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Come il nuovo contratto collettivo rischia di stravolgere la NBA
16 feb 2023
C'è aria di cambiamento nella Lega.
(articolo)
20 min
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La tempesta perfetta. Così Pam Beesly, uno dei personaggi della serie TV The Office, descrive l’accumulo di scadenze e consegne nell’ultimo giorno possibile che agita l’ufficio più famoso degli Stati Uniti nell’episodio The Fight. E una tempesta perfetta è anche quella che si sta aggirando intorno alla NBA in merito alla firma del nuovo Collective Bargaining Agreement (da ora in avanti CBA). Ma di cosa parliamo?

Il CBA non è altro che l’accordo tra l’NBA (intesa come "Board of Governors", la classe dirigente) e la NBPA (l’associazione giocatori) che, cito dalla definizione ufficiale, “regola termini e condizioni lavorative per tutti i giocatori professionisti militanti nella NBA, così come i rispettivi diritti e doveri delle squadre NBA, della NBA e delle NBPA”. L’attuale è stato ratificato nel dicembre del 2016 e resterà in vigore fino al 30 giugno 2024. Perché tanta fretta allora? Come chiarito dall’accordo, le due parti avevano la possibilità di terminare mutualmente l’accordo entro il 15 dicembre 2022. Sebbene questo termine è ormai trascorso, NBA e Associazione Giocatori si sono accordati al tempo per spostare la data definitiva all’8 febbraio 2023, con tutte le intenzioni di uscire dall’attuale e raggiungere un nuovo accordo.

Le buone intenzioni delle parti, però, non bastano. Il 6 febbraio Adrian Wojnarowski di ESPN ha riportato di un’ulteriore estensione della data di uscita al 31 marzo, con NBA e NBPA che vogliono mantenere fluida la situazione sperando di poter risolvere la questione entro breve. Se così fosse l’attuale accordo scadrebbe alla fine di questa stagione. La procrastinazione dell’accordo sul CBA si aggiunge a un periodo complicato per l’NBA, che nello stesso momento sta tenendo le trattative per un nuovo accordo riguardante la vendita dei diritti TV e di broadcasting, oltre che essere caduta in una data a cadenza annuale molto attiva in termini di mercato, e cioè la trade deadline del 9 febbraio, tra l’altro particolarmente scoppiettante quest’anno.

CBA e diritti TV

Il CBA e i contratti per i diritti TV sono più che correlati. Un’intera parte dell’accordo collettivo tra le parti è infatti strettamente legata al Basketball Related Income (BRI), ovvero l’insieme delle entrate commerciali derivate da attività legate alla pallacanestro, che provenga dalle partite o da altri eventi correlati alla NBA (o a enti di proprietà della NBA e “Media Ventures”). Di questi introiti, ovviamente, la fetta più grossa è quella che riguarda la diffusione mediatica di materiale NBA, che sia essa tramite radio, TV, smartphone, Internet e così via.

Al momento la NBA beneficia di due principali contratti TV firmati con ESPN e Turner Sports, in attivo dal 2016 e per un totale di ben 24 miliardi di dollari fino al 2024/25, data di scadenza dell’accordo. Secondo alcune proiezioni riportate su CNBC, basate anche sul rendimento in termini di ore totali di visualizzazione, l’NBA potrebbe arrivare a firmare un nuovo contratto da circa 70 miliardi di dollari spalmati nell’arco di nove anni, circa cioè 8 miliardi a stagione. In una classifica virtuale di profitti legati alla cessione di “diritti media”, la Lega andrebbe a posizionarsi subito sotto la NFL, che ha firmato un contratto da circa 113 miliardi di dollari, con più partner in attivo, tra il 2023 e il 2033. Fra i possibili acquirenti, NBCUniversity starebbe già preparando una lauta offerta, secondo le voci uscite su CNBC in questi giorni, per accaparrarsi nuovamente i diritti di broadcasting NBA per la prima volta dal 2002.

Guardando ai dati, può sembrare stupefacente che NBA e NFL siano a distanza di “soli” due miliardi e qualcosa l’anno. Stando a Sportico, il Football americano si è impadronito delle case degli statunitensi, facendo registrare ben 82 dei 100 programmi più visti in televisione nel 2022, battendo il record che l’NFL stessa aveva stabilito l’anno precedente. Addirittura 19 delle 20 trasmissioni più viste del 2022 vedono protagonista la Lega di football americano, con il Super Bowl in cima alla classifica e che, da solo, ha racimolato quasi il doppio degli spettatori (99.2 milioni) della trasmissione in seconda posizione e più della seconda e della terza sommate. Tutte, comunque, di dominio NFL. Per rendere l’idea del divario, la decisiva Gara 6 delle NBA Finals fra Celtics e Warriors ha avuto poco meno di 14 milioni di spettatori.

Per quale motivo, allora, la NBA può vendere il proprio prodotto a somme simili a quello della NFL? Intanto, la diffusione non avviene solo tramite televisione, ma anche per mezzo di canali streaming e social media. Il servizio NBA League Pass, ad esempio, per quanto non sufficiente a cucire lo strappo (e per quanto calato qualitativamente nella stagione in corso) è parte integrante e fondamentale di chi guarda l’NBA, specialmente oltreoceano. E questo è significativo in relazione alle nuove tendenze, tanto quanto il successo social, avanti anni luce rispetto alle altre Leghe.

Per capire l’importanza dello streaming, la Major League Soccer (MLS) ha appena annunciato una partnership con Apple per il lancio di MLS Season Pass, un servizio streaming disponibile su Apple Tv e dispositivi “in oltre 100 nazioni”. Nel 2021, NFL e Amazon hanno firmato un contratto di 11 anni per cedere al gigante fondato da Jeff Bezos l’esclusiva per il “Thursday Night Football”, affidando per la prima volta un intero pacchetto di partite NFL esclusivamente a un servizio streaming, in questo caso Prime Video. Il costo della vendita dei diritti si aggira sul miliardo annuo, a partire proprio dal 2022.

Le grandi industrie capaci di provvedere a servizi streaming sono sempre più interessate allo sport e la combinazione di utenza “giovane” e di un bacino globale da cui attingere rende la NBA molto preziosa, come dimostra anche il tentativo fatto dallo stesso Bezos di acquistare Phoenix Suns e Mercury, prima del passaggio di proprietà da Robert Sarver a Mat Ishbia.

Se in generale il pubblico americano facente parte della “Generazione Z” ha avuto un calo nell’interesse per gli sport, secondo uno studio condotto nel 2020 su Morning Consult, la NBA ha preservato un certo appeal anche tra i più giovani (la fetta maggiore di spettatori statunitensi che segue l’NBA è compresa tra i 18 e i 44 anni, quasi equamente spartita nelle fasce 18-34 e 35-44). Numeri che dimostrano il potenziale della Lega e che sono ancora più interessanti se allargati al resto del mondo, anche per via dell’internazionalizzazione dei servizi streaming. Se Luka Doncic dice di guardare più Eurolega, l’NBA oltreoceano va sempre più forte. Secondo quanto rivelato meno di un anno da Matt Brabants, Senior Vice President, Global Media Distribution & Business Operations per la NBA, nazioni come Brasile, Australia e Filippine avrebbero raggiunto un enorme incremento di pubblico rispetto alla stagione 2020/21: la prima delle tre avrebbe compiuto “un salto del +16% in audience media, con una crescita di oltre il 50% negli ultimi due anni e un +104% di interazioni sulle piattaforme social rispetto al 2020; +35% dall’anno precedente in Australia, al secondo posto in tutto il globo per abbonamenti a NBA League Pass; per le Filippine, invece, primato per quel che riguarda visualizzazione media al di fuori degli Stati Uniti, con un interesse per la pallacanestro americana diffuso in quasi tutta la popolazione e una crescita degli abbonamenti a League Pass del +26% medio, stagione dopo stagione. E potremmo elencare altri paesi con una progressione simile.

Per non parlare della Cina. Per chi se lo fosse perso, nel 2019 l’allora General Manager degli Houston Rockets, Daryl Morey, fece un tweet a favore delle proteste in corso a Hong Kong contro una proposta di legge sull’introduzione dell’estradizione verso la Cina, per determinati criminali e in determinate circostanze, avanzata dal Governo locale. Nonostante le contromisure prese dai Rockets, dallo stesso Adam Silver e da alcuni giocatori, come la superstar di squadra, James Harden, la reazione dall’altra parte non tardò ad arrivare, e ogni partnership con la NBA fu sospesa, con la TV nazionale cinese (CCTV) che troncò ogni trasmissione legata alla pallacanestro americana. Dopo un digiuno in termini di incassi in corso da ottobre 2019, con una breve sospensione delle “ostilità” per trasmettere le Finals 2020, a marzo 2022 la NBA è ricomparsa sui canali CCTV, dove viene proposta con costanza e, cosa più importante, recentemente con numeri simili a quelli pre COVID-19.

Insomma, la questione dei diritti TV e media in generale è sempre più fondamentale. Il tempismo con cui arriva il rinnovo non è ideale per la dirigenza perché finisce per impattare sull’accordo collettivo e allo stesso modo sul mercato interno.

CBA e Salary cap

Questo perché il BRI è fondamentale per stabilire la soglia del salary cap, ovvero la soglia massima di spesa che ogni squadra ha a disposizione per completare il proprio roster. Per la stagione corrente, ad esempio, ammonta a 123.655 milioni di dollari: ognuna delle 30 squadre dovrà utilizzare questa somma per firmare fino ad un massimo di 15 contratti. La NBA non preclude comunque di superarla, ed è per questo che si parla di “soft cap”. Ogni squadra può infatti eccedere la quota stabilita, tramite l’utilizzo di svariate eccezioni, pagando però come pegno una penale, entrando nella cosiddetta “luxury tax area”.

Ma come si stabilisce il salary cap? Prendendo il 44.74% (sempre secondo l’articolo 7, sezione 2 del CBA) degli incassi ottenuti dalle attività cestistiche legate alla NBA e alle sue proprietà e dividendolo per il numero di squadre presenti nella Lega (30, ad ora).

E, visto che la fetta più grossa di questi incassi è costituita da quella derivante la vendita dei diritti di broadcasting, non è difficile capire quanto il salary cap possa essere impattato da un nuovo contratto televisivo.

Per comprendere al meglio la criticità di queste dinamiche si può fare l’esempio di quello che accadde nel 2016, l’anno in cui il contratto tra NBA e ESPN e Turner Sports si è attivato. La crescita esponenziale delle entrate portò a un picco del salary cap, che crebbe di oltre 24 milioni di dollari, generando numerosi effetti collaterali, su tutti una serie di firme da parte di alcuni free agent che definire “pompate” sarebbe poco - chiedere ai quadriennali, rispettivamente da 72 e 64 milioni, di Luol Deng e Timofey Mozgov, fra i tanti – e una firma in particolare “scandalosa” nel senso opposto. Sfruttando infatti la crescita improvvisa del salary cap, i Golden State Warriors, reduci da un titolo, due apparizioni consecutive alle NBA Finals e una Regular Season da record con 73 vittorie e 9 sconfitte, poterono firmare Kevin Durant, facendo sprofondare la NBA in un regime del terrore sottoposto al potere egemonico del trono di San Francisco.

Proprio questo caso è stato preso in considerazione nelle discussioni attualmente in atto per il nuovo contratto collettivo, almeno secondo un report uscito nell’ottobre 2022 a cura di Adrian Wojnarowski su ESPN. L’idea era di riprendere una proposta già avanzata dalla NBA nel 2016 (e rifiutata dalla NBPA): “calmierare” artificialmente la crescita del cap negli anni. Se al tempo per la NBPA voleva dire spararsi sui piedi accettare una proposta che, pur lasciando inalterata al 51% la percentuale di BRI destinata ai giocatori, avrebbe scontentato molti, oggi potrebbe mostrarsi più elastica.

Questo è però solo uno dei punti più delicati. Già, perché tra le proposte più sconvolgenti ci sarebbe addirittura quella di rivoluzionare il sistema del “soft cap” per limitare il potere di spesa dei big market, che già di per sé sono poco impensieriti dal rischio della luxury tax e che potrebbero beneficiare ulteriormente dell’innalzamento del salary cap. Per rendere l’idea di quanto critica sia la situazione, si pensi che dei circa 689 milioni di dollari totali in tasse che verranno sborsati quest’anno, quasi il 60% viene versato da Golden State Warriors, Los Angeles Clippers e Brooklyn Nets. Ad ora, dopo gli ultimi stravolgimenti a New York, siamo sui 603 milioni totali, di cui quasi il 50% concentrato nelle mani delle due californiane. Tutto molto preoccupante per una Lega che vuole mantenere alto il livello diffuso di competitività.

L’idea della NBA sarebbe allora di fissare un “upper Spending Limit”: eliminare cioè il sistema della luxury tax e impostare un tetto massimo di spesa che non possa essere superato, uguale per tutte e 30 le franchigie. Una proposta non esente da problemi: intanto andrebbe a sparire l’incentivo che viene dato alle squadre che rispettano il cap (al momento il 50% delle penali versate dalle 9 squadre in luxury tax viene girato alle altre 21, per un valore di quasi 15 milioni di dollari a testa). Oltre a questo, però, il rischio più pesante sarebbe in realtà quello di ammazzare la competitività proprio degli “small market” che si vorrebbero favorire. Provate a immaginare di avere 30 squadre sullo stesso piano e con le stesse risorse a disposizione per creare un contesto competitivo, ma dislocate in diverse posizioni geografiche, più e meno appetibili per quella che è qualità della vita, clima, aspetti finanziari, intrattenimento e chi più ne ha più ne metta.

Se già oggi esiste un ristretto numero di franchigie molto più attraente per i migliori giocatori, questa nuova regola andrebbe a enfatizzare la forza dei big market. Questo perché si andrebbe a togliere ai cosiddetti “small market” la possibilità di utilizzare stratagemmi contrattuali, come ad esempio i Bird Rights, che permettano di accontentare un giocatore offrendogli quanto richiesto, anche al prezzo di entrare sporadicamente nelle luxury tax area. La possibilità per alcune franchigie che abbiano assemblato una realtà competitiva e che siano disposte a spendere in tasse per una singola finestra di due, tre o magari cinque stagioni, durante le quali si decida di andare All-in, verrebbe totalmente soffocata per l’incapacità, alimentata dalla Lega, di accontentare una o più superstar.

Non a caso la questione è stata uno dei motivi principali per cui le discussioni si sono bloccate. E sembra infatti che l’NBA sia pronta a fare un passo indietro, vista l’opposizione sia dei giocatori che, appunto, degli small market. L’eliminazione del soft cap renderebbe poi ancora più ingombrante l’elefante nella stanza che Adam Silver e soci stanno provando maldestramente a nascondere, e cioè l’espansione da 30 a 32 squadre. Mettersi contro le franchigie in vista di una rimodulazione di tutta la Lega non sarebbe il massimo.

Come se non bastasse, anche l’espansione potrebbe influenzare le trattative. Di recente Marc Stein ha riportato un’indiscrezione per cui le discussioni sull’ampliare la Lega dovrebbero restare congelate fino a che non saranno stati concordati i dettagli sul nuovo CBA e sui contratti TV, visto che ogni nuova franchigia dovrebbe pagare una sorta di penale bastata sul valore delle altre già presenti, cifre che potrebbero schizzare alle stelle come abbiamo visto.

Una delle proposte sul tavolo è proprio quella di usare questi soldi offrendone una parte ai giocatori in cambio della possibilità di smussare artificialmente la progressione verticale del salary cap. O, se i giocatori non accettassero questa proposta, i proprietari potrebbero farne un’altra per introdurre nuove clausole contrattuali a loro favorevoli.

La trade deadline e, soprattutto, il campo

Tutto è molto complicato, insomma, e tutto si riverbera. I vari GM hanno vissuto gli ultimi giorni di mercato con l’indecisione su quali sarebbero state le condizioni economiche sancite dal prossimo CBA. Essere condizionati da questa insicurezza avrebbe potuto portare a risultati opposti: il completo immobilismo o un’esplosione improvvisa nelle ultime 24 ore. Diciamo che, per una serie di circostanze casuali, su tutte la rottura di Kyrie Irving e Kevin Durant con i Nets, la seconda opzione ha prevalso. Ma non era così scontato.

Secondo l’aggiornamento di Woj, l’NBA Board of Governors avrebbe deciso di rimandare le discussioni all’altezza di venerdì 3 febbraio, e non è da sottovalutare che un passo indietro sulla proposta dell’upper spending limit possa aver giocato un ruolo non irrilevante nelle decisioni di Suns e Mavs. Anche perché, con il persistere delle suggestioni sul cambiamento del soft cap, ci sarebbero state svariate conseguenze da prendere in considerazione e rischi che è giusto esaminare a posteriori.

Per fare un esempio, Dallas avrebbe tempo fino a 30 giugno per estendere il contratto di Irving con un biennale da circa $80 milioni grazie ai Bird Rights – una “eccezione” che permette firme anche a squadre al di sopra del cap o in luxury – conservati nello scambio. Tuttavia, non conoscendo le condizioni eventualmente dettate dal nuovo contratto collettivo, sarebbe difficile pensare a un’esposizione di questo tipo approvata dal proprietario Mark Cuban. Il monte stipendi dei Mavs è già bello corposo e in caso di eventuali limitazioni avrebbe avuto più senso preservare un contratto team friendly e lungo come quello di Dorian Finney-Smith, anziché scambiarlo per un giocatore da estendere proprio nel periodo più critico in relazione al nuovo CBA. E potremmo citare decine di esempi simili. Una deadline come quella di quest'anno sarebbe un miraggio senza un soft cap, parte integrante dell’intrattenimento offerto dalla NBA, basata anche in gran parte sul mercato per gli appassionati e i nerd delle trade machine (come chi scrive). Con una cadenza così ravvicinata, senza i progressi annunciati all’ultimo minuto da Woj, non avremmo potuto assistere a questo rush finale al cardiopalma, così frenetico e (perché no?) divertente.

Tutte queste discussioni, però, sarebbero vane senza una cosa: lo spettacolo offerto sul campo. L’intrattenimento offerto dalla NBA è la condizione sine qua non per tutto il resto e le discussioni intorno al CBA riguardano anche l’aspetto dell’intrattenimento. Sempre Wojnarowski ha raccontato come alcune delle proposte avanzate servano a incentivare gli spettatori a guardare più pallacanestro.

La questione del load management è al centro di questo dibattito. Negli ultimi anni il numero di gare giocate dalle stelle si è ridotto, una risposta delle squadre all'aumento degli infortuni, ma anche un problema per gli ascolti e la vendita dei biglietti, soprattutto per le classi meno abbienti che non possono permettersi di essere ogni sera al palazzo, e che magari rischiano di non trovare i migliori giocatori la singola volta in cui decidono di farlo.

Si discute da anni sull’impatto del load management sulla lega, tra chi pensa che sia inconcepibile che giocatori con tantissime risorse a disposizione debbano saltare in percentuale più partite rispetto a, per esempio, gli anni ’90, in cui c’era molta meno attenzione alla componente fisica, e chi invece prende di mira il calendario NBA, diventato troppo pesante per i ritmi odierni di una partita.

La questione è complessa, e il fatto che trovi spazio tra quelle affrontate nelle discussioni per il nuovo CBA è sensato. Così come lo è altrettanto che venga discussa l’introduzione di un “In-season tournament”, un torneo di metà stagione pensato per rendere meno monotona una stagione regolare lunga come quella NBA.

Per quanto si sappia ancora molto poco a riguardo, il commissioner NBA Adam Silver starebbe pianificando da molto questa novità, tanto che se ne troverebbe una prima bozza risalente al 2019 e tramata già dal 2016. Allora si proponeva di dividere il torneo in base alle 6 Division, con 8 gare per ogni squadra che sarebbero state conteggiate nelle 82 totali, e far giocare alla vincente di ogni Division, assieme a 2 ripescate, la fase dai quarti di finale in poi. Il tutto, tra la fine di novembre e gli inizi di dicembre e con una lauta ricompensa per la squadra vincente.

Somiglianze cristalline con le indiscrezioni emerse di recente, nelle quali si parla di una fase a gironi giocata a dicembre da cui dovrebbero uscire 8 squadre, le quali a loro volta dovrebbero competere per la vittoria finale prima di Natale, con la ricompensa di circa $1 milione a giocatore per la squadra vincente. Eventuali tagli alle gare totali, quali quello da 82 a 78 emerso come possibilità in un report di un anno fa, restano da vedere.

Dopo la ventata d’aria fresca arrivata aprendo le porte al Play-In, perché non tentare?

“One-and-done” rule

Un altro punto spinoso per il rinnovo è quello legato alla “one-and-done” rule. Entrata in vigore a partire dall’NBA Draft 2006, dopo le contrattazioni per il CBA del 2005 in era David Stern, è una regola che prevede che l’eleggibilità dei prospetti venga determinata da due fattori: aver superato i 19 anni e, per tutti quelli che non sono giocatori internazionali, aver trascorso almeno un anno di tempo a competere ad alti livelli dopo l’High School.

Una regola intorno alla cui adozione aleggia un po’ di mistero, visto che bloccò una tendenza di successo, ripartita con Kevin Garnett, Tracy McGrady e Kobe Bryant e che ha visto nei primi anni del 2000 addirittura tre prime scelte arrivare direttamente dal liceo (Kwame Brown nel 2001, LeBron James nel 2003 e Dwight Howard nel 2004). Stern si giustificò spiegando che l’intenzione fosse quella di limitare l’afflusso di talento grezzo all’interno della Lega, se non la presenza di veri e propri profili che poco avevano a che fare con la NBA. Nomi caduti nell’anonimato come quelli di Jonathan Bender o Suntino Korleone Young (sì, Suntino Korleone, omaggio dei genitori a ‘Il Padrino’). Altre teorie, invece, sarebbero incentrate sul razzismo. Recentemente Jalen Rose ha definito questa regola come un “residuo di schiavitù”, in quanto presente solo in uno sport a maggioranza afroamericana come la pallacanestro.

Indipendentemente dal movente che ha portato alla sua introduzione, lo “one-and-done” ha sempre meno senso di esistere. Basta pensare all’hype intorno a Zion Williamson e ora Wembanyama. Se fossero entrati prima in NBA ci sarebbe stato da guadagnare per tutti. Inoltre i progressi nel campo della preparazione fisica e tecnica dei giocatori hanno portato a un’evoluzione tale che i migliori prospetti a 19 anni sono già pronti, questo anche grazie alle leghe di sviluppo o ai campionati del resto del mondo, sempre più influenti in sede di Draft.

Nonostante questo, però, anche qui ci sono problemi: la proposta presa in esame da NBA e NBPA riguarderebbe la possibilità di abbassare il requisito minimo di eleggibilità per il Draft al compimento dei 18 anni (eliminando lo “one-and-done), ma richiedendo ai prospetti eleggibili precisi dettagli sulla loro condizione fisica, passaggio al momento non necessario in sede di Draft. Inoltre questo anticipo danneggerebbe in termini di visibilità le leghe di sviluppo e l’NCAA, che perderebbero la massiccia visibilità portata dai talenti più popolari, ormai coi social già seguitissimi da quando hanno 15/16 anni.

Conclusioni

Con questo punto, si esauriscono le questioni “urgenti”. Anche se esistono tante altre proposte sul piatto: da quella di Tamika Tremaglio a nome della NBPA di mettere in piedi un fondo esclusivo per quei giocatori che, a fine carriera, vogliano diventare parte della proprietà di alcune franchigie, a discussioni anche sull’equiparazione dei problemi di salute mentale a quelli fisici, in particolar modo dopo le prese di posizione di voci autorevoli come quella di DeMar DeRozan e Kevin Love, e soprattutto dopo il caso Ben Simmons. L’obiettivo della NBPA è il raggiungimento di una “equità”, anche e soprattutto economica, che riduca ulteriormente la distanza fra proprietari e “dipendenti”, ma come abbiamo visto dipenderà molto anche da come la Lega plasmerà il suo futuro.

Al momento i temi più delicati sembrano quelli che riguardano il salary cap e la ricerca del miglior sistema possibile per aumentare la competitività e, di conseguenza, l’intrattenimento. L’introduzione del Play-In e la proposta dell’In-Season tournament non fanno altro che testimoniare il disperato bisogno di aumentare l’appeal della stagione regolare. Per diventare più appetibile, e quindi far crescere il pubblico e il valore del prodotto, l’NBA dovrà però rispondere alle molte questioni che abbiamo esaminato fin qui. Discrepanza fra “Big Market” e “Small Market”, come migliorare il modello del “soft cap” (con una rivoluzione che al momento sembra sventata), la gestione della possibile espansione, la salute fisica e mentale degli atleti.

“The Perfect Storm” si fa, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sempre più reale. E, per non finire a sbrigare tutte le pratiche dopo l’orario consentito, Adam Silver, Tamika Tremaglio e tutti gli altri dovranno applicarsi in fretta, dato che persistere nel procrastinare non può portare ad altro che agli straordinari non retribuiti rappresentati dal lockout. La volontà di voler uscire dall’attuale CBA in anticipo è ormai assodata, ma più questa data slitta, più si restringono delle tempistiche nitide, lasciando in sospeso questioni che già da adesso intaccano lo svolgimento ideale della NBA e dell’unica cosa che conta per i fan: lo spettacolo della pallacanestro.

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