«Adapt or Die» dice il GM Billy Beane in una delle frasi più iconiche di Moneyball, il film del 2011 che ripercorre la storia degli Oakland Athletics. Quelle tre parole, pronunciate durante un acceso confronto con un consumato scout della franchigia, rappresentano bene cosa sia stata la rivoluzione delle statistiche avanzate nel mondo dello sport, ovvero l’esigenza di cercare un cambiamento con un pensiero innovativo.
Se il baseball ha aperto la strada, le conseguenze di questa rivoluzione sono note anche nel basket, dove è emblematico il passaggio dal Moneyball al Moreyball, dove per Morey si intende l’ex GM degli Houston Rockets, quello che più ha fedelmente abbracciato l’uso delle statistiche avanzate nel basket in quegli anni. Qualche numero può aiutare a capire meglio: tra la stagione 2013/14 e 2023/24 il PACE medio nella Lega è passato da 94.8 a 99.1 per il numero di possessi a partita, la frequenza percentuale di tiri da long midrange (fuori dal pitturato) da 21.7% a 8.7% e da 23.5% a 36.3% per quanto riguarda tentativi i tiri da 3 (fonte: Cleaning the Glass).
Il cambiamento è stato quindi prima di tutto spaziale e geografico (si corre di più e si gioca su un campo più largo) e a questo si sono dovuti adattare i giocatori. Tutte e cinque le posizioni del basket hanno dovuto adattarsi nel corso del tempo per rispondere all’evoluzione del gioco, ma se per i più “piccoli” si è trattato di aumentare il volume e avere sempre più la palla in mano, per i centri è diventato una questione di sopravvivenza. Chi è rimasto troppo ancorato ai canoni più tradizionali si è estinto, mentre chi è stato capace di adattarsi ha portato il ruolo in un punto che non si era mai raggiunto prima in NBA. «Adapt or Die» insomma.
COME I CENTRI TROVANO IL LORO POSTO
Il gioco moderno ha imposto ai 7 footers (i giocatori di 210 centimetri e oltre), a cui prima era richiesto solo di dominare internamente, prendere rimbalzi e offrire protezione del ferro, di evolvere le proprie caratteristiche. Oggi per stare in campo anche a loro è chiesto di avere velocità e abilità con la palla. La prima richiesta, o almeno la più immediata, è quella di tirare da dietro l’arco. La maggior parte dei centri in NBA ha compiuto, o provato a compiere, questo passo, che però non è diventata una condizione totalmente necessaria. Non tutti i centri sono stati in grado di sviluppare un tiro perimetrale sufficiente, ma quando non è stato possibile, hanno dovuto sopperire in altro modo, come ad esempio con un livello difensivo da All-Star (Rudy Gobert su tutti). Oggi provare almeno due triple a partita è la normalità per un centro, una predisposizione a queste conclusioni che è diventata una condizione quasi fondamentale per conservare il proprio minutaggio.
Non è un caso che sia molto in voga il termine stretch big, dove per stretch si intende la capacità di allargare il campo con il proprio range di tiro. Se ne parla molto ma non è facile da trovare: il sogno di tanti GM sarebbe di avere nel roster un lungo in grado di segnare con buone percentuali un alto volume di triple e che poi in difesa sappia proteggere il ferro. Ma in quanti ci riescono? Pochi: nella passata stagione i giocatori con una Block % superiore a 4.0 e almeno il 36.0% da tre punti su un minimo di tre tentativi sono stati appena 4, ovvero Joel Embiid, Kristaps Porzingis, Brook Lopez e Chet Holmgren.
I CENTRI-PLAYMAKER
Al di là di questa specifica combinazione, la bellezza nel gioco dei centri moderni sta nella capacità di essere incisivi anche con caratteristiche diverse, un’evoluzione dovuta a sistemi offensivi più dinamici. Quando un attacco si sviluppa su spazi sempre più ampi, i centri si trovano a ricevere in zone di campo da cui possono godere di maggiore libertà visiva, e così escono fuori in maniera più evidente le capacità di letture del gioco e le doti da passatore. Chi può schierare un centro-playmaker e non solo realizzatore, sblocca più opzioni offensive e quindi, banalmente, attacca meglio.
Se grazie al tiro da fuori tanti centri si sono adattati (e perché no, hanno anche lucrato contratti migliori quando possibile), chi ha lavorato o sta lavorando per diventare una minaccia anche con la palla in mano come creatore per i compagni, sta contribuendo all’ennesima evoluzione del ruolo. Il dato medio tra i primi trenta centri per percentuale di canestri dal campo assistiti è in crescita costante, mentre i migliori della lista registrano dati individuali sempre maggiore. Forse è un’ovvietà, ma dal 2016/17 al numero uno per AST% troviamo sempre Nikola Jokic.
Non a caso nessuno ha massimizzato questa idea come Michael Malone. Dal 2017 in poi Jokic è diventato il perno delle dinamiche offensive dei Denver Nuggets, con i diversi roster che gli sono stati cuciti intorno alla ricerca di giocatori che sapessero muoversi in relazione alle sue caratteristiche. Non è una novità: prima del tre volte MVP, Marc Gasol e Joakim Noah sono stati esempi di centri capaci di essere connettori dell’attacco di altissimo livello (e altri prima di loro), la differenza sta in quante volte oggi Jokic e gli altri centri-passatori vengono cercati in attacco durante una partita. Anche per la costanza con cui toccano palla in attacco, il nome con cui oggi viene definito questo ruolo è quello di point center (anche se altri preferiscono definirlo playmaking hub).
Ovviamente Jokic è un pioniere e forse un caso irripetibile di point center, ma sono sempre di più i suoi seguaci e le squadre che ruotano intorno a questa figura. Basti pensare a Sabonis a Sacramento e Sengun a Houston, ma anche a un centro come Claxton, che - come sottolineato da Jordi Fernàndez quando è stato presentato come nuovo capo allenatore dei Brooklyn Nets - sta sviluppando un gioco da passatore, soprattutto da passaggio consegnato.
Le più belle interpretazioni del ruolo.
IL PASSAGGIO CONSEGNATO
Se però parliamo di passaggio consegnato (handoff e dribble handoff) dobbiamo parlare di Sabonis. Con lui i Kings nella scorsa stagione erano primi per possessi conclusi da handoff: 11.4 a partita (secondi i Knicks a 7.1), ovvero il 10.2% dei sul totale dei possessi giocati. Questo perché Sabonis ama gestire l’attacco soprattutto dalla punta, grazie alla sua capacità di leggere eventuali vantaggi ottenuti dai compagni e alla capacità di premiarli.
Il passaggio consegnato può sembrare un fondamentale semplice, ma allora perché Sabonis lo usa così meglio degli altri? Perché per renderlo efficace bisogna avere il giusto tempismo per il rilascio del pallone e curare l’angolo del blocco, muovendo rapidamente i piedi per poi rollare e attaccare il ferro. In più l’attacco dei Kings è molto bravo nei tagli e nei movimenti senza palla che poi Sabonis può premiare. Nelle prime tre clip qui sotto si può vedere la contemporaneità tra la ricezione in corsa e il movimento deciso dalla posizione di guardia o ala nel lato opposto, funzionale a creare spazio al palleggiatore e complicando la scelta del difensore (se aiutare nel pitturato oppure seguire l’attaccante).