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Dario Vismara

La forma definitiva di Jayson Tatum

La sconfitta alle Finals ci ha restituito un giocatore nettamente migliore rispetto al passato.

Anche se con il passare dei mesi la vittoria dei Golden State Warriors alle Finals di giugno si è sedimentata come netta, lampante e indiscutibile, non sarebbe stato così improbabile vedere i Boston Celtics laurearsi campioni NBA. Il gruppo allenato da Ime Udoka era sopra 2-1 nella serie e i sei punti di vantaggio che avevano a metà del terzo quarto di gara-4 sembravano pesare almeno il doppio, tanta era la distanza fisica e atletica tra le due squadre in campo. Poi Steph Curry happened e la storia ha preso una linea temporale diversa rispetto a quella che i Celtics speravano, lasciandoli soli ad affrontare un’estate di rammarico e rimpianti.

 

Con il senno di poi, aver perso quella finale potrebbe essere stata la miglior cosa possibile per la carriera di Jayson Tatum. Se a 24 anni appena compiuti fosse riuscito a vincere l’anello da miglior giocatore della squadra, forse, nella sua testa avrebbe potuto pensare di essere arrivato, di non avere più nulla da aggiungere al suo repertorio, che l’immenso talento che ha a disposizione gli potesse bastare per battere qualsiasi avversario e vincere titoli su titoli. Invece, ancora una volta, le Finals hanno messo un giocatore di fronte ai suoi limiti più grandi, e Tatum – comprensibilmente – è andato a schiantarsi contro un muro: solo in un’occasione ha superato il 42% dal campo e in generale Andrew Wiggins è sembrato controllarlo sempre più agilmente più andava avanti la serie, scommettendo sulla sua incapacità di usare la mano sinistra per attaccare e sul fatto che prima o poi le energie lo avrebbero abbandonato, al termine di una cavalcata playoff in cui ha giocato 983 minuti in 24 partite, pareggiando il record del 2012 di LeBron James.

 

Il talento di Tatum è andato affievolendosi fino a spegnersi, e con lui di conseguenza tutti i Boston Celtics. Ma la delusione di quella sconfitta, ammessa da lui stesso in più di un’intervista, ci ha regalato un giocatore non per forza nuovo, ma sicuramente migliore rispetto al recentissimo passato. E parliamo di un giocatore che nel corso della sua carriera ha fatto uscire di testa tutti per quanto fosse forte ad un’età così verde (“Ha solo XX anni!” era la frase di qualsiasi tweet celebrativo delle sue giocate, dalla schiacciata in testa a LeBron James quando era solo un rookie in poi), e che lo scorso anno è stato votato per il primo quintetto All-NBA e ha chiuso al sesto posto per il premio di MVP (per il quale sarebbe stato probabilmente in lizza per vincerlo se fosse stata presa in considerazione solo la seconda metà della stagione). Tatum, insomma, era già un giocatore in grado di andare in casa dei Milwaukee Bucks con la serie sul 3-2 per i campioni in carica e inventarsi una prestazione da 46 punti per rimandare tutti quanti a Boston per gara-7. Pensare che in soli sei mesi diventasse decisamente più forte di così non era per niente scontato, eppure eccoci qui.

 

La puntata di Air Vismara di questa settimana, in cui si parla – tra le altre cose – anche dei Boston Celtics.

 

Come diventare MVP in sette settimane a Los Angeles

Se la vita di Tatum fosse il film di un supereroe, questo sarebbe il momento perfetto per inserire una lunga sequenza di immagini dei suoi allenamenti con una musica epica di sottofondo, mostrando come attraverso il duro lavoro sia riuscito a ripresentarsi nelle migliori condizioni possibili per sconfiggere il suo nemico finale. In realtà, stando a quello che ha raccontato, tutto è cominciato con un mese intero in cui non ha fatto proprio un bel niente: «Ero in condizioni miserabili. Non avevo neanche voglia di mangiare. Ero arrabbiato, deluso, esausto. Fissavo il muro per ore fino a quando non mi addormentavo. Poi mi svegliavo e mi dicevo: “Dannazione, abbiamo davvero perso il titolo”». 

 

L’estate di Jayson Tatum raccontata da Jayson Tatum.

 

La madre Brandy ha raccontato a SLAM di aver usato la sua arma segreta, cioè la collaborazione del figlio Deuce, per tirarlo fuori dal buco nero nel quale si era cacciato e convincerlo a mantenere viva la tradizione di famiglia di fare un viaggio per il weekend del Fathers’ Day. Alla fine sono andati alle isole Cayman, dove Deuce («A cui fondamentalmente non importa niente se abbiamo vinto o perso») è riuscito in qualche modo a farlo riconnettere con il mondo. E al suo ritorno dalla vacanza, insieme al suo storico trainer Drew Hanlen ha ribaltato completamente le abitudini della sua off-season.

 

Il primo passo, per quanto possa sembrare incredibile per un atleta professionista del massimo livello, è stato quello di assumere uno chef privato. «Quando sono arrivato in NBA non avevo una routine: mangiavo quello che volevo quando volevo, andavo in campo e giocavo a pallacanestro. Ora sono molto più abitudinario: anche se ho solo 24 anni, ho giocato un sacco di pallacanestro nella mia carriera e adesso so cosa serve non solo per arrivare fino alle Finals, ma anche per fare l’ultimo salto. Avevo bisogno di qualcosa di diverso e di prepararmi meglio, perciò ho cominciato a lavorare sul mio corpo perché sapevo cosa serviva per arrivare in forma fino a giugno». Oltre al junk food, Tatum durante l’estate ha anche tolto il suo amato golf e — leggendo tra le righe — tutte quelle attività ricreative che possono interessare a un giovane bello, ricco e famoso in una città come Los Angeles in estate.

 

Un Tatum riveduto, asciugato e corretto

Ma al di là di questi aneddoti che vanno sempre presi con le pinze – perché in passato non ci era stato detto che mangiava i tacos all’1 di notte e si divertiva d’estate? -, c’è anche tanta pallacanestro che è stata messa dentro all’hardware di Tatum. Il suo trainer ha raccontato che, dopo aver analizzato i filmati, le aree su cui si sono concentrate sono state tre: assorbire i contatti durante la fase di penetrazione; finire al ferro, sia con la tecnica che con la potenza; stabilire con più forza la posizione in post e dalla media distanza. Tatum si è ripresentato come un giocatore nettamente più fisico rispetto al passato: mentre prima tendeva a subire o addirittura a rifuggire i contatti, ora è lui a cercarli in prima persona, andando ad aggredire il ferro e utilizzando il corpo per spazzare via gli avversari che all’improvviso si sono accorti quanto sia difficile spostarlo dal equilibrio.

 

Le cifre e la distribuzione delle sue conclusioni testimoniano questo cambio di paradigma. Tatum non ha mai tirato così tanto al ferro e finisce con percentuali di élite quando ci arriva, rendendo un esercizio futile quello di cercare di contrastarlo. Sicuramente aiuta il fatto che, con l’assenza di Robert Williams, l’area sia maggiormente libera da attaccare per lui e per Jaylen Brown, complici anche le altissime percentuali dall’arco dei loro compagni di squadra in questo inizio di stagione. Ma Tatum ha anche tolto molte delle soluzioni dalla media distanza delle quali tendeva ad accontentarsi in favore dei tiri da tre punti (mai così tanti in carriera), e allo stesso tempo ha migliorato la sua efficienza (è al 47.5% nelle long 2s, nettamente il suo career high). All’aumentare della fisicità del gioco di Tatum sono saliti anche i tiri liberi tentati, costruendogli una base di rendimento sotto la quale difficilmente va: in 28 partite stagionali solo quattro volte è andato sotto quota 20 punti segnati e solo in otto ha tirato sotto il 40% dal campo, cosa che invece tendeva a fare un po’ più spesso in passato.

 

Ma l’aspetto che maggiormente impressiona del gioco di Tatum è quanto impegno abbia messo nel lavorare lontano dalla palla per procurarsi occasioni migliori e più semplici per segnare o per far segnare i compagni. L’aver dovuto affrontare una serie di playoff intera contro Steph Curry da questo punto di vista gli ha aperto gli occhi: «Il modo in cui si muove senza la palla lo rende probabilmente uno dei migliori bloccanti del mondo. Attira una quantità enorme di attenzioni. Quella è una cosa che ho cercato di fare mia per essere ancora più efficace». Il lavoro lontano dalla palla di Tatum si traduce in un ribaltamento di come si procura i suoi punti: era dal suo primo anno in NBA che la maggior parte dei suoi canestri da due punti non veniva assistito dai compagni, così come la percentuale delle triple assistite è salita al 67% (due anni fa era al 46%). Questo non significa ovviamente che Tatum sia tornato ad essere un 3&D – per quanto di talento – come era a inizio carriera, ma che ha capito come sfruttare a proprio vantaggio le attenzioni che la difesa gli dedica, rendendolo esponenzialmente più difficile da marcare. 

 

 

 

 

Un esempio preso dalla distruzione degli Charlotte Hornets del mese scorso: il vecchio Tatum avrebbe tenuto quel pallone in angolo dopo averlo ricevuto e avrebbe cercato una soluzione personale. Invece Tatum ributta il pallone fuori, porta un finto blocco lontano dalla palla a Smart e poi prende posizione alla linea del tiro libero per ricevere, girarsi e tirare in condizioni decisamente migliori rispetto a quelle iniziali. “Good to great”, anche cercando soluzioni individuali all’interno dello spartito.

 

Questo è l’aspetto in cui Joe Mazzulla ha cambiato maggiormente i Celtics rispetto alla gestione Udoka: la libertà con cui si muovono in un campo decisamente più aperto è stato uno spettacolo in questo inizio di stagione, rendendolo in grado di rivaleggiare con gli attacchi più efficienti della storia della NBA. «Onestamente il nostro sistema offensivo non si basa sulle chiamate di schemi, ma sulla fiducia» ha spiegato Tatum, che ha utilizzato anche l’aggettivo “calcistico” per definire il sistema di continuità e letture nel quale il pallone si muove continuamente voluto da Mazzulla. «Se dai via la palla nella giusta situazione, sai che ti tornerà indietro. Se uno prende palla in post, non rimanere fermo: porta un blocco flare o un pindown, oppure taglia forte verso il canestro. Non possono esserci quattro giocatori fermi sul perimetro. Se vedi un’apertura, buttati dentro e fidati che il tuo compagno faccia la scelta giusta premiandoti».

 

Un inizio di stagione da MVP

Fidandosi dei compagni e del “sistema”, Tatum ha anche riportato sotto controllo i problemi di palle perse a cui era andato incontro nei playoff dello scorso anno (i Celtics sono terzi per minor numero di palle perse in NBA) e allo stesso tempo ha “investito” i suoi compagni di squadra, che ora si sentono maggiormente sicuri nel prendersi iniziative. Certo, tirare con il 40% di squadra da tre punti e vincere gazzilioni di partite praticamente senza sforzo apparente aiuta a fidarsi e a trovare fiducia, e la recente trasferta da sei gare consecutive ha comunque messo in mostra qualche passaggio a vuoto del loro attacco, tenuto sotto controllo da Golden State e L.A. Clippers (due delle tre peggiori prestazioni offensive della stagione sono arrivate in queste due gare) e completamente bloccato nel secondo tempo della partita contro i Los Angeles Lakers, che i Celtics hanno rischiato di perdere pur essendo in totale controllo, arrivando anche sul +20 nel terzo quarto.

 

Ma è proprio quando la sconfitta sembrava inevitabile che Tatum è salito di livello, rimettendo in moto i Celtics negli ultimi 3:40 e approfittando in maniera spietata di due errori ai liberi di Anthony Davis a 28 secondi dalla fine che avrebbero dato il +4 ai Lakers, chiudendo quasi i giochi.

 

Come Messi contro Gvardiol nella semifinale dei Mondiali, Tatum si isola su un quarto di campo contro LeBron James e lo porta a spasso, arrivando esattamente nel punto in cui voleva per segnare il canestro della parità. A fine gara sono 44 i suoi punti, la quarta gara stagionale sopra quota 40.

 

Il livello di gioco, la continuità di rendimento, i picchi prestazionali, la presenza sui due lati del campo e gli eccellenti risultati di squadra hanno reso Tatum l’MVP di questi primi due mesi di stagione, suggellando al meglio un 2022 nel quale è cresciuto esponenzialmente. Non è nemmeno chiaro se questa sia la forma definitiva di Tatum, visto che stiamo parlando di un giocatore che non ha ancora compiuto 25 anni, e la possibilità che migliori ancora è terrorizzante per il resto della NBA, anche perché in questa regular season è sembrato salire di livello ogni volta che ce n’è stata la necessità, come nella sfida di fine novembre contro un altro candidato MVP come Luka Doncic.

 

Quello che è sicuro però è che la sconfitta alle Finals ci ha restituito un giocatore migliore, più maturo, più umile nel lavorare sui propri difetti invece di accontentarsi di vivere di rendita degli enormi pregi che innegabilmente aveva già prima. L’aspetto più entusiasmante delle superstar NBA è che non finiscono mai di evolvere e di migliorare: Jayson Tatum ha fatto un altro salto, e perdere potrebbe essere stata la miglior cosa che poteva succedergli.

 

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Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).