“Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali ”
(La Ginestra, o fiore del deserto
di Giacomo Leopardi)
C’è qualcosa che lega La Flagellazione di Cristo di Caravaggio, i versi de La Ginestra di Leopardi e il gioco espresso dalla squadra organizzata da Maurizio Sarri? La risposta è che sono tutte opere realizzate a Napoli, da non napoletani.
Il punto di contatto tra i capolavori citati sopra è nella “coltivazione attiva del piacere”, come l'ha definita Henry James, parlando proprio della città partenopea nel suo libro “Roderick Hudson”. Napoli è la Musa del piacere coltivato, che è l’esatto opposto del piacere senza freni e lontano ovviamente anni luce anche dall’obbedienza cieca.
I “non napoletani” che riescono a comprendere e vivere bene Napoli, riescono anche a spalancare la porta del proprio talento e a condurlo, appunto coltivandolo, nel loro lavoro (che non è “a’ fatica” che ottunde, ma l’impegno unito alla chiarezza del progetto e del traguardo), verso il piacere del bello, ricevendo dalla città una sola richiesta: quella di fare un passo ulteriore nelle proprie idee, perché la città ti offre sempre la libertà di farlo.
Il senso di superiorità di Napoli
Napoli te lo chiede perché devi dimostrare tutto il tuo talento per farti amare; perché i napoletani, come spiega Giuseppe De Rita nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 12 gennaio 2010, hanno un fortissimo senso di superiorità. Basti vedere come si sono comportati con l’ultimo popolo percepito come conquistatore, gli americani, dopo la Liberazione: De Rita racconta come, invece di ringraziarli, abbiano cercato in tutti i modi per “derubarli, riempirli di prostitute, insomma quasi di avvilirli”, per dimostrare ancora una volta quel senso di superiorità rispetto alla mediocrità del resto del mondo.
Se parliamo di calcio, Sarri è l’ultima espressione in ordine temporale di questo piacere puntigliosamente coltivato, capace di realizzare opere di alto ingegno e creatività.
Napoli e il genio hanno un rapporto speciale, se ne è accorto anche un giovane Wolfgang Amadeus Mozart, ritratto dietro al clavicembolo nel quadro qui sopra (“Concerto in casa di Kenneth MacKenzie, Lord Fortrose”, di Pietro Fabris): di passaggio a Napoli per cinque settimane, Mozart conobbe meglio l’Opera buffa e si appassionò a Giovanni Paisiello e al suo “Barbiere di Siviglia”, citato nelle sue “Nozze di Figaro”.
Il genio vive di limitazioni ma cerca libertà. E se riesci a darti regole, Napoli saprà farti respirare la libertà che ti serve. È uno po’ quello che è successo a Sarri, che è diventato genio dal momento in cui ha scelto il nuovo mestiere. Per capirlo davvero non basta restare sul presente, ma andare il più indietro possibile, quando era persino più libero. La prima volta che Sarri viene citato in un articolo di Repubblica, ad esempio, è il 12 dicembre 2002, un pezzo a firma di Giuseppe Calabrese che è già profetico rispetto ai metodi di lavoro e alla personalità di Sarri.
Calabrese apre il pezzo con: «Dicono che ci sia un nuovo Cosmi», per creare subito un aggancio al mainstream di cui abbiamo sempre bisogno per inquadrare le cose, ma poi la frase successiva è: «Dicono che presto il calcio si accorgerà di lui», sottintendendo che una mente di quel livello, che il giornalista ha visto in qualche occasione e che soprattutto gli è stata raccontata da chi Sarri lo conosceva bene, non può non arrivare a grandi traguardi.
Al tempo Sarri allenava la Sansovino, in Serie D, e non era andato alla Sangiovannese tra i professionisti perché non aveva ancora il patentino di seconda categoria. «Siamo in 450 e i posti sono solo 40», dice serio. Maurizio Sarri, che fa parlare di sé l’Europa, oggi, quindici anni fa poteva tranquillamente stancarsi di fare l’allenatore, aspettando in fila come tutti gli altri, o meglio come tutti gli altri che quella fila non la superano a sinistra.
Il nome di Sarri era iniziato a girare per la storia dei “33”. Un giovane giornalista, Fabrizio Ferrari, aretino che lo seguiva da sempre, in un suo pezzo lo chiama “Mister 33” e da lì nasce la nomea che quel 33 fosse legato al numero di schemi offensivi messi in campo dalle sue squadre. In realtà quel numero faceva riferimento “solo” agli schemi su palle inattive, con le punizioni a cui erano state date dei nomi propri, mentre ai calci d’angolo dei numeri. In una partita Sarri chiamò lo schema “Loris”, gli avversari corsero a marcare Loris che però non esisteva, prendendo gol.
L’intervista di Calabrese si sofferma su questa parte, ma poi si chiude con una domanda secca, quella che tutti ricevono se fai qualcosa di buono: «Ha un modello di allenatore?». La risposta apre al mondo sarriano: «No, li studio tutti. Non solo. A casa ho tutte le pubblicazioni tecnico-tattiche che sono state pubblicate in Italia. Passo ore e ore a studiare il calcio».
Efesto, piuttosto che Apollo e Dioniso
Napoli non ama gli “stranieri” dionisiaci o fin troppo apollinei. Napoli ama, apprezza e stimola gli “efestisti”, ovvero chi ci mette le mani e prova a costruire (come faceva Efesto, che nella mitologia greca fabbricava gli oggetti e le armi degli dei) non solo a far seguire un esempio e un’idea. Un altro amante del lavoro che, come Sarri, ha fatto molto bene a Napoli, venendo amato dalla città, è Luis Vinicio, il quale, in collaborazione con un altro serio lavoratore come Franco Janich aveva portato il calcio “a zona” a Napoli già nella stagione 1973-74.
Vinicio fino al suo ultimo terzo di carriera, quando veniva chiamato più per la piazza che per le idee, aveva davvero portato qualcosa di nuovo nel calcio italiano, basandosi sull’idea che il lavoro atletico e tattico dovevano fare un salto di livello e di qualità. Zona e grande dinamismo erano vere novità e il Sacchi rappresentante di scarpe si fermò spesso per prendere appunti dove quel Napoli faceva il ritiro. Oltre ai tanti attestati che ancora riceve, fanno da testimonianza gli improperi lanciati al cielo meridionale dal vecchio Tarcisio Bugnich, che aveva lasciato l’Inter per svernare a Napoli e invece dovette reinventarsi come libero a zona (termine usato allora da tutti i giornali per iniziare a ridefinire il vocabolario), e a correre come mai aveva fatto in carriera.
Vinicio fu amato alla follia dai napoletani come calciatore, ma ancora di più come tecnico, perché, allo stesso modo del Sarri di oggi, aveva un’idea basata sul lavoro che la libertà di osare che Napoli ti ispira hanno fatto prosperare e crescere.
Luis Vinicio con Omar Sivori e Helmut Haller (foto LaPresse)
Un altro “efestista” è stato Ottavio Bianchi, anche lui calciatore a Napoli, che a Napoli non voleva tornare come tecnico, per via della troppa pressione sull’allenatore della squadra. E invece ancora una volta la serietà, la quasi monacalità dello stile di vita (anche lui viveva isolato, fuori città, come Sarri che abita vicino al centro di allenamento) e le scelte secche lo hanno fatto piccolo eroe della squadra in cui c’era il grande condottiero venuto dall’Argentina. In un’intervista di fine 2016 al Corriere dello Sport, Bianchi sintetizza quello che serve per vincere a Napoli: «Per vincere bisogna avere delle basi di lavoro e non crearsi alibi, se tu hai degli alibi a Napoli hai finito. Vai per la tua strada anche se la strada è in salita».
E se gli efestisti hanno sempre fatto bene, vien da sé che i dionisiaci puri (con l'unica eccezione di Maradona, che non dovrebbe mai essere inserito in alcuna classifica o lista) hanno lasciato pochi e scialbi ricordi. Uno su tutti, Omar Sivori, che arrivò in città da salvatore della patria e andò via pieno di tristezza e con pochi nostalgici, oppure Giovanni Galeone, arrivato in un Napoli in ambasce ma sempre fuori sintonia con l’ambiente, così come quello a cui voleva affidare la squadra, Aljoša Asanović, tanto illuminante con la Croazia quanto spento con gli Azzurri. Per fare solo un ultimo esempio si potrebbe citare anche Edmundo, atterrato a Napoli nel 2001 e presto dimenticato mentre ancora giocava e cercava di mostrare qualcosa al pubblico.
In una città che vive di piaceri, chi mette il bello come principio del suo lavoro non attecchisce. E chiarificatrici sono proprio le parole di Sarri, quando alla fine di Napoli-Bologna 3-1 del 28 gennaio 2018 in conferenza stampa a chi gli parla della Juve e delle sue vittorie ad oltranza, risponde: «Noi non vogliamo far paura a nessuno, il nostro obiettivo è la bellezza». Dal bello non si parte quindi, il bello è l’obiettivo finale, da raggiungere con il lavoro e insieme al gruppo.
E Sarri è ossessionato dai dettagli. Se da allenatore alle prime armi con un certo candore rispondeva al cronista di Repubblica dicendo di aver letto tutte le pubblicazioni tattiche edite in Italia, vien da sé che è proprio l'ossessione del non perdersi nessun dettaglio a muoverlo. In un'intervista del 18 febbraio 2018 spiega bene quello che è per lui l'ossessione e il suo valore: «L'ossessione è un sentimento illogico e nel lungo periodo può portare ad aspetti negativi ma nel breve periodo può portare a delle scariche adrenaliniche, come tutti i sentimenti illogici... Quindi potrebbe avere anche degli aspetti positivi».
Questa ossessione dei dettagli, che si riversa poi tutta nella metodologia lavorativa, base della coltivazione attiva del piacere, è l'esatto opposto spesso di quello che per tanti, anche napoletani, è Napoli stessa, ovvero quello che il filosofo Roberto Esposito sintetizza così: «A Napoli tutto quel che accade sembra imitare un'immagine; come se fosse la realtà ad imitare la rappresentazione, e non viceversa» (la citazione è riportata in un articolo di Antonio Polito, pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno l’8 novembre 2014, che tratta proprio questo tema: “L’immagine della città, ossessione napoletana”). Chi entra in sintonia con la Napoli "di Efesto", capisce che proprio quella città che sembra tutta rappresentazione, invece, nelle viscere è un laboratorio in cui sperimentare e dare vita alle idee concrete.
Ne parla anche Marco Giampaolo in un'intervista rilasciata a Repubblica il 27 febbraio 2018. In un passaggio su Sarri, dice: «Interpretiamo il lavoro alla stessa maniera, come un pozzo senza fondo, sempre da sviluppare, pensare, migliorare. Non è un pregio, né un difetto, è una caratteristica. Ad essere comune è la filosofia».
Come Sarri ha superato se stesso
Il genio a Napoli, per quello che la città infonde grazie al suo "incedere" quotidiano e alla grazia sempre a portata di mano, riesce ad esaltarsi e ad andare oltre non solo alle consuetudini ma anche a quello che fino a quel momento ha lui stesso creato. Per questo all'inizio abbiamo parlato di Caravaggio, Leopardi e Mozart che a Napoli, o grazie a quello che a Napoli hanno compreso e vissuto, hanno creato meraviglie che in qualche modo si distinguono dalle loro meraviglie abituali.
Questo vale anche per Maurizio Sarri che ha dispiegato il suo genio a Napoli, creando una bellissima squadra di calcio. Ma in cosa Maurizio Sarri è stato capace di andare al di là di quello che aveva proposto come allenatore fino a quel momento? Facciamo dei piccoli esempi. Uno su tutti è il valore e l'intero ripensamento della sua idea di rifinitura, uno degli elementi del calcio contemporaneo forse meno considerati, perché dà molta importanza anche alla fantasia del singolo, ma fondamentale nel calcio di Sarri perché se il ritmo di squadra dà più scelte alla fantasia del singolo, tutto si può tradurre in bellezza e gol.
A Empoli, l'onere della rifinitura era soprattutto di Saponara: un calciatore che cuciva il gioco d'attacco da una posizione centrale, da dove veniva continuamente coinvolto nella trama offensiva. Appena arrivato a Napoli, Sarri riporta quella esperienza e mette Insigne dietro due punte. Insigne non riesce a tenere le fila del gioco come faceva Saponara e ad essere fisicamente presente in fase di non possesso fra i centrocampisti avversari come il trequartista della Fiorentina. Sarri comprende questa difficoltà, capisce che ha senso ripartire da capo, utilizzando il 4-3-3 di Benitez, ma non fa semplicemente un rewind di comodo, inizia a lavorare su una nuova idea che metta insieme tutto dando comunque ad Insigne il compito della rifinitura, anche se parte dalla fascia sinistra.
Se Benitez aveva ragione su Insigne in fascia, il grande problema del Napoli di Benitez era la posizione, i compiti e le prestazioni di Hamsik. Lo slovacco giocava come centrale nei 3 dietro la prima punta, una posizione che lo penalizzava perché lo costringeva a giocare spesso spalle alla porta e lo limitava nella sua caratteristica principe, ovvero gli inserimenti senza palla. Sarri voleva Insigne rifinitore così da far giocare Hamsik fronte alla porta pronto ad inserirsi negli spazi, come faceva Zielinski con Saponara. Il ritorno in fascia di Insigne quindi riportava a galla il problema Hamsik, che Sarri ha risolto poi con tanto lavoro di studio e l'utilizzo diverso dei terzini.
E qui ci colleghiamo ad una seconda intuizione di Sarri, ovvero la capacità di occupare con qualità e libertà gli half spaces. Ad Empoli erano utilizzati il giusto, avendo molta più importanza il gioco fra gli esterni e Valdifiori in fase di impostazione, e tra gli esterni e Saponara in attacco. I laterali bassi del Napoli di oggi, invece, riescono a coprire con grande qualità e costanza la fascia (ci riusciva particolarmente bene Ghoulam), dando la possibilità alle mezzali e agli esterni d'attacco di giocare negli half-spaces e di occuparli con una discreta libertà per essere incisivi. Un utilizzo molto più costante e decisivo di una porzione di campo in cui tutti gli allenatori oggi vogliono vincere le partite, perché è lì che è possibile creare la superiorità fondamentale per destabilizzare le difese.
Il terzo esempio è il lavoro di Jorginho. Anche in questo caso c'è un'evoluzione tra quanto fatto a Empoli a quanto fatto a Napoli, a testimonianza del superamento compiuto da Sarri. Ad Empoli il lavoro di cucitura bassa del gioco era svolto da Mirko Valdifiori. Il suo compito era quello che viene definito "ancora", tipico di quel calciatore che fa da pendolo tra centrali difensivi e mezzali, che direziona il gioco nella prima fase di impostazione. Ad Empoli, Valdifiori faceva questo ruolo alla perfezione ed è per questo che Sarri lo portò con sé a Napoli. Arrivato a Napoli però l'allenatore toscano si innamorò di Jorginho con il quale capì che poteva allargare la dimensione del ruolo dando al calciatore altri compiti. Grazie alle capacità del regista italo-brasiliano, Sarri poteva anche far aumentare da subito il ritmo del gioco, creando per gli avversari scompensi negli spazi fin dall'inizio.
Dando compiti di prima impostazione anche ai centrali difensivi, e addirittura ai terzini, poi, è riuscito anche in un altro compito cui Valdifiori riusciva poche volte, ovvero quello di far guardare la porta alla sua “àncora”, appunto Jorginho, e quindi a renderlo ancora più pericoloso e spesso poco marcabile dagli avversari.
La leggerezza di Mertens
Ma forse l’esperimento meglio riuscito e più evidente di Sarri è stato fatto su Dries Mertens. Arrivato a Napoli da ala veloce e dribblomane, le sue prime stagioni napoletane lasciano tiepida la piazza azzurra, pessima posizione in una città che vive di assoluti come Napoli.
In realtà lui, anche fra alti e bassi, e l’utilizzo singhiozzante, subito si innamora di Napoli e passa questa sua infatuazione a quanta più gente possibile, come afferma in un’intervista del luglio 2014 a “Four Four Two”: «Lo confesso, non sapevo che fosse così bella e tanto grande. Quando ero in Belgio e di venne a sapere del mio trasferimento a Napoli, tutti mi dicevano che sarebbe stata una brutta esperienza, che avrei trovato una città sporca, poco organizzata, con un’architettura cadente e persone quantomeno strane. Non è così e voglio dirlo pubblicamente. Qui è tutto bellissimo, uno dei posti migliori per pensare a una vacanza. Prima, nessuno della mia famiglia immaginava di venire qui da me, adesso la mia casa è diventata un albergo. Giuro, ormai vengono in tanti, tutti da me. E poi diventa difficile farli andar via… La mia famiglia c’è stata tutta quanta, mio fratello addirittura 5 volte, recentemente anche 14 amiche della mia fidanzata, tutte di Leuven e tutte insieme. Io sono stato costretto a lasciare la mia casa, sono andato a dormire da Gonzalo Higuain, è un amico molto generoso».
Poi vendono l’amico generoso, il suo sostituto si fa male per lungo tempo e Sarri con Mertens sperimenta un concetto più che una soluzione tattica, quello della leggerezza, altra dimensione dello spirito cittadino evidente soprattutto da chi viene da fuori.
Dalle ceneri del sacchismo più integrale, che è oltretutto solo quello di Sacchi e di pochi altri (ad esempio il primissimo Ancelotti), nasce grazie al Milan di Capello un’idea di evoluzione del calcio ben precisa, vicina al podismo, fatta di ordine rigoroso nei movimenti sul campo e forza atletica, per creare il mix vincente per ogni squadra. Quel Milan ha portato ad un decennio in cui abbiamo assistito a calciatori lievitati muscolarmente, con i disastri di un Ronaldo arrivato fulmine e saetta da Barcellona e andato a Madrid come un orsacchiotto zoppo, con tonnare irreali in mezzo al campo dove a farla da padrone c’erano mediani in caccia delle palle e delle cosce altrui (nel 2002 la Nazionale italiana si presenterà ai Mondiali con Zanetti e Tommasi nel cuore del gioco).
Questo lo standard, quando sulla scena internazionale il Barcellona di Rijkaard si impone e mostra fin da subito qualcosa di nuovo. Resta il principio dell’energia atletica che domina la scena, ma si sovrappongono anche altri tre modelli, quello olandese della capacità multiruolo e in generale della capacità di stare in un ordine delle cose interpretandone personalmente le regole; quello brasiliano portato a forza di magie in quella squadra da Deco a centrocampo e Ronaldinho in attacco, con la loro capacità tecnica di fermare il flusso indistinto e spesso caotico del gioco per aprire finestre immaginative; infine il classico gioco spagnolo, fatto di possesso palla e gioco sotto ritmo, rimesso a nuovo e con nuovi obiettivi da Xavi e Iniesta.
Quando in questo impianto poi arrivano altre tre cose, accade la rivoluzione. La prima è Messi, che gioca in controtempo e non ha nessun padre e per questo segna un’epoca. La seconda è Guardiola che fra le altre cose passa un concetto molto semplice alla squadra, impensabile però prima della sua attuazione: cerchiamo di giocare ad una sola metà campo, aggredendo gli avversari non quando siamo meglio organizzati per la difesa, ma nel momento in cui perdiamo la palla. Ad essere organizzati male in quella fase non siamo solo noi, ma anche loro nella proposta offensiva ed un pressing furente proprio nei primi secondi può essere sicuramente vincente. La terza grande novità è la scoperta della leggerezza, elemento che si afferma in vari ambiti dello sport contemporaneamente, divenendo il nuovo standard evolutivo, e che regala al calcio il paradosso di un centrocampo con una mezzala che non arriva al metro e settanta, Xavi, una che lo supera a malapena, Iniesta, e un playmaker che dà sempre l’impressione di non poter reggere nemmeno il minimo contrasto, Busquest. Quella leggerezza che, dall’esperimento fallito di Ibrahimovic in poi, ha visto al centro dell’attacco giocatori in grado di incarnare il più letteralmente possibile il principio secondo cui il vero centravanti deve essere “lo spazio” (diventando quindi un ruolo in cui possono giocare anche non centravanti come David Villa o Fabregas).
Sarri, che come accennato divora ogni novità cercando di essere sempre aggiornato su tutto, con l’Empoli crea il primo laboratorio della leggerezza in Italia e quando a Napoli deve risolvere il problema dell’attaccante centrale, lo elimina alla radice, facendo la scelta più estrema possibile: eliminando, cioè, il termine principale. Da quel momento il suo centravanti diventa lo spazio in cui Mertens, e gli altri in relazione con lui, giocano alla grande.
Il successo della solidarietà
Insieme ad un ambiente che apre alla coltivazione attiva del piacere, nel tentativo di creare il bello, Sarri sottolinea un’altra particolarità tutta napoletana: lo spirito sociale. In un’intervista del giugno 2016 fatta durante un evento per la consegna simbolica delle chiavi della città, si sbottona e parla di Napoli: «Io adoro Napoli e la sua umanità, lo spirito sociale che c’è, il fatto che se succede una cosa al tuo vicino è come se fosse successa a te. Napoli ti dà un amore unico, che ogni allenatore dovrebbe provare nella vita».
Quello spirito sociale che ancora Caravaggio immortala nel quadro "Le sette opere si Misericordia corporali" fra il 1606 e il 1607. Del quadro è bene far parlare il più grande studioso del pittore lombardo, Roberto Longhi, per capirne di più: «La camera scura è trovata all'imbrunire, in un quadrivio napoletano sotto il volo degli angeli lazzari che fanno la "voltatella" all'altezza dei primi piani, nello sgocciolio delle lenzuola lavate alla peggio e sventolanti a festone sotto la finestra da cui ora si affaccia una "nostra donna col bambino", belli entrambi come un Raffaello "senza seggiola" perché ripresi dalla verità nuda di Forcella o di Pizzofalcone».
Un’opera del genere, dove si mescolano esempi di solidarietà e partecipazione in un flusso che sembra confusione quasi violenta, non poteva che essere eseguita a Napoli e in una similitudine forse un po’ azzardata, questa sensazione è quella di cui parla Maurizio Sarri, il quale ha bisogno che la solidarietà, e la partecipazione, esistano e siano profonde in un sistema di relazioni come una squadra di calcio. Per questo dice che l’amore di Napoli lo dovrebbe provare “ogni allenatore” e non “ogni uomo”, perché lui pensa che quello spirito sia fondamentale per chi fa il suo lavoro e deve passare quel concetto ai suoi giocatori.
Anche in questo caso il principio non è fine a se stesso ma ha prodotto delle novità nel gioco della squadra. Un esempio su tutti è l'eterno ricamo triangolare dietro l'incidere del Napoli. Costruire, disfare e ricostruire triangoli con compagni differenti ha come principio quello del proporsi e rirporporsi in continuazione, in una costante azione di sostegno. Solo creando un gruppo in cui in maniera quasi involontaria si vuole aiutare gli altri riescono a crearsi gli spazi per costurire i triangoli e velocizzare l'azione all'interno dei triangoli stessi.
Un altro esempio è l'utilizzo di Higuain. In una delle sue prime interviste fatte a Napoli ai microfoni di Mediaset Premium, Sarri dice che Higuain è l'attaccante puro più forte d'Europa e che aveva dato fino a quel momento solo l'80% del potenziale. Sembra una sciocchezza, ma sappiamo che non sarà così. Higuain con Sarri esplode e segna 36 gol in un solo campionato. Senza un Higuain ad Empoli gli attaccanti non fagocitavano l'area di rigore ma si muovevano molto per aprire campo agli inserimenti di Saponara e delle mezzali. Con Higuain invece Sarri si è rimesso sotto per capire come sfruttarlo al meglio, riuscendoci grazie al ritmo dato al gioco offensivo. Sarri ha cercato di mettere Higuain nelle condizioni migliori di trasformare in gol la grande produzione offensiva del Napoli, liberando la trequarti per permettergli di venire incontro al centrocampo ma senza dimenticare di attaccare la profondità per abbassare le difese avversarie. Nel gioco di Sarri il possesso palla deve coniugarsi ad un'occupazione ottimale degli spazi, e in questo senso Higuain gli permetteva di coprire due ruoli (quello del trequartista e quello del nove puro) con un solo giocatore. Il fatto che l'attaccante argentino fosse anche un grande finalizzatore, poi, sublimava il gioco del Napoli nella gioia del gol.
Per sintetizzare come lo spirito sociale di Napoli permea il gioco della squadra, è bene riportare una frase dell’intervista fatta ai microfoni Sky alla fine della partita Cagliari-Napoli: «La gioia collettiva è sempre più straripante e appagante della gioia individuale».
Oggi tutti ammirano la rete di passaggi del Napoli. È frutto della schematizzazione didattica capace di creare un bel gioco (coltivazione attiva del piacere), ma anche, se non principalmente, dalla voglia di sostenersi e proporsi in aiuto da parte di degli uomini di Sarri (spirito sociale). Senza queste due forze coincidenti non ci sarebbe il Napoli di cui si parla in Europa. E queste due forze, già nella mente di Sarri, si sono sviluppate grazie ad esemplificazioni concettuali che la città stessa ha dato al tecnico e ai suoi uomini. Napoli è una Musa, e questa volta anziché quadri, poesie e opere liriche, ha creato una squadra di calcio di cui in futuro non potremo non parlare.