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Riccardo Rimondi

La Nazionale italiana d’atletica più forte di sempre

Agli Europei di Roma è stato un trionfo.

Il 3 agosto 2021, nello stadio olimpico di Tokyo, il fiorentino Leonardo Fabbri gettò il suo peso a 20,80 metri dalla pedana. Chiuse le qualificazioni tredicesimo, escluso dalla finale per sei centimetri. Poi si presentò ai microfoni della RAI: «Dopo il terzo lancio a Parigi non voglio avere nessuno davanti a me», disse. L’americano Ryan Crouser vinse la finale con 23,30: due metri e mezzo in più di Fabbri.

 

Il 15 maggio 2024, con 22,95 metri, Fabbri ha battuto il record italiano di Alessandro Andrei, che resisteva da quasi 37 anni, diventando il quinto lanciatore di sempre. In inverno ha conquistato il bronzo ai Mondiali indoor di Glasgow, l’anno scorso l’argento iridato a Budapest. Pochi giorni fa, lanciando male, ha stravinto il titolo europeo a Roma con una misura di 22,45 passata quasi inosservata ma che, in altre occasioni, sarebbe stata la prestazione di copertina della spedizione azzurra. A tre anni da quella che poteva suonare una spacconata detta a favor di telecamera, e a meno di due mesi dal via dei Giochi olimpici di Parigi, Fabbri è l’unico atleta al mondo che sembra avere qualche velleità di impensierire Crouser, oltre forse all’altro statunitense Joe Kovacs.

 

La sua biografia recente descrive, forse meglio ogni altra, il percorso che ha fatto l’atletica italiana dopo il primo agosto 2021, data dei dieci minuti magici della doppietta Gianmarco Tamberi-Marcell Jacobs. I 112 azzurri impegnati negli Europei di Roma hanno lasciato la capitale con undici ori, nove argenti e quattro bronzi. È il bottino più ricco di sempre in un campionato continentale. Sono state ottenute le stesse medaglie racimolate complessivamente nelle tre precedenti edizioni. Con un sacco di prime volte: è il caso di Sara Fantini, oro nel martello, la prima italiana nella storia a vincere un grande evento all’aperto nei lanci, come ha ricordato Queenatletica.

 

Bisogna tenere i piedi per terra e ricordare due aspetti. Primo, spesso chi gioca in casa rende e raccoglie più del suo valore. Secondo, gli Europei disputati negli anni olimpici sono una tradizione relativamente recente: risalgono al 2012 e hanno un tasso tecnico di solito inferiore a quelli svolti a metà strada tra le due competizioni a cinque cerchi, per via delle assenze e dei campioni presenti a mezzo servizio. Quest’anno, però, c’è da dire che il livello non era così basso, tutt’altro.

 

Fatte le debite premesse, la sentenza di Roma è chiara e conferma quello che si sospettava già l’anno scorso ai Mondiali di Budapest, e ancora di più dopo quelli indoor di Glasgow: a Parigi l’Italia avrà in mano la Nazionale più forte di tutti i tempi. Ovviamente saranno poi le medaglie olimpiche ad essere ricordate, e quelle devono ancora essere vinte, ma per adesso l’unico paragone che tiene, per numero di punte e profondità della squadra, è quello con Los Angeles 1984. Allora gli azzurri conquistarono tre ori, un argento e tre bronzi: il bottino più ricco di sempre, frutto delle vittorie di Andrei nel peso, Alberto Cova nei 10.000 e Gabriella Dorio nei 1.500, dell’argento di Sara Simeoni nell’alto e dei bronzi di Giovanni Evangelisti nel salto in lungo e, nella marcia, di Maurizio Damilano (20 km) e Sandro Bellucci (50 km). Quella squadra era infarcita di fuoriclasse – tra cui Pietro Mennea e il mezzofondista Francesco Panetta – e fu anche favorita dal boicottaggio dell’Unione Sovietica e di quasi tutti i Paesi del blocco socialista. Era un’altra atletica, con poche grandi superpotenze: se ne mancava una, si aprivano le praterie per molti.

 

Oggi lo scenario è cambiato e i Paesi forti sono molti di più. Anche per questo è difficile fare un paragone con allora, ma la sensazione è che l’Italia del 2024 non abbia nulla da invidiare a quella di quarant’anni fa. Anzi, forse è anche più forte. Senza dubbio è nettamente superiore alla spedizione del 2021, che comunque è valsa cinque ori impronosticabili. A Roma per sei giorni gli azzurri hanno conquistato quattro medaglie al giorno. Solo chi ha seguito l’atletica italiana negli anni più bui della sua storia può apprezzare pienamente questo ruolino di marcia. Per chi non l’ha fatto provo a riassumere: l’Italia ha dominato il medagliere continentale e doppiato i 12 podi di Spalato 1990, prima di Roma il miglior Europeo della storia azzurra. Per l’occasione storica che è stata, l’Olimpico avrebbe meritato più spettatori di quelli che si sono effettivamente presentati.

 

Ora, prima di cercare di capire cosa aspettarsi da Parigi, vale la pena ripercorrere i sei giorni che hanno consacrato il quadriennio più esaltante della storia azzurra.

 

Simonelli re dei pirati

Lorenzo Ndele Simonelli, 22 anni, è nato in Tanzania il primo giugno 2002. Lo stesso Paese ha dato i natali alla mamma, mentre il papà è un antropologo italiano. Si è trasferito in Italia a cinque anni: «Sono dieci anni che non vedo i miei nonni. Ogni tanto qualche video chiamata in swahili, che fitte», ha raccontato in un’intervista su La Stampa.

 

Simonelli è un appassionato di One Piece. Aveva indossato il cappello del protagonista a Glasgow, il due marzo, quando aveva coronato un inverno passato a migliorare a ripetizione il record italiano dei 60 ostacoli fino a 7”43, con un argento ai Mondiali indoor. Lì si era già capito che questo non era solo un giovane di belle speranze. Simonelli lo ha confermato nelle prime settimane di stagione outdoor. All’esordio stagionale ha portato il record nazionale dei 110 ostacoli a 13”21. Agli Europei, in semifinale, è sceso a 13”20.

 

Poi è arrivata la finale, dominata dal primo all’ultimo metro, e un crono di 13”05 che lo proietta in un’altra dimensione: con 13”05 si va in finale olimpica sempre e, spesso, si lotta per una medaglia. Non necessariamente di rincalzo. Simonelli è anche un valido sprinter, con un personale di 10”25 sui 100 che gli permette di essere nel giro della staffetta. Un eroe? «No, un pirata. Gli eroi, soprattutto quelli sportivi, non sono liberi».

 

In una risposta del genere c’è molto dello spirito di questa Nazionale, fatta di atleti di potenzialità enormi che per ora dominano il peso delle aspettative. Simonelli è arrivato a fari spenti a essere uno dei migliori ostacolisti del mondo, oggi il più veloce dietro all’americano Grant Holloway che ha vinto gli ultimi tre titoli mondiali. «Holloway al coperto non è mai stato fregato in dieci anni, all’aperto ogni tanto sì, quindi non si sa mai», lo ha avvertito Simonelli. 

 

 

Con lui si allena Zaynab Dosso, che compirà 25 anni a settembre. Da tempo è una delle velociste di punta del movimento. Ma come Simonelli, anche lei in inverno ha fatto un passo avanti decisivo. Ha migliorato a più riprese il record italiano dei 60 indoor, portandolo a 7”02 e poi vincendo un bronzo mondiale a Glasgow. E il 15 maggio 2024 a Savona ha scritto un piccolo pezzo di storia. Prima ha migliorato il primato dei 100, portandolo a 11”12 rispetto all’11”14 che aveva siglato l’anno scorso e che le aveva permesso di raggiungere Manuela Levorato. Quel record, registrato sotto la pioggia, è durato pochi minuti: nello stesso meeting, in finale, Dosso ha chiuso a 11”02, guadagnando un decimo secco. Poi agli Europei un altro ritocco in semifinale a 11”01, prima di affrontare una finale che le ha regalato il bronzo. Il muro degli 11 secondi è lì, serve solo l’occasione giusta. Le atlete top al mondo restano un passo avanti, ma non sono più di un altro pianeta.

 

Né Simonelli né Dosso erano a Tokyo nel 2021. Non c’era nemmeno Chituru Ali, a sua volta venticinquenne. L’esplosione del suo talento era attesa da un paio d’anni e quest’anno si è concretizzata. A furia di prestazioni convincenti ha conquistato la qualificazione europea nei 100 metri e in finale, con 10”05, ha conquistato l’argento dietro a Jacobs.

 

Come sta Jacobs?

Il campione olimpico dei 100, coprotagonista dei dieci minuti magici di Tokyo 2021, sta riemergendo da un biennio complicato. Non è ancora tornato quello del 2021, ma sta riacquisendo fiducia nei propri mezzi. Finora non è sceso sotto i 10 secondi, ma il 10”02 di Roma dà speranza. Certo, le medaglie viaggiano più veloci. Jacobs ha attualmente il venticinquesimo tempo mondiale del 2024.

 

Ma non bisogna dimenticare le condizioni in cui è nato l’oro del 2021. Jacobs si era presentato in Giappone fresco di un record italiano (9”95) che gli assegnava qualche chance di ben figurare sul rettilineo di Tokyo. I pochi siti di scommesse che lo quotavano vincente lo pagavano 25 a 1. Alle Olimpiadi chiuse la batteria in 9”94 e le semifinali in 9”84: un record europeo appena sufficiente a qualificarlo come ripescato alla finale. Lì ci mise 9”80 per finire tra le braccia di Gianmarco Tamberi.

 

Morale: Jacobs è fisicamente molto fragile, ha avuto una carriera costellata di infortuni e nel 2022, dopo una stagione indoor dominata, si è fermato nel momento in cui sembrava non avere rivali. Ma quando è in forma resta una mina vagante e in giro non ci sono Usain Bolt. A settembre ha lasciato l’allenatore che lo ha portato in cima al mondo, Paolo Camossi, e si è spostato alla corte dell’americano Rana Reider. Parigi dirà se ne è valsa la pena. Intanto Jacobs a trent’anni ha mantenuto la corona di campione europeo e ha corso da protagonista la 4×100, con una frazione sotto i 9 secondi.

 

L’inusuale abbondanza nella staffetta

La staffetta breve ha testimoniato quanto gli azzurri, ormai, corrano su un altro livello rispetto a quattro anni fa. Il problema attuale, ed era impossibile pensare di vivere un’epoca simile, è l’abbondanza. In semifinale l’Italia ha schierato una sorta di squadra B composta da Roberto Rigali, Matteo Melluzzo, Lorenzo Patta e Simonelli. Un buon quartetto, non il migliore possibile, che ha conquistato la finale fermando il cronometro in 38”40, un tempo che avrebbe fatto gridare al miracolo gran parte delle spedizioni azzurre prima del 2021.

 

In finale Melluzzo è stato spostato in prima corsia al posto di Rigali, mentre sui rettilinei sono stati schierati Jacobs e Filippo Tortu. Gli azzurri hanno corso in controllo, con tre buoni cambi, e hanno stravinto fermando il cronometro in 37”83. È il quarto miglior tempo nella storia della Nazionale.

 

 

Detto che la staffetta è una disciplina rischiosa, in cui la differenza tra vittoria e fallimento è labile e aleatoria viste le alte probabilità di sbagliare un cambio a 40 chilometri orari, nel mondo c’è solo una Nazionale che, al netto di errori, pare fuori portata: gli Stati Uniti. Con tutti gli altri l’Italia se la gioca e non necessariamente da outsider. Paradossalmente il problema è che questa squadra è persino troppo lunga.

 

Non è sceso in pista, nemmeno in batteria, un signor duecentista come Fausto Desalu che fu la terza freccia all’arco azzurro a Tokyo. E non ha corso il vicecampione europeo Chituru Ali. Stavolta per scelta condivisa, ma in generale c’è un problema: dove metterlo? Chiaramente un vicecampione europeo non può fare panchina, ma Ali è un corridore da rettilineo. Come Tortu. E se Jacobs è inamovibile dalla seconda frazione, il sardo-brianzolo è un quarto frazionista nato. A Roma, nei “suoi” 200 metri, ha prima dominato la semifinale stampando un 20”14 da sogno e poi si è arenato in finale: in testa per 150 metri, si è piantato e ha chiuso secondo, con la sensazione di aver perso l’occasione della vita per portarsi a casa l’oro individuale.

 

Da duecentista Tortu può adattarsi meglio di Ali a correre in curva, ma la quarta frazione è sempre stata la sua e oggettivamente lì si è dimostrato un osso duro per chiunque. Quello visto a Roma è ormai un copione rodato: Tortu (si) delude nella gara individuale, poi arriva la staffetta e risorge con un ultimo rettilineo mostruoso. È dura andare a toccare un meccanismo simile.

 

Non sono solo gli sprinter a far sognare l’Italia della velocità. Anche sulle staffette 4×400 le aspettative sono alte. I risultati sono buoni da anni, ma a Roma c’è stato un ulteriore passo avanti: la 4×400 mista ha conquistato un argento con record italiano (3’10”69), quella maschile è a sua volta arrivata seconda. Fuori dal podio è rimasto il quartetto femminile, quarto, che ha portato il primato nazionale a 3’23”40: merito di Ilaria Elvira Accame, Giancarla Trevisan, Anna Polinari e Alice Mangione (che ha chiuso l’ultima frazione in 49”7). Tutte hanno dimostrato come la 4×400, più che somma di talenti individuali, sia una gara a sé, che deve molto alla carica agonistica e all’intelligenza tattica delle sue interpreti. Fuori dal quartetto è rimasta l’ostacolista Ayomide Folorunso, altra staffettista sontuosa.

 

Il volto del giro della morte azzurro, e per certi versi dell’intero Europeo, ha i lineamenti di Luca Sito. Ha ottenuto due argenti in staffetta ed è finito quinto, fuori dal podio, nei 400 individuali. Ma al netto del miglioramento di Simonelli e dei salti di Mattia Furlani e Larissa Iapichino, con le sue sgroppate nella disciplina più difficile – e quella in cui l’Italia sconta il gap maggiore rispetto al resto del mondo – si è affermato come uno dei giovani più talentuosi del giro azzurro.

 

Sito ha 21 anni e l’anno scorso correva i 400 in 46”31. Quest’anno, prima degli Europei, si era già migliorato di un secondo: 45”35. A Roma ha corso cinque 400 in sei giorni. La prima sera ha aperto le danze della 4×400 mista, chiudendo la prima frazione in 44”7. La mattina successiva, facendo jogging, ha portato il suo personale a 45”21. Il terzo giorno, in semifinale, è esploso: spingendo fino alla fine ha fermato il cronometro in 44”75. Ha migliorato di due centesimi il primato di Davide Re, che cinque anni fa era diventato il primo italiano nella storia a sfondare il muro dei 45 secondi. A Sito sono bastati i primi anni di carriera per raggiungere quel livello. E l’impressione è che abbia tanto margine. In finale, la sera dopo, ha pagato dazio alla stanchezza: ha chiuso quinto, in 45”04, ma forzando il passaggio ai 200 per cercare di vincere.

 

Con l’inserimento di questo tassello, l’Italia a Parigi può schierare una 4×400 formidabile. Nella sua composizione ideale, il quartetto azzurro risulterebbe temibile per chiunque. Edoardo Scotti potrebbe essere il secondo componente. Il terzo dovrebbe essere Re, ma molto dipenderà dal recupero dall’infortunio che gli ha impedito di essere agli Europei. Infine c’è Andrea Sibilio: a Roma un problema lo ha fermato pochi minuti prima del via, ma è un pezzo imprescindibile della staffetta.

 

Sibilio era esploso nel 2021, conquistando a Tokyo l’accesso alla finale dei 400 ostacoli e correndo la quarta frazione della 4×400 in finale. Sulla distanza piana ha un personale di 45”08 e l’impressione è che abbia i numeri per scendere sotto i 45 secondi. A Roma in 47”50 ha migliorato, dopo 23 anni, il primato italiano dei 400 ostacoli di Fabrizio Mori: quel 47”54 che il livornese segnò a Edmonton, secondo al termine di un epico testa a testa col dominicano Felix Sanchez.

 

Anche Sibilio, come Mori, si è trovato la strada sbarrata da un fenomeno e ha dovuto accontentarsi dell’argento: in questo caso a precederlo è stato il norvegese Karsten Warholm, che negli ultimi anni ha riscritto la storia della disciplina. Il problema è che quella di cui fanno parte Sibilio e Warholm è una generazione di fenomeni e la strada per la medaglia è difficile. Sibilio al momento ha il quinto tempo al mondo e almeno tre di quelli che lo precedono (Warholm, l’americano Rai Benjamin e il brasiliano Alison Dos Santos: il podio di Tokyo) sembrano di un altro livello. Ma i conti si fanno in pista e Sibilio non è mai partito battuto in una gara, anche quando l’impresa sembrava impossibile.

 

Battocletti e i suoi fratelli

Il mezzofondo italiano è in piena primavera. A risvegliarlo dal letargo è stato, dal 2018, Yeman Crippa che, progressivamente, ha riscritto tutti i record nazionali dai 3.000 ai 10.000 metri, oltre a conquistare medaglie continentali in pista e in campestre e buoni piazzamenti a livello mondiale. Dall’anno scorso Crippa ha progressivamente accantonato la pista e a Parigi correrà la maratona olimpica, forte di un primato italiano di 2:06’06” messo a segno quest’anno a Siviglia, in una gara chiusa quarto facendo intravedere grossi margini di miglioramento.

 

Crippa è anche detentore del record nazionale della mezza maratona, che ha corso a Roma conquistando il titolo europeo in scioltezza. Nella sua scia è arrivato Pietro Riva, alla prima medaglia importante in una competizione internazionale. Riva è allenato dall’olimpionico di Atene, Stefano Baldini, che segue anche la forte mezzofondista Ludovica Cavalli.

 

 

Anche il mezzofondo maschile, lato uomini, è riemerso dall’oblio. Negli 800 Catalin Tecuceanu, 25 anni, ha continuato a progredire e ha portato a casa da Roma una medaglia di bronzo. Nelle stagioni passate Tecuceanu, dotato di una volata bruciante, spesso si muoveva troppo tardi dalle retrovie per insidiare le posizioni di testa. Quest’anno sembra molto migliorato sul piano tattico e ha portato il suo primato personale a 1’44”01. A 1’43”7 c’è il mitico record italiano di Marcello Fiasconaro, siglato nel 1973: all’epoca era record del mondo, mezzo secolo dopo è il primato nazionale più longevo.

 

Nei 1.500 è arrivato terzo Pietro Arese, 25 anni a ottobre, che si è tolto peso dopo una sfilza di quarti posti. Lo stesso Arese, a maggio, ha corso in 3’32”13, sfilando il record italiano, dopo quasi 34 anni, al mitico Gennaro Di Napoli.

 

Un altro ex corridore di alto livello, Giuliano Battocletti, ha contribuito ai trionfi di uno dei volti copertina di Roma, la figlia ventiquattrenne Nadia Battocletti, che lui ha sempre allenato fin da bambina. Battocletti, che ha sbriciolato fior di record nelle categorie giovanili, si era presentata al grande pubblico a Tokyo, conquistando un settimo posto sorprendente nella finale dei 5.000. La sua crescita è continuata negli anni successivi, per step. E a Roma si è scatenata. Prima ha vinto in volata i 5.000, dando l’impressione di avere ancora un gran margine e tuttavia migliorando il record italiano che ora si attesta a 14’35”29. Quattro giorni dopo, l’11 giugno, ha fatto la stessa cosa nei 10.000, davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: ha chiuso in 30’51”32.

 

 

Il mondo che conta va a un’altra velocità. E la doppietta di Roma è legata anche all’assenza dell’olandese Sifan Hassan. Ma Battocletti sta riducendo il gap che l’intero movimento sconta rispetto al gotha della disciplina. Soprattutto è un’atleta molto intelligente tatticamente e dotata di un’ottima volata. A Parigi, a determinate condizioni, può piazzarsi bene, come a Tokyo. Soprattutto Battocletti ha un enorme pregio, che condivide con tutti gli atleti di punta di questa Nazionale: corre per vincere, anche quando non può. E questo la porta a essere nella posizione giusta per cogliere le microscopiche opportunità che le si presentano, se e quando si presentano.

 

Il volo di Tamberi

Gianmarco Tamberi ha fatto una gara sotto tono fino a quando non ha vinto. Il tasso tecnico della finale di salto in alto era modesto e quella medaglia d’oro poteva perderla solo lui. Ci è quasi riuscito, davanti a Mattarella e a uno stadio che si era riempito per vederlo all’opera. Dopo un’entrata tranquilla a 2,22 ha commesso un errore a 2,26, rimediato al secondo tentativo. Poi ha rischiato il disastro a 2,29: ha commesso due errori, mentre l’ucraino Vladyslav Lavskyy passava in testa. Il marchigiano in quel momento era terzo dietro anche all’altro ucraino Oleh Doroshshuk, autore a sua volta di tre errori alla stessa misura ma capace di superare al primo tentativo i 2,26. Alla terza prova Tamberi ha superato l’asticella con ampio margine. Pochi minuti dopo si è involato verso la vittoria, passando subito i 2,31 mentre Lavskyy commetteva un errore e chiedeva i 2,33. Lì l’ucraino ha commesso gli altri due errori che hanno dato la vittoria al marchigiano, che a sua volta ha sbagliato nettamente le prime due prove.

 

C’è una canzone degli Offlaga Disco Pax che si intitola Kappler. Racconta di un professore di agraria che al colloquio si lamenta con la madre di un ragazzo che nel quadrimestre ha saltato tutti i compiti in classe. Tre giorni prima dello scrutinio, il compito di recupero: “Ha preso otto / Poi mi ha detto / “Prof, in pagella mi dà otto? / La media è otto, no?” / Suo figlio, signora / ha la faccia come il culo”. Ecco, fino a quel momento l’Europeo di Tamberi non era troppo dissimile dal rendimento scolastico del giovane Max Collini (un grande ammiratore dello stile ventrale e di Vladimir Yashchenko, per inciso, a cui sarebbe bello chiedere se è ancora vero che “l’unico fosburysta giustificato è il compagno Javier Sotomayor”).

 

Poi però Tamberi è Tamberi e, per il terzo tentativo, con l’oro già in tasca, ha fatto spostare la misura a 2,34. Lo ha superato con una naturalezza incredibile considerati i naufragi visti pochi minuti prima a 2,33. A quel punto si è messo a zoppicare e, mentre lo stadio tratteneva il fiato, si è tolto una scarpa e ha sparso delle molle sul tartan. Simulare un infortunio è una prova di umorismo piuttosto macabro, per uno che nel 2016 si fece male in pedana a Montecarlo provando una misura inutile a gara già vinta. Tamberi poi ha deciso di rincarare la dose chiedendo di spostare l’asticella a 2,37. Riassumiamo: tra due mesi ci sono le Olimpiadi, Tamberi aveva già vinto e l’ultima volta che fece un numero del genere, otto anni fa, vide la finale di salto in alto a Rio da bordo pedana, con gesso e stampelle. Inutile dire che il salto gli è riuscito alla perfezione. In un colpo solo ha riscattato una gara in cui era arrivato a un soffio dall’harakiri e ha segnato la miglior prestazione mondiale dell’anno alla sua prima uscita in pedana nel 2024.

 

Il resto è show. Selfie, abbracci, invasioni di campo, nuovi abbracci ma stavolta col presidente della Repubblica. Il personaggio Tamberi è uno dei più noti al grande pubblico tra quelli prodotti dall’atletica, non a livello italiano ma mondiale. Lo era già prima che iniziasse a dominare l’alto, grazie a quel vezzo della mezza barba, ed è esploso definitivamente dopo Tokyo e l’abbraccio con Mutaz Essa Barshim. Può piacere o non piacere, di solito piace molto o è detestato profondamente: difficile che lasci indifferenti. Ha portato in pedana il suo stesso gesso prima del salto decisivo di Tokyo, ha suonato la batteria prima della finale mondiale di Budapest, è andato a cercare Mattarella per salutarlo dalla pista prima della finale europea.

 

Ai sostenitori piace il suo modo scanzonato, irriverente e coinvolgente di vivere l’atletica e le competizioni, il suo essere un personaggio sempre sopra le righe, spesso senza un senso del limite. I detrattori gli criticano le stesse cose, oltre a qualche dichiarazione discutibile. Un aspetto va preso in considerazione: Tamberi è il capitano della nazionale e uno così è il parafulmine ideale per il resto della squadra.

 

 

Poi c’è l’atleta e lì le opinioni convergono maggiormente, anche perché c’è poco da discutere. Quello del 2023 e 2024 è il miglior Tamberi di sempre. Non ha ancora raggiunto il 2,39 saltato nel 2016, ma poco importa perché tanto nemmeno i suoi avversari volano più a quelle quote. In compenso il marchigiano è in una forma fisica mai vista. E resta un agonista con pochi paragoni nella storia dell’atletica mondiale.

 

Tamberi è una bestia da gara. Fa troppi errori, ma quando si trova con le spalle al muro spesso rimedia. Raramente rende meno delle aspettative, spesso è andato oltre le sue condizioni. Facile dirlo quando vince, ma questo suo aspetto è emerso in maniera prepotente ai Mondiali di Eugene 2022. Lì Tamberi si è presentato infortunato e in piena rottura col padre-allenatore, con tutto il carico tecnico e umano che questo comporta. In qualificazione ha superato i 2.25 e i 2.28 alla terza prova, entrando in finale per un pelo. Lì, con marce palesemente inferiori agli avversari, ha superato i 2.30 di nuovo al terzo tentativo e i 2.33 al secondo. È arrivato quarto, un miracolo nelle sue condizioni. Poche settimane dopo ha vinto gli Europei.

 

Sono passati due anni e oggi Tamberi è allenato dall’ex saltatore della nazionale Giulio Ciotti. Va in pedana molto più leggero, non rinuncia alle scene da istrione, si esalta in gara. Ed è in uno stato mentale di grazia. A Tokyo non era favorito, a Parigi sì e lo sa. Vincere è un’altra questione. Se ci riuscisse diventerebbe il primo altista della storia a bissare l’oro olimpico. Finora i Giochi in questa disciplina hanno sempre avuto vincitori diversi: se non ci riuscisse, proprio per questo, non cambierebbe nulla.

 

Il presidente della FIDAL Stefano Mei ha detto che se la gioca con Mennea per diventare il più grande di tutti i tempi. Per certi versi è vero, per altri vale ciò che sostiene Sara Simeoni, la signora del salto in alto azzurro: sono epoche diverse, difficilmente comparabili. Più interessante è vedere le differenze tra i due. Non solo caratterialmente Mennea era agli antipodi, ma ha ottenuto molte meno vittorie di quelle che valeva e resta sempre il dubbio che se si fosse impegnato nei 400 avrebbe fatto impallidire il duecentista che abbiamo ammirato. Tamberi ha ottenuto più di quello che poteva dargli il talento. E questo – sia chiaro – è un merito. Le loro traiettorie spiegano molto di quanto sia difficilmente interpretabile uno sport che si gioca sul filo dei centesimi, dei centimetri e delle inclinazioni umane.

 

Tamberi ha 32 anni e, probabilmente, solo Parigi davanti a sé. Ma la Francia sarà la prima tappa a cinque cerchi di altri due saltatori, molto più giovani: Mattia Furlani e Larissa Iapichino. Furlani ha 19 anni e probabilmente è il più grande talento italiano dai tempi di Andrew Howe, con la speranza che il suo entourage e la FIDAL abbiano imparato dagli errori commessi all’epoca col rietino. Dopo gli anni delle giovanili passati a dividersi tra salto in alto e in lungo ha scelto la sabbia e ha fatto bene. Quest’anno ha guadagnato due argenti, il primo ai Mondiali indoor e il secondo a Roma. Entrambe le volte si è trovato la strada sbarrata dal greco Miltiadis Tentoglou, attuale campione di tutto in carica. Si è spinto a 8,38 metri, primato mondiale Under 20, e quell’altro gli ha risposto con 8,65. Si rivedranno a Parigi. I cinque cerchi sono un’altra cosa rispetto all’Europeo di casa, ma Furlani a Roma ha dimostrato di essere un tipo sfrontato e di non avere paura di niente.

 

Iapichino nella capitale ha messo un altro tassello di un bel percorso di crescita: a 22 anni ormai è stabilmente nell’élite mondiale. A dimostrare i gradi che ha guadagnato, nessuno dice più «quanto è forte la figlia di Fiona May». A Roma ha fatto un capolavoro. Cinque salti validi su sei tentativi, tutti ottimi, sempre in crescita: 6,82, 6,84, 6,86, 6,90, 6,94. Prima delle ultime due tornate era quinta, in una gara di livello molto alto, a cinque centimetri dal secondo e terzo posto. Il suo 6,90 l’ha portata al quarto, a un centimetro dal podio. Era al limite eppure all’ultima prova è riuscita a raggranellare quattro centimetri e a piazzarsi seconda. Tra lei e l’oro, come per Furlani, si è frapposta solo la prestazione monstre di un fenomeno, in questo caso la tedesca Malaika Mihambo (7,22). Il salto in lungo è quella disciplina in cui bisogna parafrasare Boskov: meglio un salto a 7,22 che sei salti a 6,99. E però la prestazione da vittoria arriva più spesso da chi salta regolarmente lontano.

 

 

Palmisano, la capitana

In mezzo a tante rivelazioni, la prima medaglia dell’Europeo è arrivata dalla veterana Antonella Palmisano nella 20 chilometri di marcia. La campionessa olimpica in carica ha dominato senza dare diritto di replica a nessuna avversaria e guadagnato un’altra medaglia di un palmares di qualità assoluta. Anche Palmisano, come Jacobs e Tamberi, ha cambiato l’allenatore: ha lasciato Patrick Parcesepe e ora è seguita dal marito Lorenzo Dessi. Ha funzionato, a Roma si è rivista la Palmisano migliore. La pugliese è una delle atlete di punta della Nazionale azzurra e se lo merita, perché per anni ha tenuto in piedi la baracca a suon di piazzamenti di prestigio e podi: quinta a Pechino 2015, quarta a Rio 2016, terza a Londra 2017, di nuovo terza agli Europei di Berlino 2018 («ma sto preparando il matrimonio», disse per scusarsi). È stata il paravento di una Nazionale che a lungo non ha raccolto niente, piagata dagli infortuni di Tamberi e dalle squalifiche di Alex Schwazer, oltre che da scelte federali fallimentari.

 

Dietro di lei Valentina Trapletti, 39 anni da compiere, ha coronato una carriera da brava gregaria con un argento meritato. Tra gli uomini, Francesco Fortunato è arrivato terzo nella sua gara. Non c’era Massimo Stano, in ripresa dall’infortunio patito ai Mondiali a squadre di marcia nella staffetta mista: ha pestato una bottiglietta e lì è finita la gara che doveva qualificare lui e Antonella Palmisano in questo nuovo format che esordirà a Parigi. A salvare la situazione è stata l’altra staffetta, quella composta da Trapletti e Fortunato, che con una gara in rimonta ha vinto l’oro e staccato il pass olimpico. Resta che per ora l’Italia ha solo una coppia qualificata e se non cambierà qualcosa la FIDAL dovrà decidere chi far gareggiare: i due campioni olimpici o i due che hanno conquistato la qualificazione?

 

Verso Parigi e oltre

Tre anni fa Track & Field News, la più autorevole rivista al mondo sull’atletica leggera, nelle sue abituali previsioni attribuiva agli azzurri sei risultati in top ten e zero medaglie. Marcell Jacobs doveva arrivare quinto nei cento metri, Antonella Palmisano quarta nella 20 chilometri di marcia, Gianmarco Tamberi ottavo nel salto in alto (questa, però, era una chiamata che non aveva davvero senso). La 4×100 non era attesa tra le prime dieci, idem Massimo Stano nella 20 chilometri di marcia maschile.

 

Quest’anno la rivista non si è ancora espressa, ma il presidente della FIDAL, Stefano Mei, sì: in più occasioni ha detto di aspettarsi dalle sei alle otto medaglie, senza specificarne il colore. In linea con Los Angeles 1984, quindi. Non è stato prudente, ma non ha esagerato. Se si ripetessero le categorie dell’assurdo andate in scena a Tokyo, l’Italia potrebbe puntare al podio in una dozzina di gare. Ovviamente è quasi impossibile che uno scenario simile si realizzi. E in generale vale ciò che ha detto Mei a margine del suo pronostico: parlare di medaglie in uno sport come l’atletica ha senso fino a un certo punto, perché la differenza fra un primo e un quarto posto si misura in pochi centesimi e centimetri.

 

Quindi le medaglie possono essere anche meno di sei. L’Italia vede buona parte delle sue teste di serie impegnate in competizioni in cui il livello medio è molto omogeneo e i pretendenti al podio sono tanti (vedi marcia, velocità, ostacoli e salti in estensione). A volte andrà bene e altre male: ripetere il Superenalotto del 2021, quando dalla pia illusione di racimolare tre podi uscirono cinque ori, è altamente improbabile e non ha nemmeno senso misurare l’Olimpiade in arrivo su quello.

 

Per valutare la salute del movimento, quindi, sarà meglio guardare il termometro del placing table: uno strumento meno immediato del medagliere, ma più completo. Per ogni gara si assegnano punti ai primi otto classificati: otto al primo, uno all’ottavo. Sommandoli, si ha una graduatoria delle varie Nazionali meno dipendente dal singolo exploit o dall’isolata controprestazione. Il placing table del 2021 vide l’Italia in dodicesima piazza con 50 punti in virtù, oltre che dei cinque ori, di un quinto, due settimi e due ottavi posti. Sicuramente una sentenza più severa dal medagliere (dove eravamo secondi), eppure indicativa del salto in avanti degli azzurri rispetto alla seconda sciagurata metà degli anni Dieci.

 

Due anni prima, a Doha, l’Italia era stata ventiseiesima con 16 punti (e sette piazzamenti, di cui un podio). A Londra 2017, peggior Mondiale della storia azzurra, trentacinquesima con 10 punti (e tre piazzamenti, di cui un podio). Alle Olimpiadi di Rio 2016, ancora ventiseiesima con 16 punti (e cinque piazzamenti). La dodicesima piazza del 2021 è stata confermata nel 2022 ai Mondiali di Eugene ed è diventata ottava nel 2023, a Budapest, quando gli azzurri hanno raccolto 51 punti (uno in più di Tokyo) frutto di 13 piazzamenti tra i primi otto (tre in più che in Giappone). La sensazione è che quest’anno ci siano i numeri per fare qualcosa meglio.

 

L’atletica è uno sport globale molto più democratico degli sport di squadra e di gran parte di quelli individuali. Nel calcio le squadre veramente forti sono una manciata, come sanno gli appassionati: solo otto nazionali nella storia hanno vinto il Mondiale, tutte sudamericane ed europee. Anche le finaliste sono sempre state sudamericane o europee. Negli altri sport di squadra la situazione non cambia molto. Tra gli sport individuali, se prendiamo quelli olimpici per eccellenza, i Paesi protagonisti nella scherma e nel nuoto si contano sulle dita delle mani.

 

La ragione è semplice: per gli sport di squadra servono molti praticanti, quindi un Paese grande o una forte tradizione, per quelli individuali servono le strutture e quindi un PIL alto (o una scuola sconfinata, è il caso della scherma per alcuni Paesi dell’est). Poi le eccezioni ci sono, ma poche.

 

Nell’atletica queste barriere sono più labili: si ripresentano nelle prove multiple, ma ogni Paese può avere il suo velocista, maratoneta, saltatore o lanciatore di punta capace di lottare per la vittoria. In questo senso, a prescindere dalle medaglie, migliorare la dodicesima piazza del 2021 nella classifica dei piazzamenti sarebbe una grande soddisfazione e il coronamento di un quadriennio magico per il movimento azzurro. Movimento che, va sottolineato, ha una lunga strada tracciata davanti a sé: molti degli attuali campioni azzurri hanno l’età per arrivare al massimo dello splendore a Los Angeles 2028 e a Brisbane 2032. Quindi a Parigi andrà la Nazionale più forte di tutti i tempi, certo. Forse sarà un trionfo, forse no. Nel caso, potrà riprovarci. Va bene così.

 

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Riccardo Rimondi è nato nel 1990 a Bologna, città in cui vive. Laureato in Economia e appassionato di sport, è giornalista freelance da marzo 2015. Scrive articoli su storie di calcio per Calcioscopio.