dell’NBA, ma a renderlo un “global citizenship” - un “cittadino del mondo”, come amava definirsi - è l’aver genuinamente messo gli altri davanti a se stesso. O meglio, se stesso al servizio degli altri. Ed è per questo che all’indomani della sua resa di fronte all’unico avversario cui non è riuscito a dire “no, no, no” - la malattia contro cui lottava dal 2022 - in tanti si sono spesi per ringraziarlo un’ultima volta e tenere in vita il suo insegnamento.
La leggenda
Dikembe Mutombo Mpolondo Mukamba Jean Jacque Wamutombo era il settimo di dieci figli, nato a Kinshasa, capitale dell’attuale Repubblica Democratica del Congo (il fu Zaire, o “Congo belga”). Ha giocato a calcio e praticato arti marziali, prima di lasciarsi convincere che avrebbe potuto sfruttare maggiormente una struttura fisica del genere, ad esempio nel basket. A 17 anni, d’altronde, si aggirava già intorno ai due metri e dieci di altezza, cui abbinava insolite doti atletiche per uno di quella stazza. Non ci volle molto per vederlo attraversare l’Oceano e volare a Georgetown University, Washington, con una borsa di studio in medicina; alla fine cambierà indirizzo, diplomandosi in linguistica e relazioni internazionali, e soprattutto seguirà il suo destino, diventando - sotto la guida di coach John Thompson, icona del college basketball - uno dei migliori prospetti nazionali, e dichiarandosi eleggibile per l’NBA Draft 1991. Lo scelsero con la quarta chiamata i Denver Nuggets, punto di partenza di una carriera che nel 2015 verrà consacrata nella Hall of Fame di Springfield.
In maglia Hoyas aveva messo in mostra tutte le sue potenzialità nella protezione del ferro, arrivando nel secondo anno a collezionare 4.7 stoppate a partita, oltre a 15.2 punti e 12.2 rimbalzi. Al piano di sopra, poi, le sue doti nella difesa del pitturato sono deflagrate piuttosto in fretta e a tal punto da spingere la stampa a coniare l’espressione “house of Mutombo” per indicare quella porzione di campo che il congolese ha fatto propria, una stoppata dopo l’altra, fino a quota 3.289 tiri respinti (secondo solo ad Hakeem Olajuwon nella storia della lega).
«Non si poteva volare nella casa di Mutombo», ha detto in un’intervista dopo il ritiro, ridendo, con la sua espressione fraterna e quella voce che sembrava quasi rimbombare, tanto era profonda. «Mi sentivo il capo, ero il capo: nessuno poteva entrare nel pitturato a meno che non bussasse alla porta e chiedesse il permesso». Al suo apice ha raggiunto le 4.5 stoppate a gara, ma il suo impatto difensivo non si limitava a questo, come confermano le quattro nomine di Difensore dell’Anno. Non verrà certo ricordato come un realizzatore - dimenticatevi degli “stretch five” moderni, Dikembe ha tentato due triple in carriera - ma complessivamente come uno dei migliori centri della sua epoca, senz’altro. Anni in cui peraltro non mancava la concorrenza sotto le plance, anzi.
Diciotto stagioni nella lega, sei maglie indossate (Nuggets, Hawks, 76ers, Nets, Knicks e Rockets), di cui due ritirate, otto All-Star Game e tre selezioni All-NBA: questa, in estrema sintesi, la sua lunga carriera oltreoceano in cui l’unico rimpianto è l’assenza di un anello, sogno soltanto accarezzato nelle Finals del 2001 e del 2003, perse entrambe. Il posto che occupa nei ricordi del pubblico, però, è andato anche oltre ai traguardi che ha raggiunto. E questo perché “Mount Mutombo” - altra espressione coniata per le sue doti intimidatorie - ha regalato emozioni e istantanee indelebili, che apparterranno eternamente all’immaginario collettivo del mondo NBA. Si può dire che in un dibattito impossibile sui giocatori più iconici di sempre, il congolese avrebbe voce in capitolo.
L’icona
Chiunque abbia familiarità con l’universo cestistico, non necessariamente americano, sa già di cosa stiamo parlando: del suo marchio di fabbrica, uno dei più riconosciuti ed emulati su campi e campetti a qualsiasi latitudine, anche a decenni di distanza. “No, no, no”, l’indice che si alzava al cielo per ricordare che anche quella volta, in “casa sua”, non c’era stato niente da fare. Era il gesto che seguiva ogni sua stoppata, mentre la palla atterrava nelle prime file del pubblico, dall’altra parte dell’area, o comunque non nei pressi del ferro. Non c’è dubbio che la “finger wag” di Mutombo sia una delle signature moves più celebri nella storia del gioco, tanto da finire in diverse pellicole di Hollywood dei primi anni 2000, oppure nello stupendo spot pubblicitario di GEICO del 2013, che ha contribuito a trasmettere il mito alle nuove generazioni.
Il suo gesto provocatorio è nato come una forma di celebrazione, e ha finito per diventare una deterrenza psicologica per gli avversari. Ormai nella lega lo sapevano tutti: “Mount Mutombo” non avrebbe saltato alle finte, non avrebbe perso verticalità seguendo i movimenti dell’avversario, e avrebbe staccato con tempismo perfetto e con tutta la sua estensione (228 centimetri di apertura alare) per respingere gli avventurosi tentativi di chi lo sfidava al ferro. Di sicuro non se ne può essere scordato Clarence Watherspoon, ai tempi giocatore dei Sixers, che nel 1997 è diventato suo malgrado protagonista di una delle sequenze più incredibili mai viste su un campo da basket: la triplice stoppata di Mutombo, con altrettanti “finger wag”.
Verso la fine degli anni ‘90, l’NBA e alcuni suoi allenatori si erano stufati di tutto ciò. David Stern, numero uno della lega, gli chiedeva espressamente di darci un taglio, mentre gli arbitri iniziavano a sanzionarlo sempre più spesso con un fallo tecnico. La cosiddetta regola “anti-taunting”, che puniva varie forme di interazioni provocatorie nei confronti di un avversario, lo costrinse a una leggera modifica: il suo “no, no, no” sarebbe stato rivolto agli spalti, e non alla vittima della stoppata. «Alla fine gli abbiamo detto che poteva farlo, ma solo verso il pubblico» racconta l’allora general manager degli Hawks, Pete Babcock. «Tuttavia, devo dirvi una cosa», ha confessato Dikembe dopo il ritiro. «Ho perso un sacco di soldi a causa di quel gesto, ho preso tanti falli tecnici… e lavorando per NBA, mi sono reso conto di aver contribuito alla crescita della lega, con tutte le mie multe!».
Probabilmente il momento in cui irritò maggiormente coach Lenny Wilkens, suo allenatore negli anni ad Atlanta, fu durante le semifinali di Conference del ‘97 contro i Chicago Bulls, durante la terza gara della serie. In quell’occasione un suo “no, no, no” rivolto al pubblico gli fece perdere di vista il gioco per qualche istante, non accorgendosi che ci fosse ancora del lavoro da svolgere per completare l’azione difensiva; ne approfittò Scottie Pippen, che recuperò la palla e andò indisturbato a schiacciare proprio davanti ai suoi occhi.
Tre anni prima di questo dimenticabile incidente di percorso, Mutombo aveva invece regalato all’NBA uno suoi instant classic più intramontabili, nei playoff del 1994. I Denver Nuggets avevano appena vinto, dopo tempi supplementari, il quinto e decisivo atto contro i Seattle SuperSonics, testa di serie numero uno della Western Conference. Era un upset mai visto: dalla nascita della lega, nessuna squadra era stata eliminata al primo turno dopo aver chiuso in vetta la stagione regolare, e il principale artefice dell’impresa era proprio il gigante da Kinshasa, che aveva contribuito tra le altre cose con 8 punti, 15 rimbalzi e 8 stoppate.
Il “playmaker”
Seguendo lo schema tracciato da Michael Jordan, siamo partiti dal grande giocatore prima di arrivare, “soprattutto”, all’impatto che Mutombo ha avuto lontano dai campi NBA. Una volta, dopo aver ottenuto la cittadinanza da Washington, gli venne stato chiesto se sentisse di starsi “americanizzando”. La sua risposta è emblematica di quanto arrivare, nella sua vita e nel suo modo di guardare il mondo, fosse uno strumento per restituire. «Non sto cercando di americanizzarmi, perché nella società americana quando si ha successo lo si fa per se stessi. Nella società africana, invece, si ha successo per la propria famiglia. Io sono stato aiutato da tante persone mentre crescevo, e ora tocca a me aiutare le persone».
Nell’estate del 1996, scaduto il contratto “da rookie” e salutato il Colorado, Mutombo approcciò alla free agency con due sfere di priorità in testa: la prima, al pari di ogni suo collega, la ricerca di una situazione tecnica e salariale soddisfacente; la seconda, non meno importante, la volontà di trasferirsi a vivere in una città che gli avrebbe consentito di massimizzare il suo impatto sociale. Pete Babcock ha raccontato in un’intervista del 2022 quanto fosse importante quest’ultimo aspetto durante la trattativa con gli Hawks: «Quando abbiamo firmato Dikembe, abbiamo cercato di fargli capire quanto Atlanta fosse variegata e la centralità della comunità afroamericana rispetto alla maggior parte delle grandi città americane. Nella prima estate in cui l’abbiamo ingaggiato, lui comprava scuolabus e li spediva in Congo, e parlava di quanto fosse instabile il Paese a causa delle guerre civili, soprattutto per quanto riguarda le strutture mediche».
Oltre a ritenerlo il giusto secondo capitolo della propria avventura in NBA, dunque, Mutombo decise di accasarsi ad Atlanta intravedendo nella capitale della Georgia “una base ideale per la fondazione che progettava di istituire”. Vale a dire la Dikembe Mutombo Foundation, che dal 1997 ha avviato la sua attività per migliore la salute, l’educazione e la qualità della vita nella Repubblica Democratica del Congo. Negli anni a venire, grazie alla popolarità acquisita, si è battuto per raccogliere fondi da destinare alla costruzione di un ospedale a Kinshasa, e in generale per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni critiche del suo e di tanti altri Paesi del continente africano. Non è andato tutto come previsto - «pensavo che bastasse chiamare tutte le persone ricche che conoscevo per il fatto di essere un giocatore di basket, ma non è stato facile» - ma alla fine, con un cospicuo contributo dello stesso Mutombo (più di 15 milioni di dollari), il Biamba Marie Mutombo Hospital nel 2007 è stato inaugurato. Pronto ad accogliere le tantissime persone bisognose nella terza città più popolosa del continente, in cui più della metà degli abitanti vivono in condizioni di povertà.
I progetti umanitari di Mutombo negli ultimi trent’anni non si limitano, anzi, a questo gigantesco investimento. Prima ancora della Dikembe Mutombo Foundation, aveva pagato di tasca propria la trasferta della nazionale femminile della RDC ai Giochi olimpici del 1996 ad Atlanta; e come anticipato, è stato il primo ambasciatore globale dell’NBA. Ha lavorato in prima linea, poi, in diversi progetti di Special Olympics e UNICEF, è stato portavoce di CARE, ha finanziato la campagna di vaccinazione Covid in svariati Paesi africani, ha fondato la Mutombo Coffee per supportare le aziende agricole gestite da donne congolesi, ha stanziato oltre tre milioni di dollari per la costruzione e l’apertura gratuita di una scuola a Tshibombo, il villaggio dove erano cresciuti i suoi genitori - e la lista potrebbe allungarsi quasi all’infinito. Nel suo piccolo, ha anche adottato quattro figli di cognati defunti, oltre ai tre già messi al mondo insieme alla moglie Rose.
«Che tipo di investimento stiamo facendo», ha chiesto Mutombo in un’intervista di qualche anno fa, «per assicurarci che le prossime generazioni abbiano le risorse necessarie per il futuro? Me lo chiedo spesso. Molti non stanno facendo abbastanza, specialmente in Africa. C’è ancora molto da fare, dobbiamo unire le nostre risorse per un futuro migliore. Forse non vivrò più in Africa in futuro, ma prima voglio aiutare questa generazione, visto che alla mia è stato dato poco o nulla».
Il pioniere
Poco dopo aver annunciato la quarta scelta del Draft 1991, David Stern strinse la mano a Mutombo, gli diede il benvenuto in NBA e gli disse che un giorno avrebbe voluto andare in Africa con lui. Quel momento sarebbe arrivato di lì a poco, nel 1993, quando i due intrapresero insieme ad altri giocatori e membri della lega un tour nel continente, culminato nell’incontro con Nelson Mandela a Johannesburg. Ai tempi Stern stava spingendo l’NBA nel vivo del progetto di globalizzazione che consegnerà poi ad Adam Silver, come confermano gli sforzi per aprire nuove connessioni e guadagnare popolarità in ogni continente; Mutombo invece stava raccogliendo il testimone di Hakeem Olajuwon (nigeriano) e Manute Bol (sudanese), nel tentativo di aprire nuovi canali tra lega professionistica americana e pallacanestro africana.
Quando era ancora in attività, “Deke” ha sempre trovato il tempo durante l’offseason per tornare a casa e partecipare a clinic e camp rivolti ai più giovani. In seguito al ritiro, poi, l'impegno si è intensificato con l’adesione a progetti ed eventi come Basketball Without Borders, NBA Africa Games e Giants of Africa, grazie a cui un’infinità di giovani del continente ha intravisto la possibilità di “Dream Big”, “sognare in grande” come recitava un noto slogan. Tracciando un percorso per consentire loro di provare a seguire le orme sue, di Olajuwon e Bol.
«Lo abbiamo ammirato tutti, ogni ragazzo congolese, ogni ragazzo africano», ha detto Jonathan Kuminga, ala nativa della RDC durante il media day dei Golden State Warriors. «È stato il primo congolese a giocare nella NBA e ha aiutato molti ragazzi come me a raggiungere i loro obiettivi. Era un grande». Sulla stessa falsa riga le parole di Joel Embiid, camerunense, e di Giannis Antetokounmpo, greco di origine nigeriana, che insieme hanno vinto tre degli ultimi sei premi di MVP. Le due stelle di Philadelphia e Milwaukee hanno così raccolto il testimone di Olajuwon, l’unico africano che ci era riuscito in precedenza, non per niente considerato - con piena liceità - il miglior giocatore di sempre del continente. Se ne facciamo una questione di possibilità generate per le future generazioni, però, la fiaccola porta senza dubbio il nome di Dikembe Mutombo, che sostanzialmente è il motivo per cui è nata e si è sviluppata la Basketball African League (BAL), inaugurata nel 2021 e patrocinata da NBA e FIBA.
Negli ultimi mesi sono sbarcati nella lega i primi due figli della BAL: Ulrich Chomche e Babacar Sane, rispettivamente di nazionalità camerunense e senegalese, che si sono uniti ai Toronto Raptors di Masai Ujiri (altra pietra angolare del boom cestistico africano) e agli Utah Jazz. A loro si potrebbe aggiungere anche Khaman Maluach, originario del Sud Sudan e aggregato ad aprile scorso alla squadra di uno degli atenei più prestigiosi in assoluto, Duke University. Chissà quanti ce ne saranno dopo di loro, e quanti dedicheranno un pensiero al già compianto Dikembe, nel contesto di una lega sempre più internazionale e accogliente per i cestisti in arrivo da ogni dove. Nel 2024, il 10% dei giocatori NBA ha almeno un parente africano, tra cui due degli ultimi tre MVP, e non è del tutto improprio parlare di effetto-Mutombo in tal senso.

L’ex commissioner David Stern, che ha prima stimolato e poi incarnato la fame espansiva dell’NBA a ogni latitudine, non ha mai mancato di sottolineare l’impatto monumentale del congolese in questo processo. Nei suoi confronti, anzi, ha sempre espresso un profondo debito di riconoscenza, che ha trovato una straordinaria conferma nel 2013, anno della morte del padre di Dikembe, Samuel Mutombo. La sua famiglia voleva organizzare un funerale a Kinshasa, ma considerata l’instabile situazione politica del Paese e la violenza diffusa nella capitale, nonché l’esposizione mediatica dell’ex giocatore NBA e dei suoi familiari, l’iniziativa venne fortemente scoraggiata. A renderla possibile fu proprio Stern, che sfruttò le sue conoscenze e il potere di influenza (sì, anche nella politica internazionale) per negoziare un cessate il fuoco di qualche ora, consentendo a Dikembe e ai suoi fratelli di prendere parte al funerale del padre. Un traguardo incredibile anche agli occhi di chi “ha cambiato il mondo”.
L’eredità
Se una parte di ciò che questo gigantesco atleta e essere umano ha lasciato in dono è già stata scartata dai suoi beneficiari, un’altra non trascurabile riguarda ciò che ha insegnato su come gli sportivi possano essere un potente veicolo del cambiamento. «Ha cambiato il modo in cui gli atleti pensano al tipo di impatto che possono avere fuori dal campo», ha sottolineato ieri Barack Obama, una delle tante firme che si sono iscritte al toccante tributo versato dopo la triste notizia di martedì. Possono sembrare parole quasi vuote di significato, a leggerle oggi, ma non è affatto così e soprattutto non lo era trent’anni fa. Anche in una lega che grazie a figure come Bill Russell e Kareem Abdul-Jabbar, ad esempio, e alle loro battaglie civili, aveva interiorizzato da tempo il concetto di “more than athletes”. Mutombo ha ridefinito infatti il raggio d’azione dell’impegno sociale dell’NBA, e sarebbe limitante circoscrivere il suo operato al solo continente africano, di fronte a un uomo che ha abbattuto barriere, confini e distanze.
«La pallacanestro è stata un veicolo che ho usato per andare nella direzione in cui sto andando», aveva detto recentemente a Sports Illustrated. Mutombo, del resto, non ha smesso di giocare fino ai 43 anni di età, nonostante la presenza sempre più ingombrante di problemi fisici e acciacchi negli ultimi anni della sua carriera. Il motivo? «Non posso smettere di giocare a basket», spiegava nel 2003 al New York Times, «ci sono migliaia di persone che vivono grazie a me».
Come dice un proverbio che Dikembe citava spesso, “quando prendi l'ascensore per arrivare in cima, non dimenticare di rimandare giù l’ascensore, in modo che qualcun’altro possa portarlo in cima”. E da qualunque prospettiva si osservi la sua scalata al Mount Mutombo, è stata davvero un’impresa memorabile.