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Come i centri stanno diventando dei playmaker in NBA
14 gen 2025
Jokic, Sabonis, Sengun ma anche altri centri di cui si parla meno.
(articolo)
10 min
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«Adapt or Die» dice il GM Billy Beane in una delle frasi più iconiche di Moneyball, il film del 2011 che ripercorre la storia degli Oakland Athletics. Quelle tre parole, pronunciate durante un acceso confronto con un consumato scout della franchigia, rappresentano bene cosa sia stata la rivoluzione delle statistiche avanzate nel mondo dello sport, ovvero l’esigenza di cercare un cambiamento con un pensiero innovativo.

Se il baseball ha aperto la strada, le conseguenze di questa rivoluzione sono note anche nel basket, dove è emblematico il passaggio dal Moneyball al Moreyball, dove per Morey si intende l’ex GM degli Houston Rockets, quello che più ha fedelmente abbracciato l’uso delle statistiche avanzate nel basket in quegli anni. Qualche numero può aiutare a capire meglio: tra la stagione 2013/14 e 2023/24 il PACE medio nella Lega è passato da 94.8 a 99.1 per il numero di possessi a partita, la frequenza percentuale di tiri da long midrange (fuori dal pitturato) da 21.7% a 8.7% e da 23.5% a 36.3% per quanto riguarda tentativi i tiri da 3 (fonte: Cleaning the Glass).

Il cambiamento è stato quindi prima di tutto spaziale e geografico (si corre di più e si gioca su un campo più largo) e a questo si sono dovuti adattare i giocatori. Tutte e cinque le posizioni del basket hanno dovuto adattarsi nel corso del tempo per rispondere all’evoluzione del gioco, ma se per i più “piccoli” si è trattato di aumentare il volume e avere sempre più la palla in mano, per i centri è diventato una questione di sopravvivenza. Chi è rimasto troppo ancorato ai canoni più tradizionali si è estinto, mentre chi è stato capace di adattarsi ha portato il ruolo in un punto che non si era mai raggiunto prima in NBA. «Adapt or Die» insomma.


COME I CENTRI TROVANO IL LORO POSTO
Il gioco moderno ha imposto ai 7 footers (i giocatori di 210 centimetri e oltre), a cui prima era richiesto solo di dominare internamente, prendere rimbalzi e offrire protezione del ferro, di evolvere le proprie caratteristiche. Oggi per stare in campo anche a loro è chiesto di avere velocità e abilità con la palla. La prima richiesta, o almeno la più immediata, è quella di tirare da dietro l’arco. La maggior parte dei centri in NBA ha compiuto, o provato a compiere, questo passo, che però non è diventata una condizione totalmente necessaria. Non tutti i centri sono stati in grado di sviluppare un tiro perimetrale sufficiente, ma quando non è stato possibile, hanno dovuto sopperire in altro modo, come ad esempio con un livello difensivo da All-Star (Rudy Gobert su tutti). Oggi provare almeno due triple a partita è la normalità per un centro, una predisposizione a queste conclusioni che è diventata una condizione quasi fondamentale per conservare il proprio minutaggio.

Non è un caso che sia molto in voga il termine stretch big, dove per stretch si intende la capacità di allargare il campo con il proprio range di tiro. Se ne parla molto ma non è facile da trovare: il sogno di tanti GM sarebbe di avere nel roster un lungo in grado di segnare con buone percentuali un alto volume di triple e che poi in difesa sappia proteggere il ferro. Ma in quanti ci riescono? Pochi: nella passata stagione i giocatori con una Block % superiore a 4.0 e almeno il 36.0% da tre punti su un minimo di tre tentativi sono stati appena 4, ovvero Joel Embiid, Kristaps Porzingis, Brook Lopez e Chet Holmgren.

I CENTRI-PLAYMAKER
Al di là di questa specifica combinazione, la bellezza nel gioco dei centri moderni sta nella capacità di essere incisivi anche con caratteristiche diverse, un’evoluzione dovuta a sistemi offensivi più dinamici. Quando un attacco si sviluppa su spazi sempre più ampi, i centri si trovano a ricevere in zone di campo da cui possono godere di maggiore libertà visiva, e così escono fuori in maniera più evidente le capacità di letture del gioco e le doti da passatore. Chi può schierare un centro-playmaker e non solo realizzatore, sblocca più opzioni offensive e quindi, banalmente, attacca meglio. 

Se grazie al tiro da fuori tanti centri si sono adattati (e perché no, hanno anche lucrato contratti migliori quando possibile), chi ha lavorato o sta lavorando per diventare una minaccia anche con la palla in mano come creatore per i compagni, sta contribuendo all’ennesima evoluzione del ruolo. Il dato medio tra i primi trenta centri per percentuale di canestri dal campo assistiti è in crescita costante, mentre i migliori della lista registrano dati individuali sempre maggiore. Forse è un’ovvietà, ma dal 2016/17 al numero uno per AST% troviamo sempre Nikola Jokic.

Non a caso nessuno ha massimizzato questa idea come Michael Malone. Dal 2017 in poi Jokic è diventato il perno delle dinamiche offensive dei Denver Nuggets, con i diversi roster che gli sono stati cuciti intorno alla ricerca di giocatori che sapessero muoversi in relazione alle sue caratteristiche. Non è una novità: prima del tre volte MVP, Marc Gasol e Joakim Noah sono stati esempi di centri capaci di essere connettori dell’attacco di altissimo livello (e altri prima di loro), la differenza sta in quante volte oggi Jokic e gli altri centri-passatori vengono cercati in attacco durante una partita. Anche per la costanza con cui toccano palla in attacco, il nome con cui oggi viene definito questo ruolo è quello di point center (anche se altri preferiscono definirlo playmaking hub).

Ovviamente Jokic è un pioniere e forse un caso irripetibile di point center, ma sono sempre di più i suoi seguaci e le squadre che ruotano intorno a questa figura. Basti pensare a Sabonis a Sacramento e Sengun a Houston, ma anche a un centro come Claxton, che - come sottolineato da Jordi Fernàndez quando è stato presentato come nuovo capo allenatore dei Brooklyn Nets - sta sviluppando un gioco da passatore, soprattutto da passaggio consegnato.

Le più belle interpretazioni del ruolo.

IL PASSAGGIO CONSEGNATO
Se però parliamo di passaggio consegnato (handoff e dribble handoff) dobbiamo parlare di Sabonis. Con lui i Kings nella scorsa stagione erano primi per possessi conclusi da handoff: 11.4 a partita (secondi i Knicks a 7.1), ovvero il 10.2% dei sul totale dei possessi giocati. Questo perché Sabonis ama gestire l’attacco soprattutto dalla punta, grazie alla sua capacità di leggere eventuali vantaggi ottenuti dai compagni e alla capacità di premiarli.

Il passaggio consegnato può sembrare un fondamentale semplice, ma allora perché Sabonis lo usa così meglio degli altri? Perché per renderlo efficace bisogna avere il giusto tempismo per il rilascio del pallone e curare l’angolo del blocco, muovendo rapidamente i piedi per poi rollare e attaccare il ferro. In più l’attacco dei Kings è molto bravo nei tagli e nei movimenti senza palla che poi Sabonis può premiare. Nelle prime tre clip qui sotto si può vedere la contemporaneità tra la ricezione in corsa e il movimento deciso dalla posizione di guardia o ala nel lato opposto, funzionale a creare spazio al palleggiatore e complicando la scelta del difensore (se aiutare nel pitturato oppure seguire l’attaccante).

L’arrivo di DeMar DeRozan in estate ha portato a una redistribuzione delle gerarchie offensive, con più pick&roll e uno contro uno: pur rimanendo la prima squadra per frequenza di utilizzo dell’handoff, il dato è in calo rispetto la passata stagione (8.6%). Di conseguenza Sabonis è meno il perno offensivo di squadra: il suo numero di tocchi a partita è passato da 91.5 a 74.8, ma questo non cambia la sua capacità di essere un riferimento costante per quanto riguarda lo sviluppo dell’attacco, a un livello che raramente si era visto in passato per un centro.

Sabonis, anche forse a livello genetico (il padre è stato uno dei più grandi centri-passatori della storia), sembra naturalmente predisposto a esaltare un gioco fatto da passaggi consegnati, ma Joel Embiid è un esempio di come il passaggio consegnato possa diventare un altro fondamentale nell’arsenale di un centro già abbastanza fenomenale. Con l’arrivo di Nick Nurse i Sixers sono passati da 2.9 a 6.5 possessi gestiti così (fonte: NBA.com). L’obiettivo è di massimizzare i giochi a due tra Maxey e Embiid oltre il tradizionale pick&roll. I due si sono specializzati nella Get action, un gioco in cui la guardia passa la palla al compagno e immediatamente sprinta per ricevere il passaggio consegnato, una giocata in cui Steph Curry e Draymond Green hanno fatto scuola per anni.

Da una parte, Maxey può far esplodere tutta la sua velocità, ricevendo in corsa e modellando il ritmo a suo piacimento; dall’altra, un lungo come Embiid deve processare in pochissimo tempo tante informazioni: non solo leggere la traiettoria del compagno, se gli viene incontro, se si allontana dal difensore o taglia back door, ma allo stesso tempo, da quel gioco a due può nascere un’opportunità per altri, se la difesa è flottata in aiuto, se si apre una linea per un ribaltamento oppure da quella prima opzione deve entrare in gioco una seconda o terza decisione.

Questo genere di balletto a due non è la sola ragione per cui la scorsa stagione Embiid ha portato il suo AST% da 23.3 a 31.5, massimo toccato in carriera (fonte: NBA.com): la sua efficacia come scorer dal gomito o dalla zona nei pressi della linea del tiro libero costringe le difese a raddoppiare, se non triplicare e da lì Embiid è diventato sempre più abile nel leggere il passaggio giusto. Con l’aggiunta di Paul George il numero dei suoi assist dovrebbe salire ancora, ma Philadelphia questa stagione è ancora una squadra troppo illeggibile per fare previsioni.

JOKIC E IL SUO EREDE
Se parlare di Jokic in questo contesto è fin troppo scontato, e anche difficile, per la quantità e la qualità del suo gioco di passaggi, si può partire da lui per parlare del suo possibile erede. Nella scorsa stagione, prima dell’infortunio, Alperen Sengun stava diventando sempre di più l’iniziatore del gioco di Houston. Dal 2022/23 al 2023/24, il suo Usage % è salito da 22.0 a 27.1, il suo AST% da 19.9 a 24.9 e i tocchi al gomito a partita da 5.1 a 6.7 (fonte: NBA.com), portandolo terzo dietro proprio Jokic e Sabonis. Anche in questo caso, l’aggiunta di VanVleet non è stata così casuale, una point guard con mentalità pass first per cui è solo un piacere giocare attorno a Sengun.

Se nella NBA di oggi alcuni fondamentali tecnici e tattici sono di primaria importanza per ognuna delle trenta squadre, il modo in cui questi vengono creati in attacco, o fronteggiati in difesa, è estremamente variegato. Ma in questo caso, gli Houston Rockets hanno preso ben più di uno spunto dal playbook dei Denver Nuggets. Non è un caso che il turco sia stato definito Baby Jokic: i due hanno lo stesso istinto nel manipolare la difesa e anticipare le mosse degli avversari. Se però per i Nuggets l’universo di opzioni offensive che offre Jokic con le sue letture è più automatizzato, i Rockets stanno ancora sperimentando come rendere proficuo questo talento di Sengun. Il turco non è ancora influente come il serbo in attacco, ma è ormai diventato il giocatore intorno a cui la franchigia sta costruendo il suo futuro, ed è lecito aspettarsi un futuro roseo per lui come passatore d’élite.


Se Sengun è entrato in NBA portandosi dietro questo skillset, un giocatore come Anthony Davis, cresciuto dentro questa rivoluzione dei centri, è riuscito a evolversi, e lo sta ancora facendo in questa stagione grazie al lavoro di JJ Redick. Il nuovo allenatore dei Lakers ha fatto sempre di più di Davis il fulcro offensivo dei Lakers, non solo come finalizzatore dei giochi della squadra, ma è sempre più coinvolto in un attacco in cui sono i suoi compagni a girargli intorno, con blocchi e tagli che lui deve servire. L’attacco dei gialloviola sta funzionando a momenti, ma quando va è facile accorgersi di come è influenzato da Davis.


Si dice che nella NBA moderna tutti giocano allo stesso modo, ma intorno a questo cambiamento universale, ovvero nella distribuzione geografica dei tiri, nel gioco a ritmo alto e nel ricerca di transizioni, ci sono principi molto diversi che guidano i sistemi di gioco delle squadre, in base alle qualità dei propri giocatori, agli avversari, a quello che chiede il piano partita. Non esiste una ricetta vincente, ma una costante ricerca di avere una squadra capace di mantenere le idee alla base del proprio sistema, ma riuscendo ad avere una struttura preparata ad affrontare diversi sistemi offensivi e difensivi.

In questo contesto i point center sono un valore tangibile sempre più ricercato in NBA. E se per i centri che sono nella Lega da anni è difficile riuscire a reinventarsi un’abilità che spesso è frutto di specifiche caratteristiche personali (chi ha insegnato a Jokic a passare il pallone così?), in futuro vedremo sempre più centri sviluppati già al college o appena arrivati in NBA (un esempio potrebbe essere Alexandre Sarr a Washington) per sfruttare al meglio la loro abilità da passatore. Perché c’è sempre più bisogno di lunghi che rispondono a queste caratteristiche: è sicuramente complesso costruirle e padroneggiarle, ma il risultato è funzionale, oltre che esteticamente gradevole e divertente.

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Pesaro, 26 anni. Avido consumatore di pallacanestro, interessato a tattica e numeri.

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