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I Celtics sono finiti in un vicolo cieco
19 gen 2022
Jayson Tatum e compagni sembrano destinati a un’altra stagione mediocre.
(articolo)
11 min
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Per provare a capire il momento attraversato dai Boston Celtics può essere utile riavvolgere il nastro e tornare indietro alla tarda primavera del 2018. Jayson Tatum e compagni avevano appena perso, per la seconda volta consecutiva, le finali di conference per mano dei Cleveland Cavaliers. A differenza dell’anno precedente, però, la contesa si era risolta solo al termine di una tiratissima gara-7 tra le mura amiche del TD Garden. Nell’ambiente biancoverde la delusione era ovviamente palpabile, ma era accompagnata dalla sensazione che l’appuntamento con il ritorno alle Finals fosse solo rimandato. In fondo i ragazzi guidati da coach Brad Stevens erano arrivati a un passo dall’impresa pur privi di Gordon Hayward, fuori da inizio stagione, e di Kyrie Irving, il grande ex, per le sfide decisive. I due infortunati, si pensava, sarebbero tornati a pieno regime e con loro i Celtics sarebbero stati in prima fila tra i ranghi di una Eastern Conference in cui tutti aspettavano l’addio di James, autentico dominatore dell’ultimo decennio.

Non bastasse, l’attenta gestione della struttura contrattuale e qualche autentico magheggio firmato da Danny Ainge in sede di Draft concedevano al front office una possibilità concreta di puntare alla prima superstar scontenta disponibile sul mercato. Il nome che tutti avevano in mente era quello di Anthony Davis, complemento ideale per un gruppo già solidissimo, ma comunque ci si accontentava dei risultati ottenuti. Il futuro della NBA, insomma, sembrava dover passare dal Massachussets, soprattutto perché il ragazzino pescato da Duke meno di un anno prima mostrava le stimmate della stella di prima grandezza

Avere vent’anni e tanta autostima da bullizzare LeBron nell’ultimo quarto di una gara-7 di finale di conference.

Caccia al colpevole

Con quelle premesse, tornando velocemente all’attualità, occorrerebbe spiegare come abbiano fatto i Celtics a piombare in quella sorta di vicolo cieco in cui si trovano ora. Di certo c’entrano le scelte fatte, o forse ancor di più quelle non fatte, dal 2018 in poi. Non è certo un azzardo affermare che la situazione attuale sia figlia delle mosse passate, di cui la scommessa persa Irving è il crocevia e gli addii di Al Horford e Gordon Hayward (arrivati senza che la dirigenza riuscisse a sfruttare il vantaggio contrattuale per ottenere delle contropartite) ne sono le nefaste conseguenze.

Volendo, il colpevole che si cela dietro a questo fallimento ormai evidente sarebbe facile da individuare, a maggior ragione perché da qualche tempo ha abbandonato la città - e, si sa, la lontananza facilita il distacco emotivo e la lucidità di giudizio. Ma se Danny Ainge si può e si deve criticare per alcune decisioni o, ancor di più, per il tempismo con cui sono state prese, va anche ricordato cosa sarebbe potuto essere dei Celtics se all’ex-GM non fosse riuscita la mossa Kansas City con cui ha raggirato i Sixers al Draft 2017 oppure se l’anno prima non avesse resistito alle tentazioni Kris Dunn, Dragan Bender e Buddy Hield che molti Mock Draft davano come papabili alla posizione numero tre al posto di Jaylen Brown.

Posto che la caccia all’errore o al colpevole, arrivati al punto in cui sono arrivati i Celtics, è un gioco che ha poco senso, l’operato di Ainge più che nelle trade eclatanti andrebbe valutato per la mole di operazioni di mercato collaterali e per le scelte al Draft fuori dalla lottery. Nell’arco di tre stagioni le porte girevoli del TD Garden hanno visto entrare e uscire una trentina abbondante di giocatori che si sono alternati attorno al nucleo formato dal trio Brown-Smart-Tatum. In mezzo a questo viavai di nomi ci sono veterani e di esordienti, role-player a cui sono stati affidati compiti ben precisi e giocatori a cui si chiedeva di diventare punti fermi di una realtà con ambizioni da titolo, eppure nessuno è riuscito a incidere davvero sui risultati di squadra.

Ed è probabile che nel turbinio delle porte girevoli del TD Garden i Celtics abbiano perso il senso dell’orientamento, finendo in questo vicolo cieco, apparentemente senza via d’uscita e sul cui muro di fondo si staglia una scritta a caratteri cubitali: benvenuti nella mediocrità.

Nella mediocrità

Pur con le dovute cautele relative all’andamento di una stagione resa discontinua dagli effetti della nuova ondata di Covid-19, la boa di metà regular season rappresenta un primo momento in cui tracciare il bilancio provvisorio dell’annata in corso. Superata la soglia delle 40 partite giocate il numero di vittorie e sconfitte riflette con buona approssimazione i valori espressi sul campo, che nel caso dei Celtics rimandano alla mediocrità di cui sopra. Il record (23-22), che al momento vale l’ultimo posto disponibile per il play-in, appare quindi un consuntivo attendibile di quanto traspare dall’impressione visiva e dalle metriche di squadra.

A mantenere Boston in linea di galleggiamento è stata senza dubbio la difesa, quinta per rating e sesta per percentuale concessa agli avversari, che dopo il passaggio a vuoto della scorsa stagione è tornata stabilmente tra le migliori della lega. La presenza di autentici specialisti come Brown, Horford e Smart e l’abitudine a difendere di squadra, retaggio del lavoro svolto negli scorsi anni, ha consentito all’esordiente Udoka, sulla cui gestione fin qui pesa qualche uscita discutibile, di poter contare su una base solida da cui partire (i Celtics sono decimi per punti concessi agli avversari).

Tenuta sull’uno contro uno, lettura veloce dei cambi e posizionamento corretto del corpo: una difesa efficace

Decisamente meno bene è andata nell’altra metà campo, dove nelle precedenti tre stagioni la squadra era sempre rimasta nella top-10 della lega per efficienza, mentre i Celtics 2021-22 sostano nelle parti basse della classifica in ogni voce statistica che riguarda l’attacco. Il rating – 24esimo su 30 – è lo specchio di una manovra offensiva lenta e macchinosa a cui solo il talento di Tatum e Brown ha impedito di andare a picco del tutto.

E proprio Tatum e Brown, il cui Usage rate (31.3% e 30%) è per distacco il più alto della squadra, rappresentano allo stesso tempo la soluzione, almeno estemporanea, ai problemi dell’attacco e il vincolo che ne blocca lo sviluppo. A frenare i Celtics non è tanto il passo indietro nelle statistiche personali delle due stelle, quanto i limiti ormai evidenti che entrambi evidenziano in fase di playmaking. Eccellenti quando si tratta di prendersi un tiro che possa compensare l’assenza di alternative valide, Tatum e Brown faticano molto di più se chiamati a creare per gli altri.

I quattro compagni fermi a osservare l’evolversi dell’azione e il talento di Tatum che risolve in isolamento.

I loro assist di media (3.8 e 3), se parametrati allo Usage appena accennato, rendono bene l’idea del problema. Un problema aggravato dall’assenza a roster di altri giocatori dotati della capacità di coinvolgere i compagni: il solo Smart supera i 5 assist di media (5.3) e il risultato è che i Celtics sono 23esimi per assist di media complessivi e 22esimi per rapporto tra assist e palle perse, altra spia di una gestione offensiva alquanto poco fluida.

La percentuale dal campo, 23esima della lega, e quella nel tiro da tre (25esimi), su cui pesa la mancanza di specialisti dalla lunga distanza (solo Grant Williams e Josh Richardson, tra i Celtics con minutaggi significativi, superano il 40% di media da tre), così come la media punti segnati (19°) sono conseguenza diretta delle difficoltà di cui sopra. L’attacco di Boston stenta nel produrre tiri ad alta qualità e, a volte, anche quando le spaziature sono quelle giuste la pochezza dei tiratori a disposizione si rivela ostacolo insormontabile

Il 4/42 da tre contro i Clippers, seconda peggior prestazione di sempre per una squadra con almeno 40 tentativi dalla lunga distanza in una singola partita.

Infine, il dato relativo al numero di possessi (23esimo su 30), fortemente influenzato dalla necessità di tenere in campo per ragioni difensive due lunghi di ruolo come Horford e Williams III, conferma le difficoltà elencate. I Boston Celtics, per come sono stati costruiti nell’attuale versione, sono una squadra senza margini significativi di miglioramento e destinata a languire nella parte bassa della classifica di una Eastern Conference viceversa sempre più competitiva. Per cambiare registro e provare non tanto a stare al passo con corazzate come Brooklyn e Milwaukee, quanto per non rischiare di diventare presenza fissa della zona play-in, occorrerebbe sottoporre il roster a un’opera di rinnovamento e riordino. Un’opera tutt’altro che semplice, perché l’eredità delle scelte compiute nel recente passato pesa ancora sul futuro della franchigia.

Feng shui

È opinione comune che all’addio di Ainge, sui cui dettagli rimangono parecchi dubbi, e alla decisa ristrutturazione interna con il passaggio dietro la scrivania di Stevens e l’arrivo in panchina di Udoka sarebbe dovuta seguire una altrettanto decisa ristrutturazione della squadra. Una ristrutturazione che si è però presto arenata a causa dei ristretti margini di manovra a disposizione dal nuovo front office. A Boston, infatti, dei leggendari asset di cui Ainge aveva fatto incetta nello smontare i Celtics di Rivers, Pierce e Garnett prima e in sede di Draft poi era rimasto ben poco, così come pochi erano i giocatori davvero appetibili da proporre in eventuali scambi. Più che una ristrutturazione, quindi, la prima finestra di mercato con Stevens al comando si è trasformata in una sessione di feng shui basata sulla centralità della coppia Brown-Tatum e orientata prima di tutto dall’urgenza di liberarsi del pesante contratto di Kemba Walker e quindi dalla necessità di utilizzare il poco spazio salariale a disposizione, lasciando aperte questioni in sospeso da tempo e rese ora ineludibili dalla pochezza dei risultati ottenuti.

La domanda che campeggia sulla stagione dei Celtics è dunque: cosa manca per invertire la rotta? La prima risposta è anche la più elementare: una guardia in grado di creare dal palleggio, per sé e per i compagni, incarico che a Boston negli ultimi anni hanno ricoperto con varie declinazioni Thomas, Irving, Rozier, Hayward e Walker. Dennis Schroeder, arrivato sul finire del mercato e firmato più per mancanza di alternative che per reale convinzione, non appare all’altezza, così come Pritchard, che nella sua seconda stagione in NBA sta facendo parecchia fatica a confermare i buoni spunti offerti nell’annata da rookie e a meritarsi la fiducia di Udoka.

Nel ruolo, poi, rimarrebbe quello che sembra essere diventato l’elemento chiave dei possibili scenari del mercato biancoverde: Marcus Smart. Giunto alla sua ottava stagione a Boston, l’ex Oklahoma State potrebbe essere al capolinea della sua esperienza. Smart, a cui per molti aspetti calza a pennello l’etichetta di “giocatore che tutti vorrebbero in squadra”, è ormai un corpo estraneo rispetto al percorso tattico ed emotivo dei Celtics. Acclarato come le sue caratteristiche tecniche si sposino poco e male con quelle del duo Tatum-Brown, unici punti fermi al momento, Smart rappresenta il solo nome di peso da poter inserire in eventuali trade. Difficile, però, se non addirittura impossibile portare al Garden un All-Star, forse nemmeno qualcuno si avvicini a quel livello, muovendo il solo Smart. D’altro canto il resto del roster non offre molte altre opzioni, tra contratti sproporzionati rispetto al valore reale del giocatore come quelli di Horford e Richardson e prospetti come Langford e Neismith, mai in grado di soddisfare aspettative forse troppo alte nei loro confronti. Per di più, quanto a future scelte al Draft, fattore di compensazione spesso decisivo per far quadrare gli scambi, Stevens può contare su un bilancio sostanzialmente a saldo zero per i prossimi cinque anni. Anche l’altra esigenza, quella di migliorare la qualità media al tiro dalla lunga distanza, potrebbe quindi non trovare soluzione prima della chiusura del mercato prevista per il prossimo 10 febbraio.

Solo un’illusione?

Il quadro generale, pertanto, non concede molti spiragli di ottimismo. Sulle possibili operazioni di mercato insistono i limiti già sottolineati, a cui si aggiunge la necessità di abbassare un monte salari importante – attualmente l’8° di tutta la NBA, già ridotto con lo scambio che ha portato Juancho Hernangomez a San Antonio, rimanendo solo 850.000 sopra la luxury tax - e del tutto incongruente con le potenzialità della squadra.

A prescindere da chi potrà partire o arrivare a Boston, per rimanere quantomeno a galla i Celtics hanno e avranno un disperato bisogno che Tatum giochi a livelli da MVP, a oggi traguardo ancora lontano, e che Brown diventi stabilmente un nome da secondo o terzo quintetto All-NBA. Pur nella migliore delle ipotesi, tuttavia, l’ulteriore crescita delle due stelle potrebbe non bastare per uscire dall’impasse attuale ed evitare quindi che le stagioni sul finire degli anni ’10 si trasformino in una mera illusione, nel sogno infranto di una squadra arrivata vicinissima a compiere l’ultimo passo, quello necessario per diventare una contender, senza mai davvero riuscirci. E la NBA, nella sua esasperata corsa alla competitività, sa essere davvero crudele con chi spreca occasioni del genere.

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