Quando Naomi Osaka, lo scorso marzo, ha ricevuto il trofeo appena vinto a Indian Wells, è arrivata al microfono quasi in stato confusionale. Aveva vent’anni, quello era il primo risultato pesante della sua carriera e si è ritrovata a recitare un copione visto molte volte in tv: prima elenca tutti quelli che deve ringraziare, dagli sponsor alla famiglia ai raccattapalle, con un’aria stordita cerca di tenere insieme il momento forse più eccitante e al tempo stesso imbarazzante della sua vita. A guardarla, si provava persino un po’ di pena per lei, e veniva spontaneo cercarle tutte le attenuanti possibili: l’età, l’inesperienza, la timidezza. Quel discorso, probabilmente e per sua stessa ammissione, è stato «il peggior acceptance speech di tutti i tempi».
Sembrava lì per caso, come un’esternazione della Provvidenza, ma in realtà aveva vinto con il punteggio di 6-3, 6-2 contro la russa Daria Kasatkina (russa, anche lei come Osaka nata nel 1997), senza fatica, quasi come se il torneo lo avesse guadagnato ben prima, battendo in semifinale la numero 1 WTA Simona Halep (6-3, 6-0) e ai quarti Katerina Pliskova (6-2, 6-3).
In finale contro Kasatkina le è bastato tenere i nervi saldi nei momenti cruciali: la partita ha girato definitivamente a suo favore quando la russa ha iniziato a mostrare segni di fatica mentale e fisica, buttando via un punto importante con un doppio fallo e regalando a Osaka il break di servizio. La successiva vittoria di cinque giochi consecutivi, poi, le ha assicurato il controllo del match.
Dopo Indian Wells non va oltre la semifinale a Nottingham, ma Flushing Meadows le regala due settimane straordinarie: Osaka ha concesso un unico set agli ottavi contro Aryna Sabalenka. In semifinale, contro Madison Keys, partiva sfavorita - fino a quel momento, non aveva mai vinto contro la statunitense - ma riesce a salvare 13 palle break, gioca a rete con astuzia e precisione e tiene molto meglio la misura del campo rispetto all’avversaria, assicurandosi la prima finale di uno Slam della sua carriera, contro Serena Williams.
Nell’unico precedente tra le due, vinto sempre da Naomi Osaka, a Miami qualche mese fa, la giapponese esibisce già alcuni colpi che avremmo poi ritrovato allo Slam.
Due esempi di rovescio. Dal minuto 2:26, quando Osaka sorprende Serena Williams, e, dal minuto 2:45, quando la affonda dopo averla portata a spasso da una parte all’altra del campo.
Così, appena cinque mesi dopo il torneo di Indian Wells, per la prima volta nella storia, il Giappone porta a casa un titolo del Grande Slam, lo US Open. E non grazie a Kei Nishikori, negli ultimi anni stabilmente tra i primi 10 giocatori ATP, ma a quella goffa post-adolescente che riesce nell’impresa epica di battere il “Drago dalle Mille Vite”, Serena Williams, con il punteggio di 6-2, 6-4 e una performance pressoché perfetta.
Talento e mentalità
Naomi Osaka ha talento, certo, un servizio invidiabile, governa gli scambi lunghi e sa accelerare a rete, ma Serena Williams ci ha insegnato che l’età anagrafica è nulla senza lo stato mentale ideale. La risposta di Naomi al gioco di Serena non ha niente a che fare (quanto meno non solo) con il suo talento, o con la timidezza mostrata al microfono o con l’emozione del debutto in una finale dello Slam. Osaka ha semplicemente dimostrato di essere mentalmente all’altezza della situazione, ha accettato la partita e dunque il suo avversario, per quanto mastodontico fosse.
La giapponese ha messo in discussione Serena Williams per tutta la partita, usando una capacità evidente nel gestire gli scambi e nel reagire ai cambi di ritmo dell’avversaria.
Nel primo set Osaka ha condotto sempre la partita e sfruttato il suo colpo migliore, il servizio, giocandolo magistralmente: la percentuale di prime palle e di punti conquistati sulla prima palla è stata addirittura del 73%. Dall’altra parte, Serena Williams è sembrata imprecisa e confusa: mescolando momenti di pienezza di sé a passaggi di totale inefficacia di gioco, collezionando 6 doppi falli e solo il 55% di prime. I suoi sprazzi migliori non sono bastati né a minare la tenuta fisica di Osaka, né tantomeno la sua concentrazione.
Due esempi che valgono il primo set: Naomi Osaka si porta sul 15 pari nel sesto gioco con un dritto incrociato per Serena Williams imprendibile e (minuto 0:22) chiude il set con un ace.
Ormai tutti sanno cosa è successo nel secondo set, quando nel secondo game Williams viene ammonita perché il giudice di sedia Carlos Ramos intercetta il suo coach intento a farle arrivare dei suggerimenti di gioco. Serena si arrabbia e ne esce rinvigorita, guadagna un break, ma Naomi Osaka ci sorprende con un controbreak.
Lo snodo centrale della finale dello US Open 2018 è esattamente in quei pochi minuti di frustrazione per Naomi che poi sfociano in resurrezione – cosa che a Serena riesce abitualmente – e di calma.
Serena Williams, durante la conferenza stampa, dirà: «Ha giocato molto bene, ma sento che avevo bisogno di fare molto di più per cambiare la partita […] È difficile da dire perché lotto sempre fino alla fine e cerco sempre di rispondere in ogni circostanza. Ma lei ha giocato davvero, davvero bene. È difficile dire che non ho raggiunto un nuovo livello, perché l’ho fatto così tante volte nella mia carriera. È una consapevolezza pesante».
La vittoria di Osaka sta tutta nella sua capacità di ventenne di scontrarsi, e superarsi, contro una trentaseienne che non deve dimostrare niente a nessuno. Sta nell’accettare questa condizione come opportunità e farla valere, nonostante tutto. Prima della finale aveva detto: «[…]Dovrei godermi il momento, ma dovrei comunque pensare a questo come a un altro match. Certo, non devo pensare a lei come il mio idolo. Devo solo provare a giocare contro di lei come farei contro un’avversaria qualunque». Strategia riuscita e vincente.
Naomi Osaka ha il coraggio dei vent’anni, la dedizione al gioco e il talento delle migliori: dove potrebbe arrivare lo diranno in parte già i prossimi tornei – soprattutto le WTA Finals di Singapore – che potrebbero fare da antipasto a un anno folgorante. E, chissà, alla fine dell’anno il circuito del tennis femminile potrebbe davvero essere mutato.