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I Cleveland Cavaliers possono vincere l'anello?
26 mar 2025
La squadra di Atkinson è la sorpresa della stagione, ma i dubbi per la postseason rimangono.
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14 min
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IMAGO / UPI Photo
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Sembra trascorsa una vita da quando LeBron James ha urlato con voce rotta «Cleveland, this is for you!» dopo l'incredibile vittoria del titolo nel 2016. Era il primo e unico anello dei Cavaliers dal loro ingresso in NBA nel 1970. Da quel giorno numerose stagioni sono passate nell’anonimato post-LeBron, ma questa sembra differente. Koby Altman, eletto President of Basketball Operations nel 2022 ma General Manager dal 2017, ha sfruttato ciascuna delle 159 sconfitte (su 219 partite) accumulate fra 2018 e 2022, senza lasciare nulla al caso. Non solo costruendo un solido, giovane nucleo di gioielli pescati al Draft e cresciuti in casa (Darius Garland, Isaac Okoro ed Evan Mobley) ma anche muovendosi aggressivamente sul mercato al momento giusto. E così sono arrivati il lungo Jarrett Allen e soprattutto Donovan Mitchell, una mossa a sorpresa, visto che un grande mercato come New York, di cui il giocatore è nativo, sembrava averlo in pugno.

Quella che sembrava un'acquisizione a breve termine si è rivelato essere invece la pietra angolare di un progetto vincente, a tal punto che oggi i Cavs hanno il miglior record a Est, e solo fino a qualche giorno fa avevano il miglior record di tutta la NBA, anche meglio di OKC. Se al suo arrivo era davvero improbabile pensarlo, Mitchell ha firmato per un rinnovo potenziale (player option all’ultimo anno) fino al 2028 e la finestra per il titolo è stata definitivamente spalancata. Ma quanto la franchigia dell’Ohio è pronta per vincere l’anello già ora?

I NUMERI DEI CAVS
Se guardiamo i numeri, la stagione dei Cavaliers è più che mai unica. Cleveland è diventata la settima squadra della storia NBA a cominciare una stagione con 56 vittorie, o più, nelle prime 66 partite: quattro delle precedenti sei hanno vinto il titolo, mentre all’asciutto sono rimaste proprio due squadre del 2016, i San Antonio Spurs e i Golden State Warriors (sì, quelli dell’urlo di LeBron dopo il completamento della rimonta in Gara-7). 

A coronare questo avvio fantastico è stata la sedicesima vittoria di fila, striscia più lunga nella storia della franchigia in regular season, che ha superato quella di quindici successi fatta registrare - nemmeno a dirlo - proprio all’inizio di questa stagione. In precedenza, solo quattro squadre hanno completato in una singola annata più di un singolo filotto di 15 o più vittorie di fila: i Bucks nel 1971 e i Lakers nel 2000 hanno vinto il titolo, i Jazz nel 1997 hanno perso alle Finals e gli ultimi in termini cronologici, i Suns del 2007, sono usciti alle Western Conference Semifinals con gli Spurs, futuri campioni NBA.

Il net rating - il margine di vittoria calcolato facendo una differenza tra attacco e difesa proiettata su 100 possessi - dei Cavs entro l’All-Star Game è stato storico: la buona notizia è che sei delle undici squadre con un rendimento uguale o migliore hanno vinto il titolo; la cattiva è che una di quelle con net rating migliore è Oklahoma City del 2024/25, diretta rivale.

E si potrebbe continuare all’infinito con numeri su numeri, come quello delle vittorie entro metà stagione, 35 nel caso di questi Cavaliers, dietro solo a sette squadre nella storia NBA, cinque delle quali arrivate ad alzare il Larry O'Brien Trophy. O, infine, si potrebbe citare l’insieme delle squadre d’élite sulle due metà campo, dal quale sono usciti 44 degli ultimi 45 campioni NBA e nel quale Cleveland rientra, ma in discreta compagnia:

Le squadre con attacco o difesa in top-7, e con nessuna delle due categorie al di fuori della top-18, hanno vinto 44 degli ultimi 45 titoli (dati: Cleaning the Glass).

Oltre ai Cavaliers ad avere un net rating pari o superiore a +9.0 sono gli Oklahoma City Thunder e i Boston Celtics, le due squadre più accreditate per incontrarsi alle Finals. La quarta sono i Rockets, a “solo” +5.5. Per rendere l’idea del livello della competizione di questa stagione, lo scorso anno i Celtics, vincitori del titolo, hanno chiuso la stagione come la sola squadra sopra il +8.0 di net rating, mentre l’anno precedente nemmeno una singola squadra aveva toccato il +7.0. Stando ai numeri, quindi, i Cleveland Cavaliers sono decisamente una contender, senza dubbio fra le prime tre favorite alla vittoria del titolo. Ma questa è solo aritmetica.

PERCHÉ POSSONO VINCERE
I numeri eccellenti sono lo specchio della gestione di coach Kenny Atkinson. Il cambiamento più grande risiede nel ritmo partita, calcolabile tramite il pace, una stima del numero di possessi gestiti da una squadra proiettati su 48 minuti. I Cavaliers hanno l’ottavo più alto della Lega, correndo a ogni occasione buona, un vero e proprio cambio di marcia rispetto a quanto visto nella precedente gestione Bickerstaff - quattro stagioni in cui la squadra è sempre stata tra le ultime dieci per ritmo, toccando il fondo nel 2022/23 con l’ultimo posto nella Lega.

Spesso le difese avversarie si trovano talmente sopraffatte dal ritmo dei Cavs da non capire come difendersi. La squadra è prima in assoluto per frequenza di tiro presi tra i 18 e i 15 secondi sul cronometro, affidandosi stabilmente al lavoro di due creatori dal palleggio di livello come Darius Garland e Donovan Mitchell. Non si tratta solo di semplici penetra e scarica, che comunque permettono spesso di far collassare la difesa aprendo soprattutto gli angoli, ma anche di forzare accoppiamenti scomodi per gli avversari.

In questo Garland è un maestro, capace di manipolare agilmente la difesa sfruttando i double drag (i doppi blocchi in fase di semi-transizione) e il pick and roll, in tutte le sue varianti. Cleveland quasi “ne abusa”, essendo al primissimo posto per frequenza e al quarto per produzione, con 0.99 punti per possesso su 24.8 azioni di questo genere a partita. Le difese, a causa della duplice minaccia rappresentata dal pull up della guardia dei Cavs e dalla rapidità stordente con cui l’azione avviene, spesso si affidano ai cambi o semplicemente provano a schierarsi come possono, non avendo tempo di elaborare il mismatch. Chiave, questa, che potrebbe tornare utile in un eventuale serie contro i Boston Celtics, sulla carta principale antagonista nella corsa alla finale di Conference.

Ad aprirsi è in primis la ricezione del lungo sotto canestro, spesso favorita da un ulteriore blocco lontano dalla palla dell’esterno che sale (cosiddetto “Spain” pick&roll), ma anche il passaggio del tiratore in ala, se la difesa riconosce tardivamente il mismatch interno.

Il pace e gli attacchi immediati, favoriti da un movimento costante sul lato debole che coinvolge tutti e cinque i giocatori, hanno trasformato quello dei Cavaliers nel migliore attacco della Lega, primo per produzione contro le difese schierate su un volume altissimo (80.5% dell’attacco di squadra, 7° nella Lega) e quinto per punti aggiunti su 100 possessi in fase di transizione, una produzione efficiente ma con una frequenza piuttosto bassa. In parole povere vuol dire che Cleveland corre, ma lo fa in maniera ponderata e razionale, alimentando il ritmo offensivo senza però forzare.

Questo gioco è snervante per gli avversari: in difesa vengono investiti costantemente dall’equivalente di una valanga - a proposito, la franchigia ha deciso di depositare il marchio “Cavalanche” - mentre in attacco devono stare attenti a non cadere nell’errore di seguire il flusso di Cleveland, forzando tiri o passaggi avventati in transizione una volta recuperato il pallone. I loro avversari provano spesso a correre da rimbalzo ma aggiungono solo 0.5 punti su 100 possessi, una miseria.

Se a questa equazione si aggiunge l’abilità in uno contro uno di Donovan Mitchell, e del backcourt in generale, di punire la difesa sia con il pull up, sia di attaccare i recuperi troppo aggressivi, si capisce come Cleveland riesce a costruire un attacco funzionale anche in situazioni di gioco rotto. Il che non significa isolamento puro, rigettato dalla squadra, ma una capacità di chi ha il pallone di crearsi il proprio tiro dal palleggio al bisogno, con una distribuzione eccellente di conclusioni assistite e non.

Con questa rapidità nel mettere i piedi in area e creare buoni tiri, Mitchell diventa un rebus complicato da risolvere per le difese, poste costantemente sotto pressione dai blocchi - a volte anche portati dagli esterni, con dei semplici scivolamenti volti a forzare il mismatch sul perimetro. I soliti Boston Celtics non hanno ancora trovato una soluzione alle folate dell’ex Utah Jazz: l’exploit da 41 punti nell’unico incontro fra le squadre dopo la trade deadline può essere giustificato dalle assenze di Jrue Holiday e Kristaps Porzingis, ma non cancella le precedenti prestazioni da 31, 35 e 35 punti. E non solo, dato che i 30.8 punti di media mantenuti da Mitchell contro i biancoverdi su 20 partite in carriera sono la media più alta per un avversario nella storia dei Celtics, appena sopra i 30.7 di Michael Jordan e i 29.9 di Luka Dončić.

L’archetipo di Mitchell, cioè una guardia capace di segnare dal palleggio, quanto nel mettere pressione al ferro e nel chiudere di tocco nel range del floater, è sofferto da Boston, sestultima in NBA per punti concessi alle guardie in stagione. Mentre Garland, al contrario, fatica perché un po’ troppo sottodimensionato per essere impattante contro la difesa di Boston.

In top-10 per media punti contro i Celtics in stagione - su un sample di più di una partita - figurano, oltre a Spida, LaMelo Ball, Shai Gilgeous-Alexander, Tyrese Maxey, Jalen Brunson, Zach LaVine e Damian Lillard.

Dell’impatto di Evan Mobley in attacco e difesa abbiamo già scritto, e non c’è dubbio che sia lui il segreto neanche troppo nascosto di questa stagione eccellente dei Cavs nelle due metà campo. Più interessante è vedere cosa può portare l'aggiunta alla trade deadline di De’Andre Hunter. In meno di due mesi l’ex Atlanta si è adattato al nuovo sistema come se nulla fosse, un impatto tutt’altro che banale anche dal punto di vista mentale. Hunter, dopo anni di livello discreto ma mai in linea con le aspettative che c’erano su di lui, sembrava aver trovato la propria dimensione ad Atlanta in questa stagione. Per giocatori di ruolo in stato di grazia, la transizione a stagione in corso non è mai semplice, anche perché nel suo caso si è trattato di un bel cambiamento: da una squadra mediocre a una nel bel mezzo di una stagione da titolo. Hunter però non solo si è adattato, ma ha elevato la propria efficienza, toccando un irreale 47.7% su 4.9 triple tentate a partita. I 14.2 punti di media sono un “calo” rispetto al periodo con gli Hawks dovuto al ruolo in uscita dalla panchina e ai circa quattro minuti di gioco in meno.

Il vero vantaggio di averlo aggiunto a roster è però che si tratta di un’ala gigantesca, da 203 centimetri di altezza e con un'apertura alare di 218 centimetri, utilissima sulle due metà campo. In primis, è un corpo perfetto da spendere su un giocatore come Shai Gilgeous-Alexander e soprattutto sulle numerose ali di Boston. Nell’unico incontro in cui era presente, Hunter si è occupato principalmente di Jayson Tatum, tenendolo a 1 su 5 dal campo e forzando anche una palla persa, mentre nella passata stagione, in quattro partite contro i Celtics, ha marcato Jaylen Brown più di chiunque altro, con buoni risultati (6/14 dal campo).

In fase offensiva, invece, viene sfruttato prevalentemente come tiratore in sugli scarichi, dato che 3.6 delle 4.8 triple tentate a partita arrivino da questa situazione - convertite, tra l’altro, con il 50.0%. Le sue dimensioni gli consentono anche di segnare sopra gli avversari a piacimento, avendo un punto di rilascio molto alto, tanto che in situazioni di pull up tocca il 42.1%. Ma la ciliegina sulla torta è un’altra.

De’Andre Hunter è fra i migliori in NBA per rapporto fra tiri liberi e tocchi di palla.

Quello di Hunter è un nomen omen: si tratta infatti di un grande cacciatore di mismatch, dote che lo porta a girare nei dintorni dell’ottantacinquesimo percentile per falli subiti sia su tiro che non, il migliore di Cleveland dopo Jarrett Allen. La sua dote è quella di saper mettere palla a terra sia per attaccare il vantaggio già creato, sia per esplorare i cattivi accoppiamenti avversari dal palleggio, che si tratti di un malcapitato lungo finito sul perimetro o di una ala non preparata a quei chili e quella stazza. In un sistema come quello di Cleveland, che forza i mismatch con un attacco rapido, ma mirato, non è un mistero che si sia inserito alla perfezione - non che ci siano mai stati dubbi.

PERCHÉ NON POSSONO VINCERE
Per far funzionare il giocattolo offensivo costruito da Atkinson servono due cose: ritmo e alta frequenza di tiri da tre punti. Il primo è favorito enormemente dalla spinta del backcourt e soprattutto di Darius Garland, che non a caso ha anche l’on/off offensivo - punti segnati in più dalla squadra quando in campo rispetto a quando è fuori - più alto di squadra, un eccellente +3.1 per 100 possessi. Il problema è che, fra chi gioca più minuti, è anche il peggiore on/off di squadra nella metà campo difensiva, provocando +4.5 punti avversari per 100 possessi (sedicesimo percentile).

Il motivo è la statura limitata di Garland, perfetta da attaccare per ali dinamiche come - e si torna sempre lì - quelle di Boston. L’ultimo incontro fra le squadre ne è stato un esempio lampante, con un -17 di plus/minus accumulato dal giocatore dei Cavs, una metrica non sempre accuratissima ma che in questo caso rispecchia la realtà: i Celtics lo hanno cercato, e hanno fatto bene.

L’attacco 5-fuori dei Celtics non lascia spazio agli aiuti difensivi, lasciando spazio a Brown e Tatum non solo di mangiare in testa a Garland, ma anche di catturare eventuali rimbalzi offensivi in un’area sguarnita, o comunque meno popolata del solito.

Per quanto riguarda i playoff del giocatore, la serie contro i Celtics dello scorso anno non è valutabile, e in generale la sua intera stagione, dato che un tremendo infortunio alla mandibola subito a dicembre 2023 ne ha influenzato il rendimento, costringendolo a un’operazione e a perdere circa il 10% della propria massa corporea. La versione di Garland vista sin qui è molto più brillante e capace di tenere botta anche difensivamente, solo non abbastanza contro ali giganti come Brown e Tatum (quest’ultimo, in realtà, contenuto meglio in stagione) e altre che troverà nei playoff.

Tenendolo fuori dalla partita, però, i Cavaliers perderebbero il loro metronomo, nonché principale distributore palla in mano, e questo potrebbe essere un problema anche in fase di creazione di tiri ad alta qualità. Aspetto dal quale Cleveland dipende, trattandosi della quarta squadra NBA per frequenza di tentativi da tre punti e della prima in assoluto per percentuali di conversione. Quando i tiri non entrano, non si vince: quattro delle quindici sconfitte stagionali sono arrivate proprio quando la squadra ha chiuso sotto il 42% dal campo, non a caso in quattro delle sole otto partite in cui non è stato raggiunto il 30% da fuori. Sia chiaro, chiunque fatica a vincere se la palla non entra nel cesto, ma per arrivare all’anello serve saper limitare i danni anche e soprattutto nei momenti di difficoltà, trovando strategie alternative.

E qui si arriva a Donovan Mitchell, un primo violino che può trasformarsi in una superstar ai playoff in fase realizzativa, ma che ha uno stile di gioco pur sempre dipendente in gran parte dal tiro in sospensione, non il massimo in uno sport sempre più basato sull’efficienza e ovviamente sottoposto a varianza. Quella varianza che nella recente striscia di quattro sconfitte consecutive ha portato Spida a tirare 6 su 37 da tre punti per un 29.6% complessivo dal campo, con esito disastroso per la squadra.

La buona notizia è che Spida non ha mai tirato così male prima di questa recente span, la cattiva è che è arrivato uno 0 su 5 da fuori anche contro i Jazz.

Blackout di questo tipo in una serie non sono contemplati e, per quanto Mitchell negli anni si sia affermato come un playoff performer di altissimo livello - basti ricordare la sua ballata (e di Jamal Murray) nella bolla - in questo caso si parla di prestazioni continuative in una corsa al titolo. L’ex Jazz, per un motivo o per un altro, non è mai stato in squadre che hanno superato il secondo turno, e anche questo è un aspetto da non sottovalutare.

Dell’intero roster di Cleveland, solo Max Strus ha presenze alle Conference Finals e alle Finals, raggiunte da titolare con i Miami Heat rispettivamente nel 2022 e 2023. Per il resto, proprio perché buona parte del nucleo è stata cresciuta “in casa” e l’età media dei giocatori chiave è ancora bassa, l’esperienza in uno stadio avanzato dei playoff è inesistente. A differenza, per esempio, dei Celtics, i quali hanno in Tatum, Brown, Holiday e Horford dei veri e propri esperti del mestiere - i primi due già nei pressi della top-10 dello storico dei Celtics per presenze in post-season.

IN CONCLUSIONE
L’inesperienza ai playoff è sicuramente il motivo che più fa pensare che questi Cavaliers non possano fare partita pari con Boston e OKC, ma la stagione regolare ci ha detto che non è proprio così. Spesso bistrattata, nelle 82 partite stagionali ci sono momenti più o meno competitivi, incastri più o meno indicativi, ma alla fine rispecchiano le ambizioni e il valore delle squadre. Non si battono casualmente i Thunder e i Celtics la metà delle volte. I discorsi che inseguivano i Cavs sull'impossibilità di trovare le giuste spaziature con Mobley e Allen insieme sono stati messi a tacere dal lavoro di Atkinson e del suo staff. “Spaziature” non è un termine privo di significato, un involucro vuoto dal quale una squadra si ritrova passivamente avvolta, ma è un concetto malleabile e dinamico, indipendente dal semplice “sa tirare - non sa tirare” relativo al singolo giocatore. E, anche in questo caso, non si arriva a questo livello casualmente, ma servono attenzione ai dettagli, capacità di comunicazione e soprattutto di ricezione. Tutti meriti impossibili da non riconoscere ai Cleveland Cavaliers. L’esperienza ai playoff, per il resto, si può fare solo partecipando e non esiste un corso su come arrivare fino in fondo. Bisogna provare e riprovare nel modo migliore possibile.


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