Anche se sembrano passati dei decenni, solo cinque anni fa la NBA provava a rendere un “evento” la consegna dei premi stagionali, organizzando una serata con tanto di show televisivo per premiare le proprie stelle. Un evento che si è rivelato un flop, dato che venivano consegnati premi per la regular season ben dopo il termine delle Finals, ma che se non altro ci ha regalato un momento leggendario.
La NBA è sempre molto attenta a celebrare la sua storia in queste circostanze, e in retrospettiva il piatto forte della serata non fu il premio di MVP consegnato a Russell Westbrook, bensì la consegna del Lifetime Achievement Award a Bill Russell, a quel tempo già 83enne. Per l’occasione erano saliti sul palco alcuni dei più grandi centri nella storia del gioco: Shaquille O’Neal, Alonzo Mourning, David Robinson, Dikembe Mutombo e soprattutto Kareem Abdul-Jabbar, chiamato a introdurre Russell e a consegnargli il premio. Dopo aver stretto le mani a tutte le leggende presenti, Russell ha fatto calare sulla sala un silenzio glaciale. Approfittando delle attenzioni su di lui, ha indicato uno per uno i presenti sul palco — gente che insieme ha vinto 13 anelli di campione NBA e innumerevoli premi individuali —, si è portato una mano alla bocca e ha rivelato loro un segreto imperscrutabile: «Vi avrei rotto il culo». Una frase che ha fatto immediatamente scoppiare a ridere i destinatari del messaggio (alcuni, invero, un po’ imbarazzati) e la platea lì presente, poi scattata in piedi per applaudire un uomo che è stato più grande dello sport stesso che ha avuto il privilegio di averlo.
Ho sempre adorato quel momento perché rivedevo in esso l’essenza stessa di cosa è un giocatore NBA. In una lega in cui si affrontano i migliori 450 giocatori di pallacanestro del mondo e in cui ogni anno una nuova infornata di giovani talenti provano a prendere il loro posto, resistere a lungo è un’impresa di per sé. E nessun giocatore NBA può riuscire a resistere senza avere qualcosa di speciale dentro, la voglia di battere il proprio diretto avversario ogni singola sera, l’aggressività necessaria per difendere il proprio posto e guadagnarsi quello di un altro. In quel «Vi avrei rotto il culo» di Bill Russell io rivedo tutto questo: anche a 83 anni, anche davanti ad alcuni dei più grandi centri di sempre, anche in una situazione di celebrazione e festeggiamento, lo spirito competitivo che animava Bill Russell lo ha spinto a ribadire — in maniera scherzosa, ma solo fino a un certo punto — cosa davvero pensava di loro, cosa davvero aveva dentro. Anche a quella veneranda età.
Le battaglie sociali della vita di Bill Russell
Nel comunicato nel quale ha commentato la morte di Russell, scomparso ieri pacificamente nella sua casa di Seattle a 88 anni di età, il commissioner della NBA Adam Silver ha scritto una cosa molto vera: “I suoi valori di uguaglianza, rispetto e inclusione sono stampati nel DNA della nostra lega”. La NBA di oggi non potrebbe esistere senza le battaglie di uguaglianza sociale che Bill Russell ha portato avanti nel corso della sua carriera, spesso rimettendoci in prima persona in termini di sicurezza e vita privata. Dal rifiutarsi di scendere in campo a Lexington, nel Kentucky, dopo che un ristorante aveva deciso di non servire lui e altri suoi quattro compagni di colore fino alla richiesta alla NBA di farsi sentire dopo l’omicidio di Martin Luther King, il suo lavoro al di fuori del campo è stato talmente cruciale da far persino passare in secondo piano la lista infinita dei suoi risultati sul parquet, che pure lo rendono il giocatore più vincente nella storia degli sport di squadra e a qualsiasi livello (liceale, collegiale, olimpico e professionale).
In questo articolo non ci soffermeremo molto su quanto fatto in campo da Bill Russell, ma basti ricordare questa cosa pazzesca: nel 1956 avrebbe potuto partecipare alle Olimpiadi di salto in alto, visto che era il secondo migliore in tutti gli Stati Uniti. E senza allenamento specifico per quella disciplina, visto che giocava solo a basket (avrebbe vinto poi l’oro olimpico proprio quell’anno a Melbourne). Ovviamente non si saltava ancora con il Fosbury, altrimenti avrebbe potuto superare i 2.11 che rappresentano il suo massimo.
La quantità di insulti e di minacce che ha subito anche da parte dei suoi stessi “tifosi” è incalcolabile, finendo persino in un dossier della FBI con la definizione di “un ne**o arrogante” per la sua decisione di non firmare autografi a nessun bambino. Negli anni ’60, dopo che aveva già vinto sei titoli in sette anni con i Boston Celtics, la sua casa di Reading nel Massachusetts è stata vandalizzata e presa d’assalto con scritte razziste sui muri e feci nei letti della sua famiglia, solo per aver espresso opinioni contro il razzismo in un articolo di una rivista. E ciò nonostante non ha mai fatto un passo sbagliato, senza controbattere alle minacce e alle vessazioni subite con la rabbia, ma con la forza dei suoi ragionamenti e delle sue posizioni. Poteva non essere semplicissimo da gestire per i reporter, ma per usare le parole di Kareem Abdul-Jabbar, il giocatore che maggiormente ne ha proseguito lo spirito e le battaglie ancora oggi: «La rabbia non ha mai persuaso nessuno a passare dalla tua parte, ma la logica sì. Il suo è un approccio che ho sempre cercato di fare mio».
Russell ha portato avanti e difeso le sue posizioni ben prima che esprimersi su temi sociali e politici fosse conveniente o di moda, e lo ha fatto per lunghissimo tempo. Fino a pochi anni fa, ad esempio, si è sempre rifiutato di prendere parte alle celebrazioni della Hall of Fame, accettando di esserne entrato a far parte solo dopo che l’arca della gloria ha riconosciuto l’importanza capitale di Chuck Cooper, il primo afro-americano scelto al Draft. La sua motivazione? «Nel 1975 mi sono rifiutato di diventare il primo giocatore nero a entrare nella Hall of Fame. Sentivo che altri prima di me meritavano quell’onore. È bello vedere che c’è stato del progresso». Anche i Boston Celtics hanno impiegato decenni a costruire una statua in suo onore, non perché loro non lo volessero, ma perché Russell si è sempre rifiutato di accettare un riconoscimento individuale, per di più in una città in cui ha subito per anni vessazioni razziste, tanto da arrivare a dire: «Io giocavo per i Boston Celtics, per l’organizzazione e per i miei compagni di squadra. Non giocavo per la città o per i tifosi». Aver mantenuto quel tipo di impegno sociale e politico in una città fortemente razzista negli anni ‘50 e ‘60 rende il suo lavoro ancora più impressionante.
Anche a 83 anni di età, Bill Russell non si è fatto problemi a inginocchiarsi per mostrare il suo sostegno a Colin Kaepernick.
Il DNA della NBA è quello di Bill Russell
Si potrebbe andare avanti a descrivere una vita passata a combattere per ciò che è giusto per libri interi, e in ogni racconto in cui si parla delle lotte di Muhammad Ali o di Jim Brown dovrebbe essere compreso anche il nome di Bill Russell tra i più grandi atleti afro-americani della storia, tra chi ha davvero portato un cambiamento nel mondo e negli Stati Uniti. Ma è sulla NBA che Russell ha lasciato la sua impronta più importante, diventandone il Mahatma, per usare una definizione cara a Federico Buffa. Ogni volta che appariva in pubblico, la venerazione che i giocatori delle generazioni seguenti alla sua gli hanno dimostrato è stata sensazionale, e molto spesso ricambiata. Kobe Bryant era uno dei più grandi tifosi di Bill Russell ed era totalmente ricambiato, così come Kevin Garnett ha sempre avuto un rapporto privilegiato con il grande numero 6 della storia dei Celtics, che vedeva in lui e nella sua voglia di competere una sorta di erede.
Pur non essendo una persona facile per via del passato che aveva dovuto subire, il suo carisma, la sua risata di cuore e la sua capacità di “prendere il controllo della stanza” con la sua sola presenza rendeva Russell un personaggio la cui presenza non poteva mai passare inosservata. Bill Walton ha raccontato recentemente di essersi innamorato di lui solo per l’aura di grandezza che veniva raccontata da Chick Hearn nelle sue radiocronache delle sfide tra Lakers e Celtics negli anni ’60, scoprendo poi — incontrandolo di persona e diventando suo amico — che il suo carisma andava ben al di là delle sue fantasticherie da bambino. Nei suoi tweet dopo la scomparsa, Paul Pierce ha ricordato soprattutto le volte in cui ha avuto la possibilità di ascoltare le storie della sua carriera, le cose che Bill Russell ha dovuto subire e affrontare per fare in modo che nessuno dopo di lui dovesse farlo.
L’ondata di emozione che ha investito la NBA era in qualche modo attesa, visto che da qualche anno ormai Russell non era più fisicamente in grado di consegnare il trofeo di MVP delle Finals intitolato a suo nome, ma è evidente dalle reazioni dei protagonisti che il suo impatto rimarrà per sempre. Solo negli ultimi anni la lega è diventata ciò che Russell sperava diventasse già nei suoi giorni: impegnata politicamente, portata avanti da atleti che non hanno problemi a esporsi su temi sociali, giocata mettendo la squadra al primo posto. Ci è voluto del tempo, visto che dal 1988 ai primi anni 2000 la sua figura non è stata presente quanto dal 2009 in poi, ma con il tempo la lega ha compreso quanto fosse parte stessa della fondazione su cui è stata eretta.
Il 45° presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha sempre considerato Russell come uno dei suoi eroi, premiandolo con la Presidential Medal of Freedom nel 2011, in una cerimonia in cui quasi si sentiva in imbarazzo a dovergli mettere la medaglia al collo, sentendo che senza uomini come Russell — il primo allenatore afro-americano nella storia dello sport professionistico — non sarebbe potuto diventare il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America.
Più recentemente Russell è stato introdotto nella Hall of Fame anche come allenatore, unico a essere presente con il doppio ruolo di giocatore e coach. A introdurlo? Ovviamente Barack Obama.
Bill Russell sosteneva che la sua filosofia di vita venisse da quella di suo padre Charlie: «Non avevamo tanto, ma mio padre diceva sempre: ‘Non è quello che dai, ma quello che condividi, perché un regalo senza chi lo regala è vuoto’. Per questo ho sempre voluto condividere quello che avevo». Ed è stato vero nella sua vita, nella sua carriera, e nell’eredità che si lascia alle spalle.