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La Nazionale che lottò per il calcio femminile
27 lug 2023
Un estratto da "Capitane coraggiose", il nuovo libro di Marco Giani.
(articolo)
7 min
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IMAGO / UPI Photo
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Pubblichiamo un estratto di "Capitane coraggiose - Sara Gama e Megan Rapinoe, due leader a confronto", il nuovo libro di Marco Giani edito da Ultra. Se volete acquistare il libro potete farlo cliccando qui.

La storia degli sport femminili in Italia sembra essere fatta unicamente di singole campionesse: Ondina Valla, Celina Seghi, Novella Calligaris, Sara Simeoni, Deborah Compagnoni, Manuela Di Centa, Giovanna Trillini, Valentina Vezzali, Federica Pellegrini... pare quasi che non siano mai esistite delle grandi Nazionali azzurre al femminile.

Se ciò in parte risponde a un dato di realtà (si pensi che la prima e finora unica medaglia olimpica femminile di squadra, quella della pallanuoto, risale al 2004), è vero d’altra parte che è anche mancata una narrazione, soprattutto per quei team che invece avrebbero ampiamente meritato un’epica che nel nostro Paese pare riservata solamente alle singole, inarrivabili campionesse. Se quindi delle Nazionali femminili azzurre nessuno pare sapere niente, non ci stupiamo che siano misconosciute le lotte condotte da questi spogliatoi, collettivi spesso agguerriti che, puntando sulla forza del gruppo, hanno trovato il coraggio necessario per ribellarsi al marcio di marca maschile che prosperava attorno a loro. Il recentissimo caso delle Farfalle Azzurre è lì a dimostrarlo, purtroppo: l’ambiente assolutamente solipsistico e dominato dalle figure degli allenatori e dei medici della ginnastica ritmica è certo lontano anni-luce dalle storie che narreremo in questo e nei prossimi paragrafi, e che purtroppo rimangono tuttora sconosciute al grande pubblico.

Partiamo giustamente dal calcio, e dalla triste vicenda dei Mondiali del 1999, gli ultimi giocati dalle azzurre prima del ritorno vent’anni dopo in terra francese. Quelle che nell’estate di quell’anno sbarcarono negli States erano le vicecampionesse in carica d’Europa: nel 1997, in Norvegia e Svezia, solo le solite tedesche erano state in grado di fermare in finale il sogno di una Nazionale che poteva ancora contare sui servigi di Carolina Morace, la quale un anno dopo aveva deciso di appendere le scarpette al chiodo. La sua compagna di reparto Patrizia Panico era comunque pronta a raccogliere l’eredità di Morace, mentre la fascia da capitana era al braccio di Antonella Carta. La sorte aveva però preparato per loro un girone eliminatorio a dir poco infernale, composto da Brasile, Messico e Germania.

Per partecipare al Mondiale dal quale mancavano da otto anni le azzurre, tutte quante dilettanti, furono costrette chi a prendere le ferie dal lavoro, chi a interrompere gli studi. Una volta giunte in terra americana, poi, le calciatrici si accorsero da subito dell’organizzazione “perlomeno sommaria” da parte della Figc: “Le dotazioni di tute e maglie da allenamento erano insufficienti, [...] talvolta erano usurate e in qualche caso quelle dismesse dalla nazionale maschile. Il luogo in cui le ragazze erano alloggiate, poi, non prevedeva un vero e proprio servizio di guardaroba: al piano superiore c’erano delle lavatrici a gettone e le maglie occorreva lavarsele da sole”. Dalle colonne del «Corriere della Sera», intanto, l’inviato Giancarlo Padovan descriveva così ai tifosi rimasti in Italia ulteriori difficoltà logistiche che le loro rappresentanti calcistiche avevano già dovuto affrontare, ben prima di scendere in campo contro le tedesche, prime avversarie designate dal calendario: “Il seguente programma spiega meglio di ogni altro dettaglio la loro precaria condizione sportiva. Sveglia alle 5 del mattino, imbarco da Roma Fiumicino per Milano, cinque ore di attesa a Malpensa, reimbarco alle 14.15 per Los Angeles. Undici ore di volo in classe turistica. Cose che ad altri non potrebbero succedere mai. O non più. Non a una squadra di calcio maschile: si va dalla business class agli aerei riservati. In genere i maschi tornano dalle trasferte della nazionale con i velivoli privati messi a disposizione dalle società. Comunque, difficilmente tutto ciò accadrebbe a qualsiasi atleta che voglia legittimamente competere nella più importante delle manifestazioni dopo l’Olimpiade. Lunedì scorso, all’arrivo, le ragazze si sono sgranchite le gambe, anziché al campo di allenamento, nei corridoi dell’albergo che le ospita: un po’ di corsa, esercizi per gli addominali, stretching. Passa il tempo e crescono le aspettative, ma il calcio delle donne in Italia resta ‘l’ultima ruota del carro’, come ha detto con realismo da spogliatoio la capitana azzurra Antonella Carta”. Il pezzo di Padovan portava poi alla luce ulteriori problemi, quali «l’esiguo periodo di preparazione» concesso alle azzurre nei centri federali in patria, la mancanza nella spedizione mondiale di un fisioterapista, i premi concessi dalla Federazione solo nell’assai irrealistico caso di un raggiungimento delle semifinali.

Non è che i disagi descritti da Padovan fossero del tutto nuovi per delle Nazionali femminili, ma in molti Paesi ormai c’era stata un’evoluzione, come possiamo capire da un paio di esempi. In occasione dell’International Women’s Tournament di Cina 1988 (una specie di prova generale del primo Mondiale femminile, che si sarebbe tenuto in Cina tre anni dopo), le calciatrici dell’Australia non solo avevano dovuto pagare 850 dollari australiani per partecipare al torneo, con tanto di regolare ricevuta rilasciata dalla Federcalcio australiana, la quale le aveva “premiate” col permesso di tenersi la maglietta da gioco, ma non i pantaloncini. Durante i Mondiali Femminili di Svezia 1995 la Germania era stata l’unica squadra a volare da una località all’altra, mentre tutte le altre Nazionali erano state costrette – con tutti i disagi del caso – a raggiungere i vari stadi, sparsi per tutto il Paese scandinavo, via treno.

Sul campo, le azzurre fecero quanto possibile, terminando subito la loro avventura mondiale con un “più che dignitoso” terzo posto nel girone eliminatorio, alle spalle delle ben più quotate brasiliane e tedesche: la rabbia accumulata da Patrizia Panico e compagne per l’indegno trattamento ricevuto dalla federazione era però a tal punto montata che, tornate in patria, “decisero di tenersi quelle maglie”. Ben presto furono tuttavia costrette a pagare il conto della loro simbolica protesta: “Di ritorno dagli Usa le calciatrici ricevono dalla Figc la diaria della trasferta: Lire 1.650.000, con decurtazione di Lire 630.000, per materiale non riconsegnato, cioè le maglie”. Di fronte a tale insulto agli enormi sacrifici che la trasferta aveva comportato per molte di esse (le ferie per le lavoratrici, i mancati esami per le studentesse), le calciatrici decisero di scrivere una lettera aperta all’allora Ministra per le Pari Opportunità Laura Balbo Ceccarelli, denunciando per altro l’assoluta inadeguatezza dell’Italia “rispetto all’emancipazione della donna nella società e in particolare all’evoluzione del calcio femminile nel mondo”: un interessante esempio di riferimento all’evoluzione globale del gioco per far pre- sente alle autorità la necessità che l’Italia non rimanesse indietro, con una mossa del tutto simile a quella delle prime calciatrici d’Italia, che nella Milano del 1933 si erano rivolti ai giornali facendo presente che “in Francia, in Inghilterra ci sono dei Clubs femminili bene organizzati e si svolge annualmente il campionato femminile come da noi si può svolgere il campionato degli uomini. Perché non tentare anche fra noi qualche cosa?”.

Federica D’Astolfo, nel frattempo divenuta la nuova capitana delle azzurre, firmò la lettera a nome delle compagne, ma dovette pagare personalmente il prezzo più alto dell’insubordinazione collettiva, giacché venne immediatamente estromessa dalla Nazionale; di conseguenza le altre azzurre il 15 ottobre 1999 “scrissero una lettera di solidarietà alla D’Astolfo, in cui le riconoscevano il ruolo di leader sia in campo che fuori, denunciando la grottesca e inqualificabile vicenda del rimborso spese. La Ministra scriverà a Federica, dando disponibilità a ricevere una delegazione rappresentativa della Nazionale. Federica, non facendo più parte della Nazionale, gira la lettera alla capitana entrante, ma a quell’incontro non ci andrà nessuna. Non si sa se per solidarietà o per timore. Sta di fatto che Federica rientrerà in Nazionale solo un anno e mezzo dopo, quando a guidare la squadra arriverà Carolina Morace”.

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