Ancora si fa un po’ di fatica a credere che Nikola Jokic abbia vinto il premio di MVP della regular season 2020-21.
Un po’ perché siamo abituati che a vincere il premio di Most Valuable Player siano alcuni dei nomi più grossi della lega, e Jokic è pur sempre uno che è arrivato in NBA dalla 41^ scelta al Draft — e a inizio carriera faceva la panchina a uno Jusuf Nurkic qualsiasi.
Un po’ perché, per usare le parole di John Hollinger di The Athletic, «la lega su di lui fa marketing come se si trattasse di Mason Plumlee» — fino ad arrivare al paradosso di non inserirlo nemmeno nel programma delle cinque partite di Natale, prima volta che accade a un MVP in carica dal 2008 (quella volta fu lasciato fuori un altro europeo come Dirk Nowitzki, anche se c’erano solo tre gare in palinsesto e non cinque).
Un po’ perché comunque gioca a Denver — cioè in Colorado, cioè lassù sulle montagne, non proprio un luogo di passaggio del tran-tran della NBA né in un’orario televisivo comodo per le abitudini degli appassionati USA — per una squadra che non è mai arrivata in finale NBA come i Nuggets e che non ha altre stelle di prima grandezza in grado di catalizzare le attenzioni, né una copertura mediatica tale da creare sempre una nuova storia da seguire come può accadere a Los Angeles, New York o San Francisco.
E un po’ perché, alla fine dei conti, anche lo scorso anno i votanti si sono ritrovati a dargli il premio quasi controvoglia, visto che i principali concorrenti — da LeBron James a Steph Curry fino a Joel Embiid — hanno perso terreno uno dopo l’altro per via degli infortuni, mentre Jokic ha giocato tutte le partite chiudendo al terzo posto per minuti complessivi (2.488) e trascinando di peso i Nuggets a 47 vittorie pur perdendo per strada il suo miglior compagno a disposizione, Jamal Murray. E ciò nonostante buona parte dei columnist che hanno scritto sul premio di MVP hanno provato fino all’ultimo a trovare un’alternativa, salvo arrendersi davanti all’evidenza.
Eppure non c’è niente di casuale nel 2021 di Jokic, che è semplicemente il giocatore più continuo, completo e decisivo in NBA da quando la palla ha ricominciato a rimbalzare dalla bolla di Orlando nell’estate del 2020. E si è confermato tale anche nei primi mesi di questa regular season 2021-22 in cui, se possibile, è nettamentemigliorato rispetto al giocatore che lo scorso anno è stato votato come MVP. Eppure le sue possibilità di ripetersi sono pressoché prossime allo zero: perché è già sembrata una concessione arrivata dall’alto avergliene dato uno, ma l’NBA — negandogli la presenza a Natale e tenendolo fuori dai primi 75 giocatori della sua storia, unico MVP a non essere nella lista insieme a Derrick Rose — sembra voltare la faccia dall’altra parte ogni volta che deve pensare a Jokic, attirata da storie più scintillanti o giocatori più semplici da vendere al grande pubblico rispetto a un centro bianco, molliccio, che non salta un foglio di giornale e la cui unica passione al di fuori della pallacanestro è l’equitazione.
Anche in Serbia hanno provato a cavalcare la sua passione, invero non con grandissimi risultati.
Il singolo giocatore più valuable della lega
Da qualunque parte lo si guardi invece il 2021 di Jokic merita di essere celebrato, ricordato ed elogiato, perché è stato uno dei singoli anni più dominanti da parte di un lungo. Tutto comincia e finisce dall’impatto incredibile che ha avuto e continua ad avere sui Nuggets ogni volta che scende in campo: anche se tutto sta crollando attorno a lui, Jokic, praticamente da solo, rende Denver una squadra competitiva, con una chance (per quanto piccola) di portare a casa una vittoria per la sua mera presenza.
Già nella passata stagione la differenza di rendimento dei Nuggets tra quando c’era Jokic e quando sedeva in panchina era di 6.4 punti su 100 possessi, numero che saliva a +13.8 quando si considerava solo la metà campo offensiva. Detta in altri termini: con lui in campo Denver segnava 121.5 punti su 100 possessi (meglio del miglior attacco della lega, quello di Brooklyn), mentre quando usciva solo 107.7 (pari al quart’ultimo su base stagionale, quello dei Rockets senza Harden). Denver riusciva a sopravvivere ai minuti senza Jokic stringendo i denti e puntando allo 0-0 (0.7 di differenziale su 100 possessi) in attesa del suo ritorno, ma quest’anno la dipendenza dal serbo si è ulteriormente accentuata, arrivando a livelli quasi ridicoli.
Sedici minuti e 9 secondi di palloni con scritto sopra “SPINGIMI”.
Il numero che solo lo scorso anno (in una stagione in cui ha vinto l’MVP!) era +6.4 è diventato un drammatico +25.7, di gran lunga il dato più alto di tutta la lega. La differenza che intercorre tra quando c’è Jokic e quando non c’è è la stessa che separa gli Utah Jazz dagli Orlando Magic con una difesa di gran lunga peggiore. Ed è proprio il rendimento difensivo con Jokic in campo ad aver permesso ai Nuggets di resistere in questa regular season in cui, oltre a Jamal Murray, devono anche fare a meno di Michael Porter Jr. Punto sull’orgoglio anche da alcune critiche arrivate da Draymond Green, il serbo è migliorato esponenzialmente in difesa tanto da diventare un candidato per i quintetti All-Defensive, grazie soprattutto al suo essere con ogni probabilità il miglior rimbalzista della NBA (con lui in campo Denver concede appena il 22% di rimbalzi offensivi agli avversari, uno dei migliori dati della lega) ed essere migliorato nella protezione del ferro, per quanto Denver rimanga la peggior squadra a livello di percentuali concesse agli avversari nell’ultimo metro di campo.
Il tutto senza aver smesso di essere uno dei migliori passatori della storia del gioco (non solamente nella posizione di lungo), un realizzatore capace di mantenere altissime percentuali (60% effettivo dal campo) con un repertorio offensivo vastissimo e completissimo da ogni zona del campo, ed essere in condizioni fisiche invidiabili per sobbarcarsi ogni singola sera le sorti della sua squadra senza mai concedersi un turno di pausa. Messo assieme tutto questo, non c’è un singolo giocatore più determinante per le sorti della propria squadra quanto Nikola Jokic, che ridefinisce il concetto di valuable portandolo in una nuova dimensione ultraterrena.
Ultraterreno è anche il suo dato del Player Efficiency Rating, che al momento con 32.41 lo vede primissimo non solo in questa stagione NBA (Giannis Antetokounmpo, secondo, si ferma a 30.84), ma nell’intera storia della NBA. Non è mai accaduto infatti che un giocatore chiuda sopra quota 32 su base stagionale, e per quanto inevitabilmente quel numero scenderà con l’andare del tempo, la sensazione è che quello che Jokic ha fatto fino a questo momento non sia irripetibile. Anzi: la sensazione è che sia la normalità e che sia replicabile come e quando vuole, e il fatto che a malapena qualcuno abbia alzato il sopracciglio davanti a questa assurda continuità di rendimento è la testimonianza più evidente di quanto Jokic ci abbia abituati bene.
I lati oscuri del 2021 di Jokic
Jokic ci ha abituati così tanto a essere sempre presente a risolvere guai che, nelle poche volte in cui è venuto a mancare, la sua assenza è stata insormontabile per le sue squadre. Se ne sono accorti i Nuggets al secondo turno contro i Phoenix Suns, quando Devin Booker e soprattutto Chris Paul hanno tartassato Jokic di tiri dalla media distanza (peraltro segnati con percentuali eccelse e forse insostenibili: 53.4% di squadra) fino a fargli alzare bandiera bianca, sottomettendolo in quattro partite. E se ne è accorta anche la nazionale serba, che — per nostra fortuna e con nostro merito — si è ritrovata sconfitta in casa propria vedendosi scappare di mano un pass per le Olimpiadi che sentivano già loro, con Jokic che aveva annunciato la sua decisione di non partecipare all’estate con la nazionale per dare un po’ di riposo al suo fisico prosciugato da due anni pressoché ininterrotti di pallacanestro ad altissimo livello.
Un’assenza che in patria non gli hanno perdonato, complice un rapporto — specialmente con la stampa — già compromesso dopo l’assenza a Eurobasket 2017 e un ricordo dei Mondiali di Cina del 2019 (nel quale i serbi avevano chiaramente una squadra non per vincere, ma per stravincere la competizione) finito malamente contro l’Argentina, anche per le mancanze mentali di Jokic. Se proprio bisogna trovargli un difetto in questo 2021 magico (nel quale è anche diventato papà, uno dei motivi per cui non ha giocato con la Nazionale), è nei breakdown mentali che ogni tanto lo colpiscono, portandolo a proteste esagerate nei confronti degli arbitri (quest’anno è a 6 falli tecnici, gli stessi di Luka Doncic) e a falli brutti come quello su Cameron Payne nei playoff o su Markieff Morris dello scorso novembre.
Morris, peraltro, non è più rientrato in campo dopo questo momento. E non per via dei fratelli Jokic.
Rimangono comunque due macchie piccolissime rispetto alla tela gigantesca dipinta da Jokic nel suo 2021, un anno nel quale è riuscito a cambiare la percezione attorno a se stesso e attorno alla sua squadra, nella speranza che nel 2022 (o più probabilmente nel 2023) abbia attorno il gruppo da titolo che si è visto brevemente tra marzo e aprile. Con ogni probabilità non arriverà a ripetere il premio di MVP vinto lo scorso anno perché i casi messi assieme finora da Steph Curry e Kevin Durant sono già inscalfibili, ma non dovrebbe far passare in secondo piano un’annata sensazionale di un giocatore che non sarà possibile tenere fuori dai 100 migliori di tutti i tempi nella storia della NBA quando la lista verrà riaggiornata tra 25 anni.