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Naomi Osaka sta costruendo il suo mondo
14 set 2020
La tennista giapponese ha vinto il suo terzo titolo del Grande Slam con rinnovata maturità.
(articolo)
21 min
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In un’intervista qualche settimana fa, Naomi Osaka dichiara la sua titolarità a intervenire su qualunque argomento lei ritenga più necessario, soprattutto se si tratta di diritti civili.

Al Western & Southern Open 2020 di Cincinnati decide quindi di non giocare la semifinale contro Elise Mertens: «[…] prima che essere un’atleta, sono una donna di colore. E come donna di colore credo che ci siano cose più importanti cui prestare attenzione piuttosto che guardarmi mentre gioco a tennis. Non credo succederà nulla di drastico se non gioco, ma iniziare una conversazione in uno sport principalmente bianco è un passo nella giusta direzione. Guardare il continuo genocidio della gente di colore per mano della polizia mi dà il voltastomaco. Non ne posso più di vedere spuntare un nuovo hashtag ogni giorno e sono stanca di ripetere sempre i soliti discorsi. Quando ne avremo abbastanza?».

Qualche giorno dopo, al primo turno dello Slam di New York, mentre sullo schermo brilla, vivo, il suo nome in uno stadio vuoto ed ermetico, entra in campo con la mascherina di protezione sul viso, su cui leggiamo un altro nome e cognome: scritto in bianco su sfondo nero. Ogni volta che entrerà in campo onorerà la memoria di una delle persone di colore vittime di razzismo e violenza da parte della polizia statunitense: Breonna Taylor, Elijiah McClain, Ahmaud Arbery, Trayvon Martin, George Floyd, Philando Castile e, prima della finale, Tamir Rice. La corsa a chiedere spiegazioni su questa manifestazione di vicinanza ci restituisce domande inutili – «Come ti senti?», «Cosa vorresti che succedesse?», «Qual è il prossimo nome che ricorderai?» – ma Naomi risponde ugualmente: sa che a volte, per iniziare una battaglia civile, non importa il mezzo, non importa il come, importa chi ne parlerà, quando, in che termini. A lei interessa togliere quelle persone dall’anonimato ed elegge lo Slam newyorkese il posto giusto per farlo.

Il tennis, per Osaka, può essere un mezzo di comunicazione: dal primo Slam vinto nel 2018 all’ultimo nel 2020, cambia allenatore – «Non voglio mettere il successo prima della mia felicità» dichiara –, la prospettiva su se stessa e sul mondo che la circonda e dal potere derivante dall’essere una delle atlete più pagate del mondo, la numero 1 della classifica mondiale di tennis femminile, costantemente analizzata e guardata, dal doversi giustificare per ogni azione, trova una possibilità per sfruttarlo.

Rising star

Il 25 ottobre 2015, l’unico post che compare sul profilo Instagram di Naomi Osaka è una fotografia con una luce scura e inadeguata, a tratti sgranata, in cui posa accanto a Venus Williams, uno degli idoli di sempre. Naomi ha un sorriso accennato, di chi non è abituato a fare quel tipo di fotografie, ma anche di chi non avrebbe perso l’occasione per nulla al mondo: Naomi mostra la targa circolare «WTA rising star».

Qualche settimana dopo, a Melbourne, supera ogni incontro di qualificazione e si fa notare al secondo turno dell’Australian Open contro Elina Svitolina, giocatrice appena fuori dalla top-20. Osaka riesce a distrarre Svitolina su due fronti principali: il movimento dello scambio e la concentrazione. Quel giorno Svitolina corre, si affanna, poi inizia a rincorrere e sul finire del primo set, Osaka è sul 5 – 4 quando gioca il primo set point della partita.

Minuto 1:15. Naomi Osaka sceglie di servire per spingere subito sulla difensiva Elina Svitolina, perché la pallina è diretta all’angolo basso. La risposta è poco aggressiva e il successivo palleggio mostra immobilità nelle gambe di Elina Svitolina e un errore tattico: Osaka la spinge sempre più indietro e approfitta del campo lasciato vuoto dall’avversaria. Carica il dritto e la fine del gioco diventa prevedibile.

Osaka batte Svitolina 6-4, 6-4, ma si ferma al turno successivo per mano di Victoria Azarenka 6-1, 6-1, dimostrando però nessun imbarazzo nei contesti importanti. Sulla terra rossa del Roland Garros, qualche mese dopo l’Australian Open al terzo turno Naomi trova Simona Halep, numero 6 del mondo, e la prima cosa che fa è riprendere la consapevolezza acquisita a Melbourne.

Durante il primo set Osaka colpisce Halep nelle sue insicurezze. Quando la rumena si fa prendere dalla tensione e placa il gioco per cercare di manovrarlo e aggiustarlo alle sue esigenze, Osaka è pronta a disturbarla e a prendere il sopravvento, come se avesse previsto di dover rimontare e che questo fosse il modo migliore di vincere.

Dal minuto 0:33. Simona Halep, sul 4 – 2 concede all’avversaria due palle break. Serve senza infierire, mentre Osaka di rovescio affonda subito e angola la risposta. Lo fa ancora dopo con il dritto, ma l’altra resiste. Allora Osaka smorza il dritto e Simona Halep può annullare la palla break.

Osaka sbaglia perché sceglie la soluzione veloce e facile, pensando che basti per creare scompiglio: ha bisogno di un punto solo per il break e lo cerca in fretta. Sbagliando, però, comprende come può girare il set e cambia subito strategia. La sorpresa del primo parziale è che Naomi non si lascia abbattere dal 4 – 2 iniziale, e quando si rende conto di non dover avere fretta, lo svantaggio diventa una possibilità di gioco e come tale è gestito. Non è facile, ma non è impossibile. Dopo la palla break persa, Naomi inizia a giocare ogni scambio fino alla fine, ad allungarlo se necessario, per poi attaccarla al momento opportuno, ma non basta perché a Parigi Naomi Osaka si ferma davanti a Simona Halep 6-4, 2-6, 3-6.

Quella della rising star è un’etichetta che nel tennis può avere una forza propulsiva enorme e allo stesso tempo non significare davvero molto: chiunque può prendere quel posto e accomodarsi, chiunque abbia abbastanza talento tecnico e prospettive di crescita. Se avere il bollino di rising star significa qualcosa, pensa Naomi a fine 2016, ha a che fare con lo studio delle avversarie più titolate, per imparare da ognuna qualcosa riguardo a se stessa, al suo gioco e al talento più costoso di tutti: saper vincere.

L’allenatore di Naomi, l’australiano David Taylor, con lei da settembre 2016, lavora molto sulle ripetizioni: la pratica in allenamento si basa sulla costruzione di pattern, grazie ai quali non perdersi durante le partite. Naomi riceve delle linee guida utili non solo a giocare gli Slam – tornei lunghi, complicati, dove la pressione e l’attenzione sono maggiori – ma in generale a strutturare il suo gioco, ancora mentalmente grezzo. Quando Naomi gioca bene, il pattern agisce come un automatismo mentale utile per non lasciarsi sovrastare dalle circostanze.

Il 16 febbraio 2017 su Instagram Osaka, a nemmeno vent’anni, eleggeva la sua conquista più grande: giocare qualche partita direttamente nel tabellone principale. Giocare spesso e non vincere mai per davvero. Giocare solo per arrivare il più lontano possibile, senza sapere dove è esattamente il limite.

A luglio dello stesso anno a Wimbledon, perde da Venus Williams; agli US Open, però, batte Angelique Kerber, prima di essere eliminata al terzo turno.

La partita che cambia tutto

Nella primavera del 2018 il problema di Naomi Osaka è la costanza del rendimento: il sali scendi continuo nel ranking non aiuta l’umore e i tabelloni dei tornei. Il 2017 si conclude con una perdita di posizioni in classifica, quindi il 2018 deve diventare l’anno del passo avanti anche sotto il profilo mentale. La preparazione della nuova stagione mira ad aumentare il rendimento di Naomi sulle linee orizzontali e sul gioco di piedi e a potenziare la sua capacità di immaginazione.

Il nuovo coach di Osaka è Sasha Bajin, ex compagno di allenamenti di Serena Williams, Victoria Azarenka e Caroline Wozniacki, che ha il preciso compito di prepararla alle vittorie, di rendere la sua concentrazione magistrale, di maturare in lei il desiderio della conquista.

Quando Naomi gioca l’ottavo di finale del torneo di Indian Wells contro Maria Sakkari è chiaro a chiunque che lo scarto era piccolo, perché le sono bastati pochi mesi e solo metà torneo per maturare questo aspetto del suo gioco.

Naomi Osaka si porta sul 4 – 1 facilmente: serve bene, risponde altrettanto, ruba i tempi con destrezza e la linea dominante del primo set è la percentuale di punti vinti sulla prima di servizio: Naomi fa 90, Maria 33. Il secondo set ricomincia quasi allo stesso modo: Osaka ruba il servizio presto, Sakkari riesce a mettere i piedi nel campo, ma non abbastanza da tentare attacchi efficaci e si trova sotto 2-1.

Una prima di servizio fuori di poco e due risposte di Sakkari potenti e profonde mettono, però, in crisi la giapponese. Succede in fretta, succede con le partite troppo facili che la concentrazione diminuisce e il contro break è cosa fatta: Sakkari approfitta per andare sul 3-2, in vantaggio per la prima volta durante l’incontro.

È in questo momento che Naomi si raffredda: si fa trovare impreparata a rete, si fa superare in controtempo, si fa indebolire. Quando torna la concentrazione, però, Naomi rimette in piedi il gioco pulito e potente, torna a spingere sulle linee di fondo l’avversaria e costruisce la rimonta: tiene il servizio per il 5-2, fa break nel gioco successivo e conquista il 5 pari un punto alla volta, un pensiero alla volta, un servizio meraviglioso alla volta.

Il gioco di Sakkari, però, durante la partita migliora. Non si lascia scalfire dalla rimonta, ma ricomincia daccapo a erodere terreno. Nell’undicesimo game, è Osaka che si spazientisce, sbatte la racchetta a terra dopo un dritto scomposto a rete, ed è a quel punto che perde irrimediabilmente il secondo set 7-5.

Succede a volte che un torneo rappresenti un punto di svolta in una carriera: può essere ad esempio la prima volta che un giocatore percepisce che il suo modo di stare in campo si evolve sotto i suoi piedi, come risultato di mesi di allenamento. In quest’ultimo caso è un momento atteso, ma comunque improvviso e la capacità di coglierlo è un’attitudine non comune. Naomi Osaka è fra quelli che hanno l’occhio sottile che vede tra le righe, negli interstizi degli scambi e comprende il momento che vive. Dopo la pausa tra il secondo e il terzo set di questo ottavo di finale, Naomi Osaka non sarà più la stessa giocatrice. Torna in campo con un solo pensiero, concentrata come se giocasse una finale di Slam e per l’avversaria non c’è scampo. Di nuovo, punto dopo punto, con accelerazioni improvvise e lampi di ferocia, porta a casa il passaggio del turno e con nuova consapevolezza supera i quarti di finale contro Karolina Pliskova 6-2, 6-3 e affronta la semifinale che vale quasi il trofeo: c’è Simona Halep, numero 1 del mondo.

Subito, Naomi è costretta ad annullare una palla break e a difendersi dagli affondi di Simona Halep: la difesa tiene sul 15 pari del secondo game, quando Halep tenta il passante di dritto, senza la giusta velocità, e Osaka recupera all’angolo, con un pallonetto, cercando la lentezza per tornare in campo.

La semifinale che sa di finale in realtà è un gioco senza troppi scossoni. Simona Halep è nervosa e sceglie male, da un punto di vista tattico; il biglietto per la finale vale 6 – 3, 6 – 0 e trova pronta e piena di speranze Daria Kasatkina, russa e come lei classe 1997, uscita dal torneo perfetto: batte quattro giocatrici tra le prime 15 del mondo, tra cui Caroline Wozniacki e Venus Williams. La partita è insidiosa per entrambe, che possono sperare di crescere in classifica e allo stesso modo hanno la possibilità di vincere un torneo importante; Kasatkina teme il servizio di Osaka, Osaka teme l’ottimismo di Kasatkina, e delle due preoccupazioni quella che si rivela fondata è la prima: Naomi vince con il punteggio di 6-3, 6-2 il suo primo titolo WTA in carriera.

«Penso che questo sia il peggior acceptance speech di sempre.»

Fine del mondo, inizio di tutto

Durante la scorsa quarantena, con i tornei di tennis rinviati o annullati e gli allenamenti limitati, le sfide social a distanza cominciano a diventare ripetitive, quindi Naomi Osaka ingaggia come altri suoi colleghi sporadici dialoghi con i fan. «Chiedetemi ciò che desiderate», dice un giorno di marzo. E uno di loro domanda qual è la partita più importante della sua carriera fino a quel momento. «La finale dell’Australian Open contro Petra Kvitova», sentenzia.

Non avevano mai giocato contro prima, e Petra Kvitova non doveva nemmeno essere lì: qualcuno aveva sussurrato che non avrebbe mai ripreso in mano la racchetta, dopo l’attacco subito alla mano sinistra, la sua dominante, nel tentativo di difendersi da un assalitore, e invece non solo torna a giocare ma disputa la finale di Slam a Melbourne.

La partita è elettrizzante: la tensione affiora magica, tutto si decide in tre set, il primo dei quali al tie-break. Quando Naomi vince il primo parziale, vince quasi sempre la partita: sono 58 gli incontri in cui è accaduto e allora fa di tutto per mantenere la concentrazione, la mente focalizzata sul presente, sul punto ottenuto e sul servizio coraggioso.

Petra Kvitova è un’avversaria pericolosa per Osaka: una di quelle tenniste che promuovono in chiunque altro rispetto e gentilezza, una delle poche a essere considerata da chiunque una persona rispettabile e di una profondità d’intenti speciale e averla dall’altra parte della rete è per Naomi una fonte di ispirazione totale. Kvitova si esalta nelle difficoltà, sa vincere soffrendo, accetta il dolore quanto la gioia. Naomi non è così: soffre la negatività, è pessimista, si lascia scoraggiare facilmente e tutta la primissima parte della sua carriera è stata caratterizzata dall’incapacità di uscire da continui circoli viziosi del pensiero. Ci sono giocatori per cui corpo e mente sono indissolubili e Osaka è l’esatta personificazione di questo. Lo ha imparato a sue spese, ogni volta che superare un terzo turno pareva impossibile e adesso, con uno lo Slam di New York in bacheca e la vetta della classifica a portata, il rischio di cedere alle ombre è più forte di prima. Sul 5 pari e il 40 – 15 per Osaka, lo scambio è esaltante: 18 colpi, in cui entrambe sfoggiano maestria: cercano gli angoli, la profondità, Kvitova tiene il campo e la giapponese si difende, finché, senza risparmiarsi, decide la rete e il dritto della ceca che sbatte sul nastro carambola sul campo avversario. Kvitova si scusa, Osaka non perde la brillantezza e comunque vince il game.

Il desiderio, a quel punto, è che il primo set finisse. Entrambe devono vincerlo, ma nessuno tra chi guarda lo vorrebbe; entrambe hanno bisogno di partire con il piede giusto, ma tra le due quella che ne è più convinta è la giapponese.

Il tie-break riassume il primo set in modo puntuale: Petra Kvitova fa tutto con precisione – servizio, bilanciamento del corpo, copertura del campo – e Naomi Osaka le risponde con altrettanta cura, ma rischiando un po’ di più, cercando le linee, i colpi tagliati, le traiettorie spigolose e, soprattutto, l’anticipo. Sul 2 – 1 la giapponese infila un ace e un servizio talmente angolato che l’avversaria non riesce a vedere il campo, allarga male il dritto lasciandole l’incrocio facile e veloce. Naomi sente il set vicino, esulta a pugno chiuso e lancia un grido fino a quel momento tenuto nascosto: si carica per il 5 – 1 e poi il 6 – 2, ottenendo quattro set point e usandone uno.

Petra Kvitova, però, è fatta per rimontare e il secondo set è un’affermazione continua delle sue possibilità: la ceca trova le risorse giuste per azzerare la partita e ricominciarla daccapo con una lucidità invidiabile. Ingaggia con l’avversaria la partita della testa, delle intenzioni e quando Naomi non sfrutta l’occasione per vincere la partita, Petra si infila nella crepa e inizia a dare sfogo al suo gioco migliore: fluido, divertente, atletico, che imbambola e gioisce a ogni affondo.

Osaka ha lavorato molto su un aspetto del suo carattere: incassare i “momenti negativi”, lasciarli fluire, interrogarli per conoscere la risposta e all’inizio del terzo set la trasformazione è fatta. Naomi, per la prima volta in una situazione del genere, si rilassa. Scioglie le caviglie, riprende la sua danza prima di servire – quei piccoli movimenti di piedi che le danno la certezza di dominare il corpo – e vince il secondo Slam e la testa della classifica: vola leggera da una parte all’altra del campo, senza zavorre né pensieri oppressivi, mentre Petra Kvitova è la migliore avversaria che potesse sperare: non si arrende, non arriva sino a lì per darla vinta, la mano è viva, la mano non tradisce, anche quando perde.

Il match point è l’ace che scappa dalle regole e rompe definitivamente la partita di Petra Kvitova. Osaka si accascia sulla racchetta, ritrova un momento di solitudine nella folla che applaude e si commuove.

New York I Love You

Nel 2017, mentre Osaka percorreva il viaggio verso la sua prima vittoria di un titolo WTA, Serena Williams cercava la forma fisica proprio a Indian Wells, appena tornata dalla maternità e ben lontana da qualsiasi speranza di vittoria.

Nonostante si ritiri dal Roland Garros e perda la finale di Wimbledon contro Angelique Kerber 6-3, 6-3, Serena Williams si accontenta, perché sa ormai che i numeri servono a poco quando a giocare è lei, soprattutto alla vigilia dello Slam di casa; si concentra quindi sull’obiettivo realizzato: la forma fisica piena, per riuscire ad arrivare in fondo ai tornei. Infatti, allo US Open lascia solo un set a Kaia Kanepi agli ottavi, e si ritrova a giocare per l’ennesimo major contro la numero 22 del mondo.

Quando il primo Slam della carriera rappresenta un momento agrodolce e non sarà mai la partita memorabile che dovrebbe essere, ciò che è andato storto è irrimediabile. La finale dello US Open 2018 sarà come una delle più controverse e incresciose del tennis femminile contemporaneo, perché anziché celebrare – finalmente – la stella nascente del circuito WTA, ricorderemo la battaglia personale di Serena Williams contro il giudice di sedia, la rabbia, la punizione, la mancanza di gioco e la successiva vittoria monca.

Naomi Osaka, che cresce con il desiderio di emulare Serena Williams, vince la sua prima finale di Slam a vent’anni con merito e giocando raffinatezza e determinazione contro uno dei suoi idoli, in una situazione di tensione altissima: solo qualche anno prima avrebbe perso, ma lo sforzo di imparare a rimanere nelle partite al di là del punteggio, della sorte e dell’avversaria è proprio ciò che la porta a primeggiare. Quando ottiene il maggior risultato possibile, nelle condizioni di partenza più esaltanti, Naomi deve rinunciarci e questo sarà per sempre un rimpianto.

Il suo allenatore Sasha Bajin commenta: «Naomi è stata gettata in acque profonde oggi. […] È rimasta con la sua compostezza». La compostezza rimarrà un tratto caratteristico delle reazioni di Naomi Osaka e anzi: ingigantirà, diventerà protezione e anche quando l’anno successivo incontrerà la pressione di una campionessa, non lascerà trapelare molto altro, eccetto la timida e fiera compostezza, che sembrerà a tratti noncuranza.

Nel 2019, infatti, Osaka si ferma a New York agli ottavi di finali contro Belinda Bencic: perde 7-5, 6-4 e anche la testa della classifica. Dopo il cambio di allenatore di inizio 2019, vuole cambiare paradigma e inizia a farlo in ogni angolo della sua vita. Accanto a lei arriva prima Jermaine Jenkins, ma non funziona come dovrebbe – il 2019 non è l’anno che doveva essere: dopo Melbourne, non ottiene risultati importanti e anzi lascia la vetta della classifica – e poi il belga Wim Fassette, ex allenatore fra le altre di Victoria Azarenka, Angelique Kerber, e Simona Halep, chiamato a preparare la stagione del 2020. Fassette è una persona che la sostiene anche fuori dal campo: Naomi trascorre la quarantena a riflettere sul mondo che la circonda, su cosa le è necessario e vuole accanto chi la sostiene in ogni cosa che fa. Wim Fassette è il suo primo ammiratore: «Di sicuro, indossando quelle mascherine, vuole essere un modello, ma sa che ciò deve andare a braccetto con l’essere un modello sul campo. Modello fuori dal campo, grande attitudine sul campo. Fino ad ora, funziona molto bene. Sono molto orgoglioso di lei».

Le ultima settimane trascorse a New York sono per Naomi Osaka tra le più complicate e preziose della sua carriera. Gioca ogni partita con una fasciatura evidente al quadricipite sinistro, ma i passaggi a vuoto che compie durante alcune partite del torneo – il terzo turno, la semifinale per citarne due – non hanno nulla a che vedere con il problema fisico.

Arthur Ashe

La partita migliore di Naomi Osaka allo US Open 2020 è quella della semifinale, contro Jennifer Brady, avversaria dal gioco simile. Il primo set è uno dei migliori dell’intero torneo, perché entrambe portano in potenza i colpi migliori.

Il primo set finisce al tie-break quando Osaka prende il completo controllo del set non lasciando nulla all’avversaria: Brady si arrende, concede tre errori gratuiti.

Nel secondo set, però, Brady torna prepotente. Sente di essere vicina a Naomi Osaka molto più di quanto il tie-break abbia dimostrato e fa vedere di essere capace di tenere la mente sgombra e procedere alla rimonta. Infila il break per conquistare il 5 – 3 in un modo eccellente: non si fa intimorire dal servizio perfetto, spinge l’avversaria sempre più a fondo, finché Osaka è costretta a una risposta fuori controllo e lunga. Il set point è più breve, ma mosso dalla medesima strategia a cui Osaka non sa trovare una risposta adeguata.

Nel terzo set, Osaka prende in mano la partita, fin da subito, alza il livello del gioco e non soltanto riesce a usare la battuta in modo ancora più efficace, ma trova le linee, e gli angoli anche quando si fa vedere a rete: attacca, per non difendersi troppo e per non subire la costanza di Brady. La strategia di anticipo funziona, Naomi fatica fisicamente molto ma porta a casa la partita per 7-6, 3-6, 6-3.

Dall’altra parte del tabellone, la semifinale propone un match d’altri tempi, ricco di esperienza e di rivincita: Serena Williams contro Victoria Azarenka, ma in finale arriva la seconda e per Osaka è una brutta notizia, per due ragioni: contro Serena ha già giocato, sullo stesso campo, due anni prima e peggio di quel momento non potrà mai essere una partita fra loro due. Il secondo è che Victoria Azarenka è una giocatrice di variazioni, di costruzione e controllo e se riesce a ingabbiarla, spuntarla per lei diventa difficile.

Vika parte molto forte e precisa, non perde occasioni, non perde punti, vince sotto ogni profilo e dal canto suo Osaka non gioca fino al 2 – 0 del secondo set, quando Azarenka è già 1 set in vantaggio.

Il primo parziale, finito 6 – 1, è un unico grande monologo della bielorussa, che non sbaglia niente. Mostra il suo gioco migliore: tocca i lungolinea come fossero frecce affilate di un arco, attacca la profondità del campo colpendo il bersaglio senza sosta e non indietreggia mai.

All’inizio del secondo set, la melodia è la stessa. Naomi Osaka non entra in partita, non riesce a sorprendere l’avversaria, non tiene il servizio, gioca molte seconde, dove Azarenka si dimostra maestra.

Sul 2 – 0, già un break sotto, Naomi Osaka tiene il servizio, prova a riprendere le fila dalla cosa fondamentale: sfruttare al meglio i turni di battuta. Sul 2 – 0, già un break avanti, Victoria Azarenka può concedersi persino di lusso di sbagliare: se avesse lasciato cadere anche solo un game, niente sarebbe stato compromesso. Avrebbe dovuto solo tenere le battute per vincere.

Sul 2-1 succede proprio questo: Azarenka fallisce il 3-0 perché concede qualche apertura di gioco di troppo e Osaka rimane attaccata alla partita: si dice fra sé e sé che non era il caso di perdere così facilmente, che doveva liberarsi della maledetta «bad attitude» e fare la cosa che le riesce meglio: servire la prima.

Osaka tiene il servizio: il 2 – 1 è servito e per Azarenka è solo un’occasione persa. La tennista giapponese infatti fa il break nel gioco successivo, riuscendo anche a controllare meglio lo scambio. Tutto da rifare, soprattutto per Vika che in un primo momento reagisce bene e tiene la partita, ma poi si sfilaccia e il pensiero di aver perso l’unica occasione della gara, quel 3-0 non riuscito, le annebbia la vista: Azarenka commette un doppio fallo, sbaglia tre rovesci, gli errori diventano troppi e Osaka, per la prima volta dall’inizio dell’incontro è avanti 4-3. Osaka si prende il secondo set 6-3 e l’inizio del terzo diventa problematico per entrambe: la giapponese non deve perdere l’abbrivio, la bielorussa deve dimenticare in fretta.

Il primo game va come sarebbe dovuto andare lo stesso gioco del primo set: Osaka si porta sul 40-0 e inventa anche un dritto basso incrociato e sventagliato che punta la linea. Lo replica due volte e una è per vincere il gioco. Osaka è tornata.

Il secondo game del terzo set va in replica del precedente: Azarenka tiene le redini, manovra e controlla, ma le difese di Osaka sono più precise di prima, sono più convinte e non servono per fare il break, ma dicono all’avversaria che la situazione è davvero cambiata.

Infatti, il quarto game è quello del break: Azarenka annulla il primo dei break point con un passante lungolinea profondo e rischioso, perché arriva da lontano, e adesso la partita è divertente, tesa, ma in senso buono, e le due strategie di gioco si confrontano al meglio. Osaka vince il secondo break point con la potenza, allontanando l’avversaria dalla linea di fondo e non permettendole di attaccare come le è più congeniale.

Naomi Osaka vince lo Slam per poca determinazione: dovendo recuperarla, compie l’analisi della partita in un tempo corto e fulmineo, quando si accorge che il 3 – 0 nel secondo set è evitabile e nel giro di un game mette un punto mentale e ricomincia la sua partita. Perde un servizio anche nel terzo set, per nervosismo, ma è proprio la possibilità che si dà di rimediare che le permette la vittoria.

Naomi Osaka sa cosa è necessario. Butta via orpelli inutili e lascia che risalti solo il dettaglio. Lo fa nella sua vita fuori dal campo, lo fa con il suo tennis, composto di potenza, analisi e fragilità: la somma di queste caratteristiche, intrinsecamente legate e indivisibili, fa la campionessa di talento che sabato è riuscita a vincere gli US Open due anni dopo la prima volta, quando si era rivelata al mondo, ventunenne capace di un’impresa complessa, da cui è uscita fedele all’idea di voler creare un proprio mondo in cui maturare.

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