La partita è finita ma la curva del Napoli continua a cantare: “abbiamo un sogno nel cuore, Napoli torna campione”. Ma quando Insigne si avvicina in lacrime alla curva, sembra un congedo, e quel sogno finito. Dopo più di dieci anni, dopo aver segnato il gol del vantaggio quella sera, e dopo aver baciato lo stemma, realizza che forse non vincerà mai uno Scudetto con la maglia del Napoli. Ci è andato vicino almeno un paio di volte: quattro anni fa, dopo l’entusiasmante stagione con Sarri in panchina - il record di punti, il gioco spettacolare, la vittoria a Torino con gol di Koulibaly; ci aveva creduto quest’anno, quando il Napoli, meno forte, forse avrebbe accettato un anno di transizione, e invece suo malgrado si è trovato a poter vincere per inerzia. Per delle concorrenti svagate, per un’ossatura dell’undici con una solidità superiore alle altre: Koulibaly-Anguissa-Osimhen. Anche per il pragmatismo di Spalletti, furbo in poco tempo a scegliere tutti i compromessi giusti su cui costruire il pragmatismo della sua squadra.
Dopo la brutta e sfortunata sconfitta con la Fiorentina - di nuovo, come quattro anni fa - quella con la Roma aveva l’aria dell’ultima possibilità, ed è invece finita col Napoli che lanciava lungo, in un misto di fretta e disperazione, schierata con uno strambo 3-5-2. La sua identità di gioco dissolta, la squadra indecisa se provare a vincere o mantenere il pareggio che la Roma aveva trovato nel primo degli interminabili otto minuti di recupero - quasi una frazione di gioco supplementare. È finita col Napoli senza Insigne, Osimhen e Lozano, e che lanciava verso il talismano Mertens, più pregando che cercando davvero un’azione pericolosa, mentre Spalletti si grattava la testa. La Roma, dall’altra parte, sembrava aver pescato nel serbatoio segreto da cui la squadra attinge negli ultimi minuti delle partite. Se le partite durassero 85 minuti, la Roma avrebbe nove punti in meno. Un’energia che però stavolta è stata particolarmente inattesa, visto che i giallorossi avevano giocato 90 minuti appena giovedì, e in campo erano tornati titolari nove undicesimi della squadra che aveva giocato contro il Bodo/Glimt. Con un po’ di precisione in più in quei minuti, forse la Roma sarebbe riuscita a completare la rimonta.
In quest’azione Carles Perez porta palla in transizione mentre la difesa del Napoli, o quel che ne rimane, è completamente disgregata davanti a lui.
Nel primo tempo le cose erano andate diversamente, anche grazie a un paio di scelte forti di Luciano Spalletti. Zielinski è rimasto in panchina - sta vivendo un pessimo momento di forma, ma le sue migliori partite in questa stagione hanno coinciso col miglior Napoli. Senza di lui Spalletti ha ribaltato il triangolo di centrocampo, con Lobotka vertice basso e due mezzali molto mobili. Hirving Lozano è stato preferito a Politano, e questa scelta ha pagato subito, dopo poco più di cinque minuti. Il Napoli ha costruito sul suo lato destro, è tornato indietro per un attimo e la difesa della Roma si è alzata di qualche metro in modo goffo. Ibanez ha seguito Anguissa in avanti, mentre Zalewski è rimasto in una zona ambigua. Lobotka, dopo un bello scambio con Fabian Ruiz, si è accorto dell’occasione e ha servito Lozano in profondità con una bella palla. Ibanez in recupero è, come spesso gli capita, pasticcione e scoordinato. Insigne, con l’aria crepuscolare che ha quest’anno, ha calciato un rigore impeccabile a incrociare, mettendo il Napoli nelle situazioni mentali e tattiche ideali: senza più la pressione di sbloccare il risultato, contro una squadra spesso in difficoltà quando è costretta ad attaccare.
La scelta di Lozano è sembrata azzeccata non solo per la sua efficacia in occasione del rigore. Il messicano non ha giocato sempre con i piedi sulla riga laterale come Politano e ha alternato movimenti a stringere verso il centro a scatti in profondità. Un dinamismo su cui la coppia Zalewski-Ibanez ha faticato a trovare le misure. Nell'azione sotto è Koulibaly a chiamare direttamente il movimento di Lozano a venire incontro nel mezzo spazio; Ibanez viene attirato fuori la linea, Zalewski si accoppia con Zanoli, mentre alle spalle di tutti si inserisce Anguissa che crea un pericoloso due contro due con la difesa della Roma. Smalling guarda preoccupato, ma il Napoli nel primo tempo non è stato abbastanza rapido e preciso per sfruttare queste rotazioni favorevoli.
La Roma aveva iniziato con un certo carattere, determinata nei duelli, stranamente lucida col pallone tra i piedi e proattiva in pressing. L’arma tattica decisiva nella partita di giovedì, e quella che sembra sempre più la potenziale chiave di volta per l’identità di una squadra spesso debole quest’anno. Il gol però ha rotto gli equilibri: il Napoli si è piazzato nella metà campo della Roma, che ha perso pazienza e si è impigrita nella ricerca insistente di lanci lunghi e diretti sulle punte. La squadra di Mourinho è, e sarà sempre, molto diretta con la palla. C’è però una differenza tra preparare il lancio lungo e usarlo come scorciatoia. La frenesia verticale della squadra spesso coincide con la presenza di Zaniolo tra i titolari: una calamita per i compagni, una tentazione irresistibile di cercarlo in qualsiasi situazione di svantaggio.
I duelli tra Zaniolo e Koulibaly sono stati una delle poche fonti d’attrazione di una partita scarica - come molte di questa parte finale del campionato. Zaniolo alla fine ha combinato poco ma ci ha provato molto, sempre in inferiorità numerica, cercando sempre di ribaltare situazioni di gioco compromesse, cercando azione dopo azione di caricarsi sulle spalle la squadra in modo ciclopico - finendo spesso a litigare con l’arbitro, nel suo gioco di contatti continui. Ha chiuso la partita con 9 dribbling tentati e 5 completati. Paga ancora molta imprecisione, più nella testa che nei piedi, come quando dopo pochi minuti non serve Pellegrini lanciato da solo verso la porta.
La Roma ha sofferto l’assenza di Mkhitaryan, tenuto a riposo. La squadra aveva meno qualità nella risalita del pallone e ha finito per restare nella propria metà campo per quasi tutto il tempo: un po’ per la propria fretta, un po’ per un Napoli comunque volitivo. Per i primi 45’ la squadra di Spalletti ha controllato il contesto ma creato molto poco. È sembrata avere poche armi per dare fastidio a una difesa della Roma migliorata nella difesa posizionale.
Da anni il Napoli basa la propria identità tattica sul possesso palla. Da Sarri in poi, ha sempre scelto allenatori che puntavano molto sul possesso per controllare le partite, ordinarsi e disordinare gli avversari; le rose sono state costruite assecondando questa idea, con giocatori bravi, a volte fenomenali, nei fondamentali tecnici. In un campionato che spesso rigetta la tecnica, Il Napoli rimane una delle squadre più tecniche, con alcuni dei giocatori con la migliore sensibilità nel primo controllo e nella gestione della palla, eppure ha smarrito la propria capacità di giocare un possesso palla di qualità. In questa stagione il Napoli ha perso la capacità di abbassare gli avversari attraverso lunghe fasi di palleggio, ha smesso di essere brillante negli ultimi metri, ha perso anche una prerogativa storica del calcio di Spalletti, ovvero usare il possesso come strumento difensivo, come si è visto ieri nel secondo tempo. In particolare, la qualità della circolazione della palla sembra dipendere dallo stato di forma contingente dei suoi giocatori, e quando Lobotka è uscito per problemi fisici, intorno all’ora di gioco, il Napoli è lentamente evaporato. Proprio mentre la Roma alzava il proprio baricentro, cercando di imporre la propria energia nervosa alla partita, il Napoli ha perso i suoi riferimenti nell’uscita della palla. Il cambio a fine primo tempo tra Cristante e Mkhitaryan ha tolto alla Roma frenesia verticale, facendole guadagnare invece qualità tecnica e pazienza nella gestione della palla. La precisione dei passaggi è passata dall'80 all'85% tra primo e secondo tempo.
Le due squadre però hanno continuato ad approfittare dei reciproci difetti. L’imprecisione confusionaria della Roma, la sua incapacità a creare occasioni pulite contro difese schierate, e dall’altra parte la poca qualità del Napoli nel resistere al pressing e ripartire - in questo l’ingresso di Zielinski non ha aggiunto niente. Il vantaggio ha retto anche grazie a uno strepitoso Koulibaly che, dopo le difficoltà con la Fiorentina, è sceso in campo in formato highlights dal primo minuto.
C’era comunque la sensazione che il gol potesse arrivare da un momento all’altro. Al 60’, per esempio, Abraham si era ritrovato a sorpresa solo in area di rigore su un cross di Karsdorp. Il suo errore è paradigmatico di un calciatore a volte stranamente scoordinato, e che spesso riesce a rendere questa mancanza di coordinazione in una forma di imprevedibilità.
L’azione con cui la Roma infine pareggia è pregevole, pur nel contesto di una difesa del Napoli ormai sciolta e confusa dallo schieramento a tre. Juan Jesus esce alto per prendere Carles Perez, aprendo il vuoto alle sue spalle. In quel vuoto si inserisce Lorenzo Pellegrini, che può servire in area di rigore le due punte, in clamorosa superiorità numerica in area. Entrambe - prima Felix con un velo, poi Abraham con un tacco - lasciano che il pallone scorra, lì dove arriva El Shaarawy a segnare il pareggio con un tiro sicuro sul primo palo. Non c’è niente di casuale nei gol della Roma dopo il ’90 (è il terzo della stagione di El Shaarawy nei minuti di recupero), e non è la prima azione ben confezionata della squadra di Mourinho nella partita. A dieci minuti dalla fine, l’occasione del rigore reclamato su Zaniolo, la Roma aveva costruito un’azione magnifica - palla avanti, palla indietro - simile a quella del secondo gol contro il Bodo. È impossibile però non notare che una squadra che sta lottando per lo Scudetto nei minuti di recupero si ritrovi a difendere in quel modo sgangherato.
Dopo la partita uno Spalletti ai limiti dell’afasia ha rivendicato la scelta di passare alla difesa a tre, spiegando che il Napoli soffriva i quinti alti della Roma e che così invece copriva meglio il campo. Al di là della scelta contingente, la squadra però è sembrata poca lucida e confusa. Non è chiaro se è più un problema mentale, tattico o fisico. L’impressione è che il Napoli quest’anno abbia costruito la propria identità su troppi compromessi, perdendo quelle certezze fondamentali nei momenti difficili che una stagione inevitabilmente presenta. Oggi è complicato dire che tipo di squadra è il Napoli, mentre comincia a essere più semplice in questo momento dire che squadra sta diventando la Roma. Ancora una volta, con le formazioni stanche, le distanze scombinate, i giallorossi sono stati a proprio agio. Pur mantenendo alcuni difetti strutturali recenti - una certa inclinazione all’errore individuale in difesa, la difficoltà ad attaccare difese schierate - la Roma è diventata una squadra tosta, difficile da battere, e che infatti non perde in campionato dal 9 gennaio. I miglioramenti futuri passeranno soprattutto dalla capacità di alzare l’intensità del pressing, per creare partite con ritmi più alti in cui innescare pericoli a partire dalla fase difensiva. Se vuole migliorare, la Roma deve abbracciare il caos.
Il Napoli forse non contava di lottare per vincere lo Scudetto in questa stagione, ma tutto considerato è la squadra che forse esce da questa logorante corsa al ribasso coi maggiori rimpianti. A un certo punto - con la crisi dell’Inter e i limiti strutturali del Milan - si è ritrovata nella scomoda situazione di favorita. Forse anche per questo ha passato il girone di ritorno a dire che non ambiva, davvero, alla vittoria. A forza di ripeterselo il Napoli ha finito per crederci.