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Dario Pergolizzi

Da dove deve ripartire Spalletti

Una riflessione su cosa è mancato e non dovrà mancare in futuro.

Se si esclude l’inaspettata vittoria agli ultimi Europei, sono anni ormai che le gioie per la Nazionale sono poche, mentre le delusioni sono molte di più. Contro la Svizzera è arrivata un’eliminazione neanche troppo clamorosa: non tanto perché ormai siamo abituati a perdere contro squadre inferiori – sulla carta, e solo lì, perché le partite vanno sempre giocate e i valori non sono mai definitivamente quantificati – ma piuttosto perché, fatta forse eccezione di quella inaugurale contro l’Albania, tutte le partite della Nazionale in questo torneo avevano lasciato presagire che il momento di tornare a casa sarebbe arrivato presto.

 

C’è modo e modo di uscire da una competizione però, e non è certo l’eliminazione in sé il male più grande. Si può perdere anche se si sta seguendo una strada chiara, si può uscire per un rigore o un doppio palo con salvataggio sulla linea all’ultimo minuto, si può meritare di essere sconfitti anche rimanendo dentro la partita, giocandosela al meglio delle possibilità, restando fedeli alla propria identità. Forse la cosa più triste di questa eliminazione è, appunto, che l’Italia di Luciano Spalletti è sembrata in balia degli eventi forse anche di più di altre Nazionali passate che ci sembravano meno attrezzate, come guida tecnica o come giocatori a disposizione.

 

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Da sempre in Italia la sconfitta viene vissuta nel modo peggiore. Come un’umiliazione, cioè, senza riuscire a sfruttarla come un’opportunità per riflettere, rendendola così parte di un percorso. I processi, spesso riduzionisti, con cui cerchiamo risposte dopo le sconfitte, sono quasi guidati da una voglia di vendetta, dal bisogno di identificare chiaramente di chi sono le responsabilità principali per eliminarlo dall’equazione. Come se questo potesse riavviare tutto, mettendoci la coscienza a posto.

 

Il limite di un approccio simile è che raramente un problema vive da solo, in astratto, e in una squadra – tanto più in una Nazionale – di solito tutti i nodi sono strettamente interconnessi a tutti gli altri elementi, anche quelli che funzionano. Possiamo essere convinti che se avesse giocato un terzino al posto di un altro, se si fosse usato un modulo anziché un altro, se l’allenatore fosse stato un altro, se le convocazioni fossero state diverse, le cose sarebbero andate molto meglio. Per carità, prese singolarmente sono tutte considerazioni valide, per quanto ipotetiche e non verificabili. Il problema è che, come diceva l’Andreotti del Divo, le cose sono sempre un po’ più complesse di così.

 

Capisco che il voler trovare dei responsabili nasca anche dall’esigenza di un senso, ma in questi momenti di delusione collettiva ci si sfoga sempre sulle stesse cose. La scarsità di talento offensivo, il “non si gioca più in strada”, le nuove generazioni a cui non piace più il calcio, i troppi stranieri nei nostri campionati, i talebani della tattica nelle scuole calcio, il bisogno di “allenare di più la tecnica”. 

 

Non lo dico tanto per dire: sono davvero discorsi che ormai sentiamo almeno ogni due anni.

 

Su alcuni di questi argomenti ho già scritto, qui su Ultimo Uomo. Sulla questione del gioco di strada, per esempio: perché era importante, e cosa si potrebbe fare per ricreare quel tipo di vantaggio anche in contesti più organizzati. Oppure sulla problematicità del concetto di “tecnica” come qualcosa di standardizzato e separabile dalla realtà del gioco. Anche chi non è andato al fondo di questi argomenti percepisce che c’è qualcosa che non va se un Paese così tanto intriso di calcio da oltre un secolo non riesca più ad avere l’imbarazzo della scelta quando deve selezionare i propri migliori giocatori, soprattutto offensivi. Il problema, però, è trovare le giuste radici.

 

Questi discorsi esistevano anche quando il problema era se far giocare dal primo minuto Baggio o Totti o Del Piero. Quel tipo di ballottaggi, già allora, tradiva molto del nostro rapporto conflittuale con il talento al servizio del collettivo, delle mille paranoie per la compensazione a tutti i costi, dell’ossessione per i compromessi. Erano altri tempi e c’erano altri stili di gioco, ma anche questo rispecchia molto della direzione che ha preso la società tutta in Italia, in cui il rischio è visto come qualcosa da evitare, a livello individuale e collettivo, scaricando sulle scelte degli individui tutte le responsabilità, addirittura la qualità di vita del gruppo a cui appartiene. Oggi che le generazioni fortunate si stanno esaurendo e che i successi all’apice si spengono, anche a causa di una maggiore competitività di altre concorrenti, la conflittualità si amplifica. 

 

Proprio perché, però, queste criticità non sono nuove ma strutturali, non è neanche troppo giusto identificarle come la causa principale della disfatta dell’Italia a Euro 2024. Certo, magari in sede di selezione della rosa, al di là di alcune decisioni poco leggibili dall’esterno, Spalletti si è trovato relativamente poca scelta a livello offensivo, escluso Orsolini, e questo può essere un argomento. Ma in questo caso l’Italia sembra essere naufragata in un mare di incertezze e di crisi di identità in campo, prima ancora che nella mancanza di talento. 

 

Spalletti non è riuscito a mostrare praticamente nulla di quello che aveva intenzione di ricercare, e che abbiamo appreso facilmente tra dichiarazioni, foglietti con i comandamenti del calcio propositivo e magliette motivazionali con i numeri 10 per tutti. Su questo possiamo dire che le intenzioni erano chiare, anzi dichiarate. Ma l’Italia non è stata eliminata dando l’idea di star provando – anche in maniera goffa, embrionale – a costruire qualcosa in quella direzione, inseguendo una coerenza di base che potesse portarla, anche in caso di sconfitta, a poter parlare sempre più fluentemente una lingua comune in campo. L’Italia è stata, piuttosto, confusa: non è quasi mai riuscita a imporsi attraverso il palleggio, si è difesa in maniera passiva e incerta, è stata a tratti troppo frettolosa e a tratti completamente arrendevole. La cosa più preoccupante, per certi versi, è che non sembra che tutte queste cose siano arrivate per delle scelte precise, ma perché le nostre avversarie riuscivano troppo facilmente ad imporre il contesto della partita.

 

E allora la domanda più grande al termine di tutto questo è: come farà Spalletti a riconquistare questo gruppo? Per qualsiasi allenatore sarebbe un momento molto difficile doversi ripresentare in maniera credibile cercando di coinvolgere nuovamente tutti in un percorso di ricerca che, in definitiva, al primo tentativo non si è proprio visto. La speranza, nel momento in cui Spalletti è stato confermato sulla panchina azzurra, è che tutti, dai giocatori ai dirigenti, avranno la fiducia e la convinzione di seguire non solo le sue idee, ma anche e soprattutto con il modo con cui vorrà portarle avanti. 

 

Bisognerà quindi ripartire dalla confidenza con il pallone, con il possesso. Gli sprazzi migliori, per quanto sporadici, di questo Europeo, sono arrivati quando la squadra è riuscita a trovare trame di gioco più imprevedibili, fatte di conduzioni convinte dei giocatori più arretrati, di passaggi seguiti da movimenti in avanti, di vicinanza tra i giocatori più offensivi che aiutava sia a combinare che a riaggredire in caso di palla persa. Per fare ciò, forse servirà mettere in discussione alcune decisioni, e magari osare un po’ di più sulla convivenza di più giocatori creativi possibile contemporaneamente. 

 

Spalletti ha dichiarato che avrebbe avuto bisogno di più tempo per preparare questo Europeo. Di sicuro, si è percepito nitidamente anche da fuori che questo gruppo fosse indietro con il lavoro sui principi ricercati, ma forse anche con la confidenza e la conoscenza dell’allenatore stesso rispetto ad alcuni giocatori: perché un conto è conoscere dall’esterno un calciatore, le sue caratteristiche e il suo stile, ma un altro viverlo da dentro il gruppo, mettere fisicamente insieme una squadra, creare i presupposti affinché le interazioni in campo emergano in maniera sempre più funzionante. Magari Spalletti non avrà avuto “poco tempo” in senso assoluto, ma di sicuro ne ha avuto poco rispetto a quello che sarebbe servito a lui, non certo perché ci sia una regola o un termine stabilito a priori su queste cose. Fa parte, comunque, delle difficoltà del mestiere e dei rischi di accettare di allenare una Nazionale a ridosso di un grande torneo. Ogni contesto, poi, è diverso: Julian Nagelsmann è diventato allenatore della Germania circa un mese dopo l’arrivo di Spalletti a Coverciano, e per lui le cose sono andate diversamente.

 

Non bisogna dimenticare in questo senso che il momento più alto dell’Italia di Mancini è arrivato dopo tre anni di lavoro e un percorso di qualificazione da record, con la migliore espressione identità della squadra esplosa proprio a ridosso dell’inizio di Euro 2020. È sempre sbagliato fare paragoni, non è detto che basterà il tempo a risollevare il progetto di Spalletti, ma è un elemento da tenere in considerazione. Un altro, che forse nelle analisi della sconfitta è stato troppo sottovalutato, è che, mentre quella squadra aveva nell’ossatura molti dei suoi giocatori migliori arrivati a piena maturazione (come Chiellini, Bonucci e Verratti), oggi invece gran parte del gruppo è più giovane e/o inesperto a questi livelli, soprattutto con la Nazionale (basti pensare a chi ha preso il posto di quei tre, cioè Bastoni, Calafiori e Pellegrini: in tutto fanno 48 presenze in Nazionale in partite non amichevoli).

 

Al tempo stesso, non è giusto cestinare le perplessità in merito alle difficoltà strutturali del calcio italiano nell’esprimere giocatori creativi ad alti livelli, solo perché la Nazionale maggiore questa volta ha tradito anche sotto altri aspetti. Bisogna farlo, però, uscendo dalla logica della “produzione”, perché i giocatori non sono dei pacchi da assemblare e lanciare sul mercato, ma interrogandoci invece su tutto ciò che stiamo facendo per nutrirlo, il talento, incluso il passaggio delicatissimo verso le prime squadre. È un discorso capillare e sistemico, in cui non può più esserci posto per il fatalismo, e deve piuttosto esserci una messa in discussione del nostro rapporto con la creatività e il rischio. 

 

Se abbiamo a cuore davvero tutte queste cose, allora non lasciamoci solo travolgere dai dubbi e dalla sete di vendetta del giorno dopo: cerchiamo, come persone attive nel calcio o semplici appassionati, di coltivare una cultura più positiva, mettendo più spesso in discussione tutte le dinamiche consolidate che non ci convincono più, facendo domande a chi di dovere, non accettando scaricabarile e spiegazioni approssimative. E non solo in queste brevi finestre di delusione collettiva che, com’è giusto che sia, dureranno poco. 

 

Nel suo libro Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, lo scrittore e filosofo Robert Pirsig scrisse: “Se una fabbrica viene abbattuta ma la razionalità che l’ha prodotta rimane in piedi, allora quella razionalità produrrà semplicemente un’altra fabbrica. Se una rivoluzione distrugge un governo, ma gli schemi che lo hanno prodotto rimangono intatti, questi schemi si ripeteranno”. Insomma, se vogliamo che tutte queste cose cambino, occorrerà metterle in discussione in maniera più profonda che con il consueto (e giusto) sdegno del giorno dopo.

 

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Dario Pergolizzi, Allenatore UEFA B e video analista, vive e studia il calcio con un approccio sistemico ed ecologico, attraverso le lenti della complessità.