
Delle otto squadre che lo scorso anno sono arrivate al secondo turno dei playoff, forse i Cleveland Cavaliers erano l’unica da cui non ci si poteva aspettare una striscia di 15 vittorie consecutive per cominciare la stagione successiva.
Pur avendo vinto una serie di playoff senza LeBron James per la prima volta dopo 30 anni, il modo in cui avevano superato gli Orlando Magic solamente in gara-7 - rimontando da uno svantaggio di 18 punti nel primo tempo della partita decisiva - aveva convinto decisamente poco. Al turno successivo la distanza nei confronti dei Boston Celtics poi campioni NBA era sembrata ben più ampia del risultato conclusivo di 4-1. Se a questo aggiungiamo anche la serie dell’anno precedente, persa senza mai essere competitivi contro i New York Knicks al primo turno, c’era la netta sensazione che qualcosa in Ohio dovesse cambiare per diventare davvero competitivi.
L’ESTATE DEI (NON) CAMBIAMENTI
Da quando è arrivato Donovan Mitchell nell’estate del 2022 i Cavs sono stati costruiti attorno a un concetto di Big Four che quasi non ha eguali in giro per la lega. Cleveland può contare su quattro giocatori di ottimo livello come Mitchell, Darius Garland, Evan Mobley e Jarrett Allen, ma con un incastro tra di loro tutt’altro che semplice da trovare. Rubando un’espressione pokeristica, i quattro sono l’equivalente di una doppia coppia: da una parte Mitchell e Garland sono due guardie di bassa statura, a loro agio con il pallone tra le mani per creare e capaci di segnare da ogni posizione; dall’altra Mobley e Allen sono al loro meglio quando giocano da unici lunghi in campo, venendo coinvolti direttamente nei pick and roll con tiratori attorno a loro, invece di stazionare sul perimetro venendo sistematicamente ignorati dalle difese avversarie, visto che nessuno dei due è una reale minaccia col tiro da fuori.
La soluzione più semplice, almeno all’apparenza, sarebbe stata quella di spezzare le due coppie. In quel caso sarebbero stati Garland e Allen gli indiziati principali a fare le valigie, e non è un caso che nei giorni successivi all’eliminazione per mano dei Celtics le voci di mercato si siano concentrate soprattutto su di loro. Tramite il suo agente Rich Paul, Garland aveva fatto trapelare di non essere contento del suo ruolo al fianco di Mitchell, e che in caso di estensione del contratto del compagno di backcourt avrebbe chiesto di essere ceduto. Su Allen, invece, giravano voci di tensioni in spogliatoio per la sua decisione di non scendere in campo dopo gara-4 nella serie contro Orlando per un infortunio che era stato definito come una “contusione alle costole” (mentre in realtà si trattava di una ben più grave frattura), tanto che perfino un suo compagno di squadra come il veterano Marcus Morris è arrivato a dichiarare che «nella sua posizione, io sarei sceso in campo» - sintomo che il malcontento era ben presente.
LA QUESTIONE BICKERSTAFF
Sopra ogni questione però aleggiava il vero elefante nella stanza, e cioè che nessuno sopportava più l’allenatore JB Bickerstaff. Alla sua prima vera esperienza da capo-allenatore, Bickerstaff aveva avuto il merito di prendere una squadra da 22 vittorie nel 2020-21 e di farla migliorare anno dopo anno fino al secondo turno dello scorso maggio, un risultato notevole se si pensa che senza LeBron James la franchigia non arrivava ai playoff dal 1998. Bickerstaff era molto apprezzato sia dalla dirigenza guidata dal General Manager Koby Altman che dalla proprietà dei Cavs per i risultati raggiunti e per lo spessore morale, ma da tempo si parlava di uno spogliatoio che non ne rispettava le indicazioni tattiche (né in fase di preparazione né a partita in corso) e che aveva progressivamente perso fiducia nella sua capacità di far fare il salto di qualità alla squadra.
I Cavs di Bickerstaff erano una squadra fortemente legata alle lune e alle improvvisazioni di Garland e Mitchell, chiamati a prendersi tutte le responsabilità creative e con un minutaggio eccessivo che li ha portati ad avere numerosi problemi fisici, specialmente lo scorso anno accumulando una ventina di partite saltate a testa. Mitchell, in particolare, ha sfiorato i 36 minuti di utilizzo in entrambe le stagioni, arrivando spompato alla fine dell’anno e vedendosi costretto a declinare l’invito di Team USA a partecipare ai Mondiali del 2023, precludendosi quindi anche la possibilità di essere preso in considerazione per le Olimpiadi di Parigi, a cui invece avrebbe voluto fortemente partecipare.
Questo è solo uno dei tanti motivi per cui Mitchell ha posto il licenziamento di Bickerstaff come condizione per poter prendere in considerazione l’estensione di contratto con i Cavs, oltre ovviamente al massimo salariale che un giocatore del suo talento comanda sul mercato. La dirigenza, pur apprezzando Bickerstaff, non ha potuto fare altro che provvedere al suo allontanamento, considerando che anche il resto dello spogliatoio non stava più con il coach (come dimostra anche l’accoglienza piuttosto fredda ricevuta da Bickerstaff al suo primo ritorno a Cleveland come capo-allenatore dei Detroit Pistons).
UNA PIOGGIA DI INVESTIMENTI
L’estensione di contratto di Mitchell - tutt’altro che scontata, visto che la sua esperienza ai Cavs è cominciata con la frase «Pensavo che sarei andato a New York» - per 150 milioni di dollari in tre anni non ha però ottenuto l’effetto di portare alla cessione di Garland. La dirigenza guidata da Altman ha tenuto duro scommettendo sul “rimbalzo” del playmaker dopo una stagione in netto calo in tutte le voci statistiche, dovuto però anche al terribile infortunio alla mandibola a dicembre che lo ha portato a perdere più di cinque chili (e già non parliamo certamente di un carro armato dal punto di vista fisico) e, come ha ammesso recentemente, anche un po’ della gioia di giocare a basket.
Pensate dover affrontare settimane senza poter mangiare e parlare e poi dover tornare in campo ad affrontare i migliori giocatori del mondo.
Allo stesso modo, mentre il resto del mondo si scervellava per trovare lo scambio giusto sulla Trade Machine per cedere Jarrett Allen più o meno ovunque, la dirigenza ha deciso un po’ a sorpresa di investire su di lui, estendendo il suo contratto per il massimo possibile in base all’accordo precedente: tre anni e 91 milioni di dollari. Considerando i 224 milioni messi anche per il quinquennale di Mobley, quelli di Garland, di Mitchell, di Okoro e di Strus, in totale la proprietà ha investito qualcosa come 600 milioni di dollari in due anni per tenere assieme questa squadra, e come se non bastasse è stata annunciata la costruzione di una nuova e avveniristica practice facility all’interno di un progetto di rinnovamento del quartiere in cui sorgerà da 3.5 miliardi di dollari.
Spendere un sacco di soldi non è mai garanzia di successo, specialmente in una lega come la NBA in cui vigono regole per il salary cap sempre più stringenti, ma nel caso dei Cavs è stato uno dei segreti per rasserenare gli animi in spogliatoio. Ora tutti i membri più importanti della squadra sono sotto contratto almeno fino al 2027 (quando Mitchell potrà diventare free agent, se lo vorrà), dandosi tre anni in cui nessuno deve “giocare per il proprio contratto” inseguendo statistiche e riconoscimenti individuali. Sembra poco, ma in una lega in cui girano un sacco di soldi e in un roster in cui nessuno ha più di 31 anni (tolto Tristan Thompson, ma ormai è solo in panchina per sventolare asciugamani), è un aspetto che finisce per fare la differenza e rendere più facile condividere il pallone.
L’IMPATTO SOTTILE DI KENNY ATKINSON
Ad approfittare più di tutti di questo nuovo spirito rasserenato in spogliatoio è stato il nuovo allenatore Kenny Atkinson. Dopo la fine della sua esperienza ai Brooklyn Nets, fatto fuori da Kevin Durant e Kyrie Irving per non aver acconsentito a schierare Deandre Jordan al posto di Jarrett Allen, nelle ultime quattro stagioni si è diviso tra Clippers e soprattutto Warriors, dove è stato il braccio destro di Steve Kerr anche nel titolo del 2022. Dopo essere andato vicino a prendere la panchina di Charlotte, tirandosi indietro solo all’ultimo secondo, Atkinson ha preso la panchina dei Cavs convinto di poter creare qualcosa di nuovo anche senza apportare alcun cambiamento di rilievo.
I Cavs sono usciti da quella che doveva essere l’estate della rivoluzione senza nessuno sconvolgimento: secondo l’indice di Basketball-Reference, hanno confermato il 99% dei minuti dello scorso anno pur dovendo fare a meno di un titolare come Max Strus (ancora fuori per un infortunio alla caviglia), una percentuale a cui arrivano solamente i Boston Celtics in tutta la lega. Andando a scavare anche nelle statistiche avanzate, si nota come Atkinson non abbia nemmeno toccato più di tanto alcune caratteristiche chiave della squadra: i Cavs si prendono lo stesso tipo di tiri dello scorso anno e concedono agli avversari la stessa “dieta” di conclusioni rispetto a quando c’era Bickerstaff. In alcuni aspetti, paradossalmente, sono perfino peggiorati: vanno di meno a rimbalzo di attacco (nonostante la presenza di Allen e Mobley sono penultimi in NBA), giocano di più a metà campo, e gli avversari tirano da tre punti sempre con altissime percentuali (la terza peggiore in NBA finora). Anche il numero di passaggi effettuati a partita è calato sensibilmente, passando da 297.8 (quinto dato più alto lo scorso anno) a 261.7 (terz’ultimo dato di questa stagione), quasi 40 in meno. Come hanno fatto allora a diventare la quarta squadra di sempre a cominciare una stagione con 15 vittorie consecutive?
UNA STRAORDINARIA PARTENZA AL TIRO
Un motivo molto banale è che stanno segnando qualsiasi cosa e da ogni posizione, specialmente da lontano. I Cavs hanno di gran lunga la percentuale al tiro più alta della lega e, se confermassero questi dati fino al termine della stagione, si giocherebbero il primato nella storia della NBA sotto diverse voci statistiche legate all’efficienza offensiva. Tirano dalla media distanza col 48% (terzi) e soprattutto col 42.1% di squadra da tre punti, primissimi nella lega (dati Cleaning The Glass). C’è sicuramente una componente di fortuna destinata prima o poi a normalizzarsi, ma è anche vero che la qualità delle conclusioni dei Cavs è quasi sempre altissima: in base ai tiri che si prendono dovrebbero tirare col 55.8% effettivo dal campo, di poco dietro al 56% dei Portland Trail Blazers (che si prendono i tiri “giusti” ma poi li sbagliano tutti, a differenza dei Cavs che tirano con oltre il 61% effettivo).
Il dato dei passaggi totali in netto calo rispetto a un anno fa va poi analizzato un po’ più in profondità. Come ha notato recentemente anche Draymond Green dopo averci perso malamente, la palla si muove velocissima nell’attacco dei Cavs, e quando riesci a mandare sistematicamente in crisi la difesa avversaria, bastano anche solo uno o due passaggi in un’azione per procurarsi un tiro ad alta percentuale, specialmente se attacchi tanto con il pallone tra le mani come fanno i Cavs (quarti per penetrazioni a partita) o tagli con i tempi giusti come insegnato da Atkinson per creare spazi e linee di passaggio (sono secondi per efficienza offensiva in situazione di taglio). Passarsi il pallone tanto per passarselo non è necessariamente sinonimo di un buon attacco.
Green ha notato anche come in difesa cerchino sempre di spingere gli avversari verso i lunghi Mobley e Allen: i Cavs sono la quarta miglior squadra a protezione del ferro di tutta la NBA.
Uno dei motivi che ha spinto Atkinson ad accettare il posto da capo-allenatore a Cleveland è anche la convinzione che il roster fosse molto più profondo di quanto si pensasse in giro per la NBA. Aveva già allenato in passato Allen e Caris LeVert a Brooklyn e aveva intuito che Ty Jerome potesse diventare un giocatore NBA avendolo avuto a Golden State, e ha ristrutturato la sua rotazione per permettere a tutti di avere un ruolo di rilievo, responsabilizzando i suoi giocatori.
Mitchell, Mobley, Allen e Garland giocano più di tutti, ovviamente, ma hanno minutaggi compresi tra i 30 e i 31 minuti, ben lontani dagli sforzi richiesti da Bickerstaff, specialmente alle guardie. Dietro di loro ci sono ben sei giocatori che rimangono in campo per almeno 17 minuti, e non è ancora stato schierato Strus: una rotazione così allargata permette a Atkinson di avere sempre tutti al massimo della freschezza, e i giocatori stessi sanno di poter dare quel qualcosa in più in termini di sforzo fisico e impegno perché alle loro spalle c’è un compagno pronto a subentrare. La pressione sulla palla esercitata dai Cavs è spesso di ottimo livello proprio per questo motivo, e non a caso sono sesti per palle recuperate.
È un ragionamento che sta facendo le fortune anche dei Golden State Warriors a Ovest e che potrebbe rappresentare un trend interessante da seguire nelle prossime stagioni, in cui sempre più squadre potrebbero costruire roster profondi ed equilibrati (buoni anche per fare i conti con il temibile second apron) invece di strutturazioni con due o tre stelle e attorno pochi giocatori in grado di tenere il campo. Certo, non sempre funziona così bene che anche un quintetto di sole riserve come quello formato da Ty Jerome, Sam Merrill, Caris LeVert, Dean Wade e Georges Niang è stato capace di ribaltare una partita NBA come quella che i Cavs hanno vinto a Chicago la scorsa settimana, ma permette sempre di pescare un protagonista diverso ogni sera.
Uno dei cambiamenti più grandi è stata la maturazione fisica prima ancora che tecnica di Evan Mobley, ma è un argomento che tratteremo approfonditamente un altro giorno.
COSA HA DIMOSTRATO LA STRISCIA DI 15 VITTORIE
I Cavs non continueranno a giocare così bene e soprattutto a tirare così bene per sempre, perché è impossibile. E per quanto il loro inizio di stagione sia stato storico, non toglie del tutto i dubbi sui Big Four in situazione di playoff, dove comunque la loro convivenza verrà messa maggiormente a dura prova da squadre pronte a evidenziarne i difetti sia in attacco che in difesa. Ed è sicuramente un tema che abbiano avuto un inizio del genere in una Eastern Conference in cui basta davvero poco per ritrovarsi ai piani alti, visto che poche squadre hanno anche solo un record al 50%.
La sfida persa ieri notte contro i Boston Celtics ha evidenziato alcuni difetti che potrebbero rivelarsi fatali, per quanto un ko in casa dei campioni in carica sia più che comprensibile — a maggior ragione senza poter contare su LeVert, Okoro, Wade e Strus fuori per infortunio e in una serata in cui i Celtics hanno tirato col 54% da tre. Cleveland ha sempre in campo almeno un cattivo difensore, o quantomeno un esterno di bassa statura che le squadre strutturate come i Celtics sono bravissime a isolare e attaccare incessantemente, costringendo a portare raddoppi e liberando così spazio sul perimetro per le triple. In più di un’occasione nel finale poi Atkinson è stato costretto a schierare solamente uno tra Mobley e Allen per potersi accoppiare meglio con gli avversari, pagando anche a caro prezzo l’assenza di Okoro da poter schierare su Tatum e Brown che hanno potuto attaccare il pitturato senza trovare un’opposizione fisica degna di questo nome.
Sono difetti normali: nessuna squadra in questa epoca della NBA è perfetta, il che è un bene per la competitività e un male per il confronto con le grandi dinastie del passato. Quello che è sicuro è che i Cavs anche nella sconfitta di ieri notte hanno dimostrato spirito e voglia di competere, rimettendo in discussione una gara in cui erano finiti sotto anche di 21 lunghezze a inizio ripresa, dando un segnale forte ai Celtics e al resto della lega: la striscia storica non è stata casuale, e tutti dovranno fare i conti con loro nonostante nessuno pensasse che potessero competere per il titolo.