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La Nazionale prigioniera
29 gen 2024
29 gen 2024
L'Eritrea non gioca una partita da due anni, ostaggio del regime del Paese.
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Potreste non aver mai sentito parlare della Nazionale di calcio dell’Eritrea, quasi sicuramente non l’avete vista giocare neanche una volta. Niente di strano, in effetti: non è tra i 24 Paesi rappresentati in queste settimane in Costa d’Avorio e nella sua storia non si è mai qualificata per una Coppa d’Africa, figurarsi per una Coppa del Mondo. L’ultima gara dei "Red Sea boys" è stata un’amichevole contro il Sudan, tre anni e mezzo fa, mentre l’uscita ufficiale più recente risale al 2019, nelle qualificazioni per il Mondiale in Qatar. Da allora, l’Eritrea è finita nelle pagine della stampa internazionale per storie che di sportivo hanno ben poco: quelle dei tanti atleti che hanno sfruttato le trasferte per scappare dal regime, o quelle di defezioni da tornei internazionali per ragioni politiche.

Se è vero quanto diceva Henry Kissinger, secondo cui “ogni Nazionale gioca seguendo il carattere della sua nazione”, quella del calcio eritreo è una storia impregnata di tutte le difficoltà di un Paese che sembra orbitare in una dimensione parallela rispetto al resto del continente, anzi al mondo intero. Un buco nero che ha risucchiato inevitabilmente anche la sfera calcistica, fedele riflesso di quella che viene definita “la Corea del Nord dell’Africa”: una Nazionale fantasma, che attualmente non è nemmeno parte - così come la selezione femminile - del ranking FIFA, non avendo disputato un singolo incontro negli ultimi due anni.

Eppure in Eritrea il calcio non è un elemento alieno. Alla fine parliamo di una ex colonia italiana in cui negli anni ’30 è sbarcato - insieme ai colonizzatori - anche il calcio. Lo ricordano, ad esempio, i nomi delle squadre che si sono contese le prime edizioni del campionato locale: Gruppo Sportivo Cicero, Gruppo Rionale Neghelli, GS Melotti, GS Ferrovieri, GS Marina, Ardita, Savoia, Vittoria. Oppure, il soprannome di una delle figure più rappresentative dell’Eritrean Premier League: Fitsum Hailemichael, detto “Baggio”.

Facendo ricerche negli archivi della propaganda governativa, si possono trovare testimonianze più o meno attendibili del vissuto sportivo del Paese.

Anche dopo la dominazione coloniale dell’Italia fascista, la tradizione calcistica locale ha continuato ad essere legata a doppio filo alla vita politica del Paese, come accade un po’ in tutto il mondo. Un percorso che è passato per quattro decenni di annessione all’Etiopia, durante la quale i club di Asmara hanno vinto nove volte l’Ethiopian Premier League e la Nazionale etiope ha conquistato nel 1962 la sua unica Coppa d’Africa, con mezza rosa composta da eritrei; per arrivare infine alla proclamazione di indipendenza del 1993, alba del regime (mai tramontato) di Isaias Afwerki, e di un governo che “non ha mai preso il calcio sul serio”. La citazione è di Mohammed Saeid, centrocampista del Trelleborg nato in Svezia ma di origine e nazionalità eritrea. Nelle sue parole troviamo tutta la circospezione di chi ha ben presente la storia e i problemi del proprio Paese, da cui i suoi genitori sono scappati nel 1989 per rifugiarsi prima in Sudan, poi in Arabia Saudita, Italia, Norvegia e infine Svezia.

Un uomo, un Paese

Una certa visione approssimativa dell’Africa che alberga nelle nostre società, riflesso del nostro passato coloniale, ci spinge spesso a identificare la storia e la popolazione di paesi vastissimi con quella dei loro singoli capi di stato. Tuttavia, dire che la storia dell’Eritrea moderna sia la storia di Isaias Afwerki non è completamente improprio. Quest’uomo che nel 1993 Bill Clinton ha definito “il leader del nuovo rinascimento africano”, ancora oggi è alla guida di un Paese strategico per gli equilibri del Corno d’Africa, e di un regime pervasivo e totalitario che gli è valso il soprannome di “Kim Jong Un del continente”.

Tra il 28 e il 30 giugno del 1993, i capi di stato e di governo dell’Organizzazione dell’Unità Africana (l’attuale Unione Africana) si sono riuniti al Cairo per il tradizionale vertice annuale. Gli occhi dei giornalisti e diplomatici presenti erano tutti rivolti verso la delegazione dell’Eritrea, che dopo 32 anni di lotta per l’indipendenza dall’Etiopia era ufficialmente stata riconosciuta dall’OUA come stato libero ed eguale. Due mesi prima un referendum aveva sancito l’indipendenza con il 99.82% dei voti a favore, e quel giorno la delegazione di Asmara in Egitto era guidata dal capo del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, Isaias Afewerki.

Per arrivare al riconoscimento da parte dell’Organizzazione dell’Unità Africana e più in generale del mondo, l’Eritrea aveva ingaggiato un braccio di ferro diplomatico contro l’opposizione dell’ex madrepatria, l’Etiopia, e un certo scetticismo della comunità internazionale. Tutti si aspettavano un discorso conciliante da parte dei rappresentanti del giovane stato africano che, come tutti i paesi freschi di indipendenza, aveva bisogno di amici. Non andò così. Isaias Afwerki definì l’organizzazione “un totale fallimento durato 30 anni”, dopodiché, facendo nomi e cognomi, criticò molti dei capi di stato presenti per essere rimasti al potere troppo a lungo. Un discorso in cui di diplomatico c’era solo l’ambiente circostante.

Per la formazione politica di Afwerki era stato cruciale un viaggio in Cina del 1967, quando al culmine della Rivoluzione Culturale di Mao Zedong un gruppo di studenti eritrei si era recato nel Paese per addestrarsi nella guerriglia da impiegare contro l’Etiopia, che cinque anni prima aveva annesso Asmara al proprio territorio. Una volta rientrato in Eritrea con una solida formazione in filosofia politica e fabbricazione di esplosivi, Isaias è rimasto disgustato dalle faide interne al movimento indipendentista del Fronte di Liberazione Eritreo (FLE) e ha deciso di formare insieme ad altri delusi il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (FLPE). Nel giro di pochi anni il movimento ha quindi scacciato l’FLE in Sudan, mettendosi alla guida delle fazioni indipendentiste del Paese e gettando le basi per il futuro regime.

Di quel viaggio in Cina resta una foto del gruppo di studenti davanti alle mura della città di Nanchino, mentre mostrano le loro copie del Libretto Rosso di Mao. Afwerki è l’uomo cerchiato in rosso

Già all’epoca erano perfettamente visibili due tratti caratteristici di Isaias e del suo movimento che influenzeranno la vita dell’Eritrea. In primo luogo, Isaias era noto per condurre una vita estremamente morigerata e riservata: niente vizi, niente gioielli, niente abiti costosi. "Tutto ciò che gli interessa è il potere”, per dirla con le parole di un suo compagno d’armi di allora. Secondo, l’FLPE veniva gestito come uno stato di polizia: apparire troppo indipendenti nei giudizi portava dritto al centro di quelle che venivano chiamate “sessioni di autocritica”, durante le quali gli indisciplinati venivano umiliati pubblicamente.

Salito al potere della neo-indipendente Eritrea nel ‘91, il presidente ha dato vita a una politica regionale ambiziosa e brutale. Quando la vicina Etiopia è stata colpita dalla carestia, ad esempio, ha fatto chiudere i confini impedendo l’arrivo degli aiuti umanitari. Nel 1998 poi i due stati sono entrati in guerra per la definizione dei rispettivi territori, con diversi alleati occidentali che hanno deciso di scaricare Asmara e il suo leader, in favore dell’Etiopia. Ma tutto ciò era nulla rispetto alle trasformazioni cui il Paese sarebbe andato incontro di lì a pochi anni.

Nel 2001, stanchi delle politiche di Isaias, alcuni dei suoi ministri hanno formato il cosiddetto gruppo del G-15, scrivendo una lettera pubblica in cui denunciavano la sua leadership. Un'iniziativa coraggiosa ma sfortunata perché Isaias, approfittando della distrazione del mondo in seguito agli attacchi dell’11 settembre, in quei mesi li ha fatti arrestare tutti. Si è salvato solamente uno di loro, il ministro della difesa Mesfin Hagos, che si trovava all’estero per un controllo medico. Tutti gli altri sono spariti per sempre.

Afwerki nel tempo ha fatto il vuoto intorno a sé. Università, chiese e media indipendenti sono stati chiusi, ed è stata istituita una leva militare obbligatoria “a tempo indefinito”, che dura ancora oggi. L’Eritrea, come il suo leader, sono completamente isolati dal resto del mondo: Afwerki viaggia poco, riceve raramente dignitari di paesi stranieri, con una spiccata preferenza per i rappresentanti cinesi e russi. Nella primavera del 2023 è volato in Cina, dove è stato accolto con tutti gli onori dal presidente Xi Jinping, che ha elevato il livello delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Dall’inizio della guerra in Ucraina, poi, l’Eritrea è l’unica nazione africana ad aver sempre votato a favore di Mosca nelle risoluzioni presentate all’Assemblea ONU. Le relazioni privilegiate di Mosca e Pechino con l’Eritrea e il suo leader non devono sorprendere, con 1.720 chilometri di coste affacciate sul Mar Rosso e sulla direttrice del Canale di Suez, da cui passa il 12% del commercio marittimo mondiale. Conscia della sua posizione strategica, l’Eritrea si è detta pronta ad innalzare il livello delle sue relazioni diplomatiche anche con l’Iran.

In questo contesto, in assenza di industrie vere e proprie, il Paese negli ultimi 20 anni si è dedicato all’export della violenza. Nel 2006 ad esempio, pur di fare uno sgarbo all’odiata Etiopia, ha supportato il nascente gruppo qaedista di Al-Shabaab nella guerra contro i soldati di Addis Abeba, in Somalia, provocando un’ondata di sanzioni contro Asmara. Nel 2019, poi, Afwerki ha siglato un’intesa con il primo ministro etiope Abiy Ahmed, per porre fine al conflitto cominciato nel 1998: un avvenimento storico che è valso ad Abiy il Nobel per la pace. Un anno dopo, Abiy e Isaias hanno mosso guerra al governo della regione etiope del Tigrai, dando vita a un conflitto che secondo alcune stime ha causato quasi 400mila morti in appena due anni, tra scontri armati e crisi umanitaria.

L’Eritrea è tutto questo. Un Paese povero, isolato, ma strategico per la geopolitica mondiale. Uno stato fortezza, o meglio prigione, su cui tutti i più importanti governi del mondo tengono gli occhi puntati. Un regime autoritario che, secondo la Human Rights Watch, “sottopone la sua popolazione a una repressione diffusa, tra cui il lavoro forzato e la coscrizione, severe restrizioni alla libertà di espressione, opinione e fede, e la limitazione del controllo indipendente da parte degli osservatori internazionali, inoltre punisce collettivamente i parenti dei presunti renitenti alla leva e disertori. Essendo una dittatura personalistica, l’Eritrea non ha un parlamento, né organizzazioni indipendenti della società civile o mezzi di informazione, né un sistema giudiziario indipendente. Infine, per tutto il 2022, le forze eritree sono rimaste in alcune parti della regione etiope del Tigrai, dove hanno continuato a commettere gravi violazioni, tra cui uccisioni, saccheggi e stupri”.

E il calcio, in tutto ciò, che posto trova? Letteralmente, nessuno.

Lo sport come via di fuga

Allo stato attuale, agli atleti eritrei che devono uscire dal Paese per un evento sportivo internazionale devono versare al governo una cauzione di centomila nakfa, l’equivalente di oltre seimila euro. Parliamo di dieci-quindici volte il salario medio locale, a cui si aggiungono misure straordinarie di sorveglianza per tutto l’arco della trasferta, al pari di un detenuto nelle ore d’aria. Il tutto per assicurarsi che il viaggio non si protragga per un giorno più del necessario, con il sottinteso che in caso contrario non mancheranno le conseguenze, tanto per il fuggitivo quanto per i suoi familiari.

Tutto questo, però, non è bastato a scoraggiare tanti sportivi nei loro piani di fuga. Soltanto negli ultimi quindici anni secondo The Guardian sono più di 80 i calciatori che hanno chiesto asilo politico all’estero durante una trasferta con la Nazionale. Un fenomeno «causato dalla situazione politica del nostro Paese», come sottolineato da un anonimo ex funzionario governativo a BBC Sport Africa. «Il governo obbliga tutti ad arruolarsi. Tutti - che si tratti di medici, calciatori, ciclisti o ingegneri - devono finire il servizio militare. Che non finisce dopo 18 mesi. Non c’è futuro, non si vive bene ad Asmara: per chi ne ha una possibilità, la decisione migliore è scappare».

Pur non essendo avvenuta in occasione di un evento all’estero, la fuga di sette ciclisti nell’ottobre 2015 rimarrà probabilmente il caso più clamoroso, almeno per le modalità. Durante un allenamento nella zona di confine con la regione del Tigrai, il gruppo composto da alcuni dei nomi più importanti del ciclismo eritreo ha deviato il percorso verso il confine etiope, per abbandonare il Paese in sella alle proprie biciclette da corsa. E così, compatti in gruppo come durante una gara, in cui però gli inseguitori erano i militari (e i loro proiettili), i sette corridori hanno varcato la frontiera e chiesto asilo politico, garantito da Addis Abeba nonostante le richieste di rimpatrio del regime.

Un caso analogo, in ambito calcistico, si è verificato tre anni prima, durante la Coppa CECAFA 2012. In quell’occasione 22 eritrei, staff incluso, si sono recati a Kampala - capitale dell’Uganda, Paese ospitante del torneo - per rappresentare la propria Nazione, e ovviamente farci ritorno immediatamente dopo l’eliminazione (maturata nel girone - concluso senza vittorie - con Ruanda, Malawi e Zanzibar). Solo quattro di loro, però, sono tornati a casa. Degli altri 18 si sono perse le tracce dopo l’uscita dall’hotel dove soggiornavano, «per andare a fare shopping», poco prima di un appuntamento in aeroporto a cui non si presenteranno mai. Presi in carico dall’UNHCR (l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati), i 18 rifugiati sono riapparsi dopo diversi anni a Timisoara, in Romania, prima di giungere alla destinazione finale: Gorinchem, in Olanda.

Oltre a queste due evasioni da film, sono davvero tanti i casi di calciatori e calciatrici che hanno preso parte alla diaspora del popolo eritreo approfittando di una partita o di una competizione in campo internazionale. Nel 2006, sul volo di ritorno da Nairobi (Kenya) mancavano all’appello quattro membri del Red Sea FC, spariti nel nulla dopo una partita di CAF Champions League. Qualche mese più tardi, 12 componenti della Nazionale maschile non sono tornati dalla Tanzania, sede della Coppa CECAFA 2007, e come loro altri sei che si erano recati in Angola per una gara di qualificazione alla Coppa d’Africa. Nel 2009, una dozzina di calciatori in fuga sono stati accolti dall’UNHCR in Kenya, e poi scortati ad Adelaide, in Australia (due di loro, Samuel Ghebrehiwet e Ambes Sium, giocheranno per qualche anno nella massima serie del Queensland). Sempre a Nairobi, nel 2013, hanno trovato asilo Haile Goitom e altri otto giocatori della Nazionale, seguiti dall’allora CT, Omer Ahmed. E ancora: i dieci rifugiati in Botswana dopo una gara di qualificazione ai Mondiali 2018, gli undici ragazzi e le cinque ragazze dell’Under 20 scappate in Uganda tra il 2019 e il 2021, in tre occasioni diverse.

Tante, tantissime gocce nell’oceano di una vera e propria diaspora, che ogni anno disperde nel mondo migliaia di rifugiati (580mila nel 2021 secondo i dati di Human Rights Watch). Una fuga collettiva combattuta con tutte le proprie forze da un regime che oltre a mietere ogni anno migliaia di vittime e imprigionare altrettante persone nei propri checkpoint alla frontiera, si prodiga anche nella prevenzione, negando ai propri cittadini ogni possibile contatto con il mondo esterno. Facendo finire anche il calcio eritreo sulla lista delle vittime di Afwerki.

La morte del calcio

Dopo le ultime sparizioni di calciatori e calciatrici, due anni fa, per il governo la misura era definitivamente colma. E quindi, niente più trasferte e tornei continentali, sia a livello di club sia di Nazionali, come già successo in passato con il ritiro dalla Coppa CECAFA 2008, dalle qualificazioni al Mondiale e alla Coppa d’Africa del 2010 e del 2014.

Nel marzo 2022 è stata ufficializzata la rinuncia alle qualificazioni per la corrente Coppa d’Africa; e lo scorso novembre - a sei giorni dalla partita d’esordio - anche alle qualificazioni per il Mondiale 2026. Un appuntamento che nel 2024 avrebbe portato la Nazionale di Alemseged Efrem, CT da otto anni, in giro per il continente, tra Marocco, Tanzania, Congo, Niger e Zambia. Un rischio troppo elevato.

«Mi sento così frustrato per questa situazione», racconta Mohammed Saeid, «in Europa, e non solo, stanno emergendo molti giocatori con origini eritree: credo che potremmo essere competitivi come Nazionale, se ne avessimo la possibilità. Ma vedendo quello che succede, chi vorrà rappresentare l’Eritrea in futuro?».

Una domanda destinata a cadere nel nulla, come un’infinità di appelli lanciati negli anni da organizzazioni non governative e osservatori per i diritti umani. Come ogni interrogativo sul futuro del calcio ad Asmara, che insieme a tre milioni e mezzo di persone rimane prigioniero del regime di Afwerki.

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