Il Creatore del Contesto
di Daniele V. Morrone (@DanVMor)
In quella che è probabilmente la più bella azione della stagione, Steph Curry sfrutta un blocco di Bogut su Chris Paul per entrare in area, evita l’aiuto di Barnes e successivamente con un palleggio tra le gambe che trasforma in un dietro la schiena evita l’intervento di Jordan e il ritorno di Paul, per poi spostare la palla palleggiando con la mano sinistra allontanandosi da Spencer Hawes e uscire dall’area. Una volta tornato fuori, dando le spalle al canestro riesce a girarsi e infilare la tripla guardando effettivamente il canestro solo mentre sta già effettuando il movimento di tiro.
Il suo allenatore Kerr spalanca le braccia incredulo. Il commentatore Van Gundy se ne esce con un: «Questa potrebbe essere la più bella azione che io abbia mai visto dal vivo» e alle risate dei compagni di commento che la prendono come una battuta aggiunge: «No ma dico sul serio». Il pubblico di Oakland passa da un «ooohhh» al momento del tra-le-gambe-dietro-la-schiena ad andare fuori di testa nel momento in cui entra la tripla, riuscendo quindi a passare due gradi di stupore nell’arco dei cinque secondi che intercorrono tra quando Steph prende palla a quando la fa finire nel canestro.
In questa azione c’è tutto il basket di Curry. Steph è un giocatore sommamente creativo, ma non sarebbe tanto efficace se alla creatività non si aggiungesse il lavoro parallelo di analisi che fa il suo cervello, per rendere reali le azioni da lui immaginate: il controllo del pallone, il controllo del corpo per mantenere l’equilibrio, il controllo degli spazi e dei tempi per leggere gli aiuti e la posizione del canestro. La capacità di essere creativo e allo stesso tempo in controllo di sé stesso e di ciò che succede in campo fanno di Steph il Creatore del Contesto in cui si gioca. Ovvero, quando è in campo si gioca alle sue regole e l’unico modo per limitarlo, oltre a sperare che non sia in giornata, è stravolgere tutto il sistema difensivo per aggiustarsi ai dettami da lui imposti.
Ci sono altri Creatori di Contesto nella Lega, ma nessuno ha raggiunto in questa stagione il livello di consapevolezza nei propri mezzi del 30, una fiducia tale da permettergli ad esempio due triple consecutive per forzare una rottura nel punteggio e riportare i Grizzlies da -6 a -12 dopo un digiuno offensivo dei suoi in Gara-1 o di segnare la tripla del pareggio allo scadere contro NOLA con Davis che gli piomba addosso, appena dopo averne sbagliata una. Per colpa di Curry gli avversari si trovano nella situazione di dover battere i Warriors sia tecnicamente che mentalmente e in questa stagione pochissime squadre ci sono riuscite—neanche la grande difesa di Memphis nei PO è riuscita a tenerlo buono per più di due partite consecutive. Se dovesse vincere il titolo concluderebbe una stagione storica, ma già adesso per me ha il titolo di miglior point guard della Lega, perché non esiste un giocatore in grado di segnare in qualunque modo, così creativo, così in controllo e con una volontà tale da poter indirizzare la narrativa della partita. Il Creatore di Contesto definitivo.
Il più prezioso di tutti
di Nicolò Ciuppani (@NickRamone)
Curry ha vinto il premio di Most Valuable Player, dove per “Valuable” passano tutte le considerazioni personali del caso: si può discutere se sia stato il giocatore migliore in assoluto per tutta la regular season, o se si è trattato del giocatore d’attacco più forte della miglior squadra della Lega. Fino a poco tempo fa il “valuable” non era misurabile, ma come spesso succede le statistiche avanzate vengono incontro anche in questo caso.
Da Basketball-Reference.com, eccovi la classifica di questa stagione secondo il Value Over Replacement Player:
1. Stephen Curry ▪ GSW 7.9
2. James Harden ▪ HOU 7.8
3. Russell Westbrook ▪ OKC 7.6
4. Chris Paul ▪ LAC 6.9
5. LeBron James ▪ CLE 5.9
6. Anthony Davis ▪ NOP 5.7
7. Damian Lillard ▪ POR 5.2
8. Marc Gasol ▪ MEM 4.6
9. Draymond Green ▪ GSW 4.4
10. DeAndre Jordan ▪ LAC 4.3
Per i più nerd là fuori la spiegazione della statistica si può trovare qui. Per tutti gli altri vi basti sapere che, per una qualunque squadra media di quest’anno, Curry sarebbe stata la cosa di maggior valore che sarebbe potuta scendere in campo ogni sera. La parte bella della classifica è che potrebbe benissimo essere quella finale per il trofeo di MVP e nessuno troverebbe troppo da ridire.
Ma avere il valore maggiore non vuol dire per forza essere il migliore in assoluto, per quanto i due concetti all’apparenza potrebbero andare parallelamente uno di fianco all’altro. Parlare di point guard presume poi affidarsi ai concetti di ruoli classici del gioco, che potrebbero a tutti gli effetti essere superati, ma che possono ancora essere il punto di riferimento per qualcuno.
Su queste basi «il ruolo della PG è quello di far girare l’attacco della squadra controllando la palla e assicurandosi che arrivi al giocatore giusto al momento giusto. Soprattutto la PG deve capire e accettare in pieno il piano di gioco dell’allenatore; in questo modo può essere assimilata a un quarterback nel football americano».
Se dovessi leggere un giocatore, presente o passato, sulla base di quanto scritto, probabilmente il primo giocatore che mi viene in mente non è Curry. E forse nemmeno il secondo. Il gioco di Curry è affascinante per le sue capacità di creare un vantaggio enorme per la sua squadra sfruttando la paura e il rispetto che incute negli avversari: da questo punto di vista Curry è molto più simile a LeBron James di quanto non lo sia a John Stockton. La forza di LeBron è quella di avere un corpo da carro armato che gira a velocità fuori portata, quella di Curry non è il dominio fisico (anche se è alto all’incirca come Pogba) ma la capacità di mettersi in posizione di tirare efficacemente a canestro da qualunque posizione sul campo in un qualunque secondo dei 24 a disposizione. Grazie a quello Curry riesce ad aggiungere al suo repertorio tutto il resto: gli assist ai compagni smarcati per via della sua presenza in campo, i movimenti senza palla che fanno scattare l’allarme rosso nelle difese avversarie ogni volta che accelera il passo lontano dal portatore o, per noi malati, la capacità di accendersi e segnare a ripetizione.
Il tiro di Curry analizzato al microscopio.
Che è anche il motivo per cui è anche il giocatore più divertente in assoluto, oltre che quello con il maggior valore.
Steph prima che diventasse Curry
di Andrea Beltrama (@andreabeltrama)
Marzo 2008. Notti di sofferenza e adrenalina. La comunicazione passava attraverso i trilli di MSN. «Oh, ci sei?». Non serviva la sveglia. Le partite della March Madness si susseguivano in blocco, senza pietà. La sfida non era alzarsi. Era non addormentarsi. I trilli aiutavano a combattere. «Sì, ci sono».
C’erano i gemelloni Lopez a Stanford. Kevin Love a UCLA. Wesley Matthews a Marquette. Derrick Rose a Memphis. E poi c’era Steph. Un caso a parte. Uomo bionico di Davidson College. A metà marzo girava già la voce. Su MSN, ovviamente. «Occhio, che questo è interessante». Le informazioni, ai tempi, non erano soffocanti. Gli idoli, specie quelli di cui i siti di mock draft parlavano poco, andavano cercati con cura. Ma nella setta di noi invasati Steph era già un investimento sicuro.
Steph non tradì e alla prima uscita trafisse Gonzaga: 40 punti. Prima vittoria al torneo per Davidson dal 1969. Poi uccellò Georgetown, fresca di Final Four la stagione prima: 25 punti nel solo secondo tempo, rimonta da -17. Era già abbastanza per la storia, ma non si volle fermare. Il weekend successivo distruzione di Wisconsin: 33 punti. Poi la sfida impossibile. Kansas, favorita. Se non per il titolo, almeno per la finale. Una vittoria lì, e la storia non sarebbe più stata scritta. Sarebbe stata sfondata.
La partita fu combattuta. I Jayhawks prepararono bene la difesa su Curry. Mario Chalmers era una piovra, Darrell Arthur e Sasha Kaun giganti in aiuto. Ma Steph non si lasciò intimorire. Coinvolse i compagni, tenendo aperti i giochi. Steph non era solo un tiratore. Era un computerino minuscolo che andava al triplo degli altri. La stretta marcatura su di lui liberò la scena a improbabili personaggi: Bryant Barr, pallidissimo eroe di culto del Maine soprannominato “The White Lobster” (l’aragosta bianca), sganciò due triple. Poi Curry ricominciò a segnare.
Meno 2, ultimo possesso. Palla della vittoria. Kansas difende benissimo, Curry, ancora una volta, preferisce leggere. Scarico su Jason Richards, il compagno di playmaking. Siamo a 8 metri dal canestro, ma c’è spazio. Un tiro decente, sbilenco. Kansas sopravvive. La folle corsa di Steph si ferma.
La prima azione del video porta già il suo marchio di fabbrica.
Otto anni dopo, quelle notti sono le più indimenticabili che ogni appassionato di NCAA si ricordi. Più nitide di finali, campioni, canestri sulla sirena. Sono quello in cui tutti noi, all’arrivo della primavera, speriamo di imbatterci ancora. L’anno dopo quella cavalcata incontrammo Bob McKillop, coach di Davidson, per le strade di Bormio. «Allora? Cosa è successo l’anno scorso?». Lui, il maestro di basket che l’aveva reclutato nell’indifferenza generale delle Duke e delle North Carolina, parlò di visioni, di cervello. Non di triple. «Il suo segreto non è fare canestro. È capire tutto prima degli altri».
Nel 2015 Steph, grazie a quella visione, è diventato MVP della Lega. “The White Lobster”, nel frattempo, sta facendo un Master in Business Administration a Stanford. Il destino di uno con un talento per molte cose, ma non certo per il basket. Eppure, con Steph accanto, persino un’aragosta bianca arrivò vicino a regalare a Davidson la Final Four. Miracoli di Curry, e della sua visione.
Al di sopra del bene e del male
di Fabrizio Gilardi (@Fazzettino)
«Una cosa che sarebbe perfetta per te è un intervento da Grinch in cui provi a criticare Steph».
Partendo da un foglio bianco avrei scritto che Steph è il giocatore giusto, al posto giusto e nel momento (storico) giusto e che in quanto tale potrebbe segnare un'era. Per rapidità di rilascio, range ed efficacia del tiro da 3 dal palleggio è un rivoluzionario in anticipo di un paio di lustri, ma è anche e senza alcun dubbio figlio del proprio tempo (pace-and-space, read-and-react) e di una rivoluzione (dei ruoli) ancora più profonda. Ma quando la redazione ti investe (con un autoarticolato) di una tale responsabilità, beh… è un problema.
Già solo nell'ultimo anno Curry ha compiuto progressi notevoli in due aspetti significativi del proprio gioco. In difesa è molto più attento e attivo, specie in pressione sul portatore di palla avversario, e ha iniziato a forzare i blocchi, invece di limitarsi a "passare dietro". Avere alle spalle due autentici mostri come Draymond Green e Andrew Bogut senza dubbio aiuta, ma di certo non è condizione sufficiente. In attacco invece ha ridotto notevolmente la percentuale di palle perse, chiudendo la stagione regolare con Turnover Ratio pari a 10.56, il valore più basso tra i pari ruolo chiamati a gestire volume di gioco comparabile—con Usage% maggiore di 27 meglio di Steph si trovano solo lunghi o esterni con il pulsante del passaggio rotto come Monta Ellis, Jamal Crawford, DeMar DeRozan e il compagno di squadra Klay Thompson.
Se proprio bisogna trovare un difetto, ma uno vero e non sfumature irrilevanti, bisogna cercarlo nel playmaking. I suoi assist derivano molto più dalla gravità che esercita sulle difese avversarie—costrette a raddoppiarlo lasciando scoperti spazi enormi—che da reale esecuzione e/o visione di gioco. In un sistema meno altruista forse i compagni faticherebbero a entrare in ritmo. E spesso Steph cerca di forzare troppo, incaponendosi in selezioni di tiro che sono giustificabili solo marginalmente.
Ma... se voi aveste quella combinazione mai vista di precisione e velocità di esecuzione e vi servissero pochi decimi di secondo e pochi centimetri per lasciar partire un tiro del tutto credibile, non cerchereste un paio di paraocchi MOLTO più stretti di quelli indossati da Steph? In fondo, come detto da Nicolò, "playmaker" non è. E non serve lo sia, probabilmente.
Mi scuso con la redazione, essere il Grinch non è sempre possibile.
Viva il Natale.
Show us what you got
di Dario Vismara (@Canigggia)
La carriera di una superstar NBA può prendere molte svolte diverse, ma solitamente Il Predestinato segue uno sviluppo di questo tipo:
— Un primo anno sfavillante, possibilmente culminato nel premio di Rookie dell’Anno;
— Diverse convocazioni all’All-Star Game dove inizialmente tiene un basso profilo, per rispetto ai veterani;
— Svariate partecipazioni ai playoff da leader della propria squadra, possibilmente con prestazioni memorabili e cocenti eliminazioni (perché se si vince subito che gusto c’è?);
— Portare la propria squadra ai primi posti della conference e diventare un perenne candidato al premio di MVP, magari vincendolo.
Pur con le sue peculiarità (come ad esempio i problemi alle caviglie che ne hanno ritardato un po’ l’ascesa), anche la carriera di Steph Curry ha seguito questo percorso. Ora però arriva la parte difficile, quella di legittimare il premio di MVP anche ai playoff. Perché la NBA è un mondo spietato e quello che hai fatto in regular season conta, sì, ma solo fino a un certo punto: pensate solo a cosa ha dovuto sopportare dal 2007 in avanti Dirk Nowitzki, MVP eliminato al primo turno dagli irripetibili Warriors di Baron Davis. O, in maniera ancor più pesante, quello che ha dovuto sentire sul suo conto per anni LeBron James prima di vincere il primo anello. E tutto questo nonostante avessero chiuso delle regular season sfavillanti, culminate in meritatissimi premi di MVP, oltre a essere due Hall of Famer di questo gioco.
Per Steph Curry il rischio che accada la stessa cosa cresce con l’avanzare dei playoff, perché è inevitabile che se non arriverà il titolo NBA dopo una stagione dominante di questo tipo, “laggente” inizierà a farsi delle domande su di lui. Per certi versi è già successo dopo le due sconfitte consecutive contro i Grizzlies di questa serie, dato che ESPN ha aperto questo suo pezzo prima di gara-4 scrivendo: «Quand’è che rivedremo Steph Curry giocare di nuovo come un MVP? Adesso o a ottobre?».
La risposta è arrivata forte e chiara.
Da qui in avanti ogni partita diventerà La Più Importante Della Sua Carriera. Adesso bisogna confermarsi. Adesso bisogna dimostrare sera dopo sera di saper giocare “come un MVP” e di riuscire a sopportare il peso di un premio prestigioso ma anche ingombrante, perché tutti—compagni, avversari, tifosi, appassionati, addetti ai lavori—si aspettano un “extra” in più. Quello che separa i grandi giocatori dalle leggende: la capacità di giocare ad altissimo livello sotto pressione e con gli occhi del mondo addosso.
È arrivato il momento di farci vedere di che pasta sei fatto, Steph. E preparati, perché qualsiasi cosa meno di un titolo sarà considerato un “fallimento”. Dal più profondo del cuore, auguri.