Sono ormai 17 giorni che i giocatori NBA si sono chiusi dentro la bolla di Disney World: abbastanza per ricominciare a muovere i piedi ai giocatori dopo 4 mesi e perché finalmente i giochi di parole sulla bolla abbiano definitivamente smesso di essere divertenti. In attesa delle ultime partite della stagione regolare, o seeding games che dir si voglia, le 22 squadre sono scese in campo per i cosiddetti scrimmage, le amichevoli che servono a far riprendere ai giocatori il ritmo partita. L’onore del primo pallone è toccato ai padroni di casa di Orlando che hanno perso contro una delle favorite alla vittoria finale, gli L.A. Clippers, esattamente come fosse la partita inaugurale di un Mondiale di calcio.
D’altronde le competizioni internazionali erano fino a poco tempo fa le uniche che associavamo allo sport estivo, prima che il coronavirus ribaltasse il calendario in un mondo senza stagioni. Tradizionalmente ora la Summer League sarebbe finita da oltre una settimana e i giocatori sarebbero in vacanza in attesa dell’autunno. Ora invece stanno rapidamente tornando in forma per la parte più importante della stagione. E queste sono tutte cose che già sapevamo: abbiamo già scritto diffusamente di tutte le tappe che hanno portato Adam Silver a comporre il suo Decamerone in Florida, un luogo chiuso ermeticamente proprio nell’epicentro più colpito dalla pandemia.
Ma aprire dopo tutto questo tempo il League Pass NBA e leggere la scritta bianca su fondo blu cielo “Game will begin shortly” ammetto che mi ha in qualche modo emozionato. Vedere finalmente i giocatori scendere in un campo perfettamente levigato e illuminato mi ha dato un senso di pace, come se giocassero tra le nuvole del Paradiso. Fino a quel momento tutta l’architettura della bolla, dalle prime indiscrezioni fino all’arrivo degli atleti, la loro quarantena, i primi allenamenti tra mascherine e test giornalieri, sembrava esistere solo in uno spazio virtuale, in un esercizio mentale di come immaginare lo sport professionistico durante un’emergenza sanitaria senza precedenti.
Invece quella palla a due tra Nikola Vucevic e Joakim Noah ci ha detto che tutto questo è per ora possibile sul serio, persino vedere Noah nel 2020 essere in quintetto per una squadra da titolo. E ci ha detto che per ora questa assurda, folle, per molti versi sconsiderata iniziativa della lega sembra reggere: lo scorso lunedì ha annunciato che nessuno dei 346 giocatori al sicuro nella bolla è risultato positivo al COVID-19. Un successo iniziale che andrà confermato giorno dopo giorno, mentre si cammina su una fune sospesa sopra l’abisso.
Vita nella bolla
I principali attori sembrano essersi rapidamente adattati al nuovo palcoscenico - e senza sottovalutare le pericolose ripercussioni di una tale reclusione potrebbe avere sulla salute mentale dei giocatori - hanno cominciato ad apprezzare la quotidianità del lockdown disneyano. Le partite a golf, le battute di pesca, le sfide a ping pong (rigorosamente in singolo), le gite in barca e gli allenamenti scaglionati sono diventati presto una piacevole ritualità.
Molti degli atleti intervistati a riguardo hanno ammesso che il contesto ricorda molto quello dei campi estivi, con le stanze a tema Disney al posto delle camerate con i letti a castello, nei quali tornare un po’ bambini prima dell’inizio delle partite che contano sul serio. Per ora possono ancora provare a pescare l’unico pesce che nuota nel lago artificiale e che ci piace pensare venga attaccato all’amo della lenza da un inserviente che vive sott’acqua.
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Paul George è uno dei pescatori più entusiasti della lega, tanto da organizzare un torneo annuale quando era in Oklahoma.
O dare sfoggio delle proprie abilità nel golf (ed è un vero peccato che manchi Steph Curry) sui verdi prati che circondano le strutture alberghiere. Si possono scegliere due modalità: o le classiche 18 buche nei quattro circuiti presenti a Disney World (si chiamano Palm, Magnolia, Lake Buena Vista e Oak Trail, nel caso vi interessasse) o nel liberatorio swing per colpire la pallina più forte possibile, che immagino funzioni molto bene per rilasciare lo stress dopo aver perso a ping pong o in una partitella di allenamento.
Ho sempre trovato difficile capire la passione dei giocatori NBA, abituati a competere in uno sport così rapido e palpitante, per discipline così poco dinamiche e che prevedono una notevole dose di pazienza, ma pesca e golf sono assolutamente le più gettonate in quarantena. Non c’è una giornata che non passi senza una nuova cattura o una serie di palline nelle siepi. O almeno è quello che ci lasciano vedere, oscurando tutti gli altri comportamenti vietati ai minori.
Sì, perché alla fine dentro la bolla di Orlando ci siamo anche noi, che seguiamo non solamente i giocatori nel loro ambiente naturale, ovvero il campo di gioco, ma anche in tutte le loro avventure accessorie. Grazie al potentissimo 5G di Orlando possiamo abbeverarci ad un flusso ininterrotto di contenuti social creati direttamente dai giocatori: immagini, brevi video o addirittura dei Vlog (contrazione di video blog, qualcosa che andava molto di moda a metà degli anni 2000) girati e montati nella bolla compongono un mosaico che ci restituisce l’immediatezza di vivere questa avventura insieme ai nostri beniamini.
Videochiamiamo il padre di Matisse Thybulle, andiamo a ballare da soli con Dwight Howard, ci facciamo gli shotgun di birra con Meyers Leonard e proviamo ogni ristorante di Disneyland con JaVale McGee. La pandemia e successivamente il formato della bolla ha accelerato la disintermediazione tra chi i contenuti li crea e chi li fruisce: i giornalisti che hanno dovuto chiudersi in camera per una settimana intera ricevendo il cibo alla porta mentre scrivevano un pezzo al giorno su come si vive sepolti dentro Disney World sono stati scavalcati dai giocatori, che mettono in scena se stessi e i propri compagni eliminando ogni tipo di barriera d’accesso.
La NBA deve cominciare a ripensarsi
Una trasformazione inevitabile, e che la NBA deve imparare presto a plasmare se non vuole farsi travolgere. Nell’ultimo anno spesso si è discusso di come i rating delle partite NBA fossero scesi vertiginosamente, specialmente per le reti via cavo come TNT ed ESPN, che hanno rispettivamente visto perdere il 13% e l’1o% del proprio pubblico su base annua. Dati che sono stati frettolosamente interpretati come una perdita d’interesse verso lo spettacolo della NBA e dei protagonisti in campo, ma che invece manifestano un trend più complesso. Una delle motivazioni più razionali riguarda l’abbandono da parte di LeBron James della costa Est, che ha lasciato sguarnita un’intera fascia oraria di programmazione senza un vero leader. Un’altra invece parla di numerose superstar costrette ai box, da Steph Curry a Kevin Durant oltre al debutto posticipato di Zion Williamson, come causa principale dello scarso interesse di pubblico. L’assenza di uno o più giocatori però non bastano a spiegare una tale modifica nel modello di fruizione.
È innegabile come tali concomitanze negative abbiano contribuito ad abbassare i rating su base annuale per le partite della stagione regolare, ma allo stesso tempo non rappresentano un indicatore efficace per capire cosa sarà tra qualche anno il prodotto NBA. Non è un mistero che una delle motivazioni più pesanti che hanno portato alla riapertura della stagione sia stata la necessità di adempiere al contratto televisivo con ESPN, che in caso contrario avrebbe significato perdere oltre 900 milioni di dollari. Un contratto che andrà ridiscusso prima della stagione 2024-25 e che probabilmente sarà diverso dal precedente, se non nei numeri quantomeno nella forma.
Già prima dell’esplosione della pandemia la lega stava ragionando su come modificare il proprio formato - ricordate le discussioni sul Torneo di metà anno? - ma è indubbio che la NBA post-COVID sarà radicalmente diversa da come l’abbiamo conosciuta finora. Forse la stagione scorsa sarà stata l’ultima ad avere 82 partite di regular season e il calendario d’ora in poi sarà ridotto e/o posticipato per evitare l’accavallamento con la NFL.
Per fare questo però servirà ristrutturare il Salary Cap e conseguentemente le linee di monetizzazione di un prodotto che, secondo le parole di Adam Silver rilasciate lo scorso gennaio al Washington Post, «sta attraversando una fase di transizione nei modi attraverso i quali raggiunge i propri fans, specialmente quelli più giovani». È un problema comune a tutti i produttori di contenuti multimediali, e la NBA non fa eccezione.
Mentre salgono costantemente tutti i dati di engagement sui social, le visualizzazioni e gli abbonamenti su piattaforme, il merchandising e il valore complessivo del brand e delle varie franchigie (oggi una squadra NBA vale sei volte tanto quello che valeva nel 2010), la disaffezione verso i media tradizionali crea il problema non secondario di come trasformare un tale successo in moneta contante.
Il nuovo ruolo dei giocatori
Torniamo quindi a Disney World, l’esempio più puro di come si possa creare un impero partendo da disegni in movimento, per chiuderci nuovamente nella bolla dopo aver fatto la quarantena. Siamo in gigantesco reality show dove però le telecamere le hanno in mano i giocatori stessi, finalmente in grado di scegliere come mettersi in scena.
In questi ultimi mesi hanno dimostrato di essere pienamente in controllo della propria figura pubblica e di saperla sfruttare al meglio, sia quando dovevano scendere in campo sia quando dovevano scendere in strada. Una delle maggiori preoccupazioni per i giocatori entrando nella bolla era quella di avere ancora una voce udibile per sostenere il movimento Black Lives Matter che andasse oltre le scelte dei nomi dietro le magliette o le scritte sul parquet. Per ora stanno usando le varie interviste su Zoom per richiedere che i poliziotti colpevoli dell’omicidio di Breonna Taylor vengano messi sotto processo, continuando a tenere il riflettore sulla brutalità delle forze dell’ordine e sul razzismo sistemico in America.
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Subito dopo la partita contro i Dallas Mavericks LeBron James ha parlato per oltre 15 minuti con i giornalisti di BLM, della condizione degli afroamericani in America e dell'omicidio di Breonna Taylor.
La NBA è sempre stata una “Players’ League”, ma fino a questa stagione raramente si era vista una tale coordinazione da parte di tutti gli atleti, dalle superstar acclamate fino agli ultimi delle rotazioni, nel portare avanti con lucidità e coerenza un messaggio così forte. La stretta comunità che si è costruita attorno all’attivismo politico però non testimonia solamente la necessità di articolare con consapevolezza un discorso sul razzismo in una lega per la stragrande parte composta da afroamericani. È la realizzazione di un percorso che ha reso i giocatori degli individui a tutto tondo, che esistono oltre la loro professione sul campo e lo stipendio a svariati zeri che gli concedono i proprietari, ai quali fanno incassare somme ancora più alte.
In uno sport e in un mondo in piena emergenza, hanno saputo ricoprire un ruolo fondamentale anche per la tenuta della lega stessa. Inseriti in un luogo come la bolla di Orlando che per la prima volta cancella quello spazio privato che divideva una partita dall’altra, sono diventati più che semplici atleti: sono diventati gli attori protagonisti di un reality show, di una sit-com, di un talent.
Non sappiamo come e quando potremo tornare a ritrovare un rapporto fisico con la NBA, riempiendo i palazzetti o tornando a vederli pieni. Il formato utilizzato a Disney World ovviamente non è replicabile per un’intera stagione ma prevedere che la prossima possa ricominciare a dicembre come se niente sia successo è utopistico. Dovremmo abituarci a questo silenzio irreale nel quale rimbombano le imprecazioni di Carmelo Anthony ad ogni rimbalzo, si distinguono le chiamate di LeBron James sulle difese avversarie e addirittura ascoltiamo le lamentele di Kawhi Leonard con gli arbitri.
Come anche la stessa lega ha sottolineato scegliendo il claim per questo finale di stagione, è completamente un nuovo gioco e per esserlo dovrà mettere al centro i propri giocatori, finalmente sceneggiatori, registi e attori principali di questo spettacolo che per comodità chiamiamo NBA.