Gli spalti già vuoti. I boo dei pochi rimasti. E lo speaker che chiede cortesemente di non gettare oggetti in campo. A dominare la scena sono le grida di un manipolo di tifosi degli Atlanta Hawks. Salutano Trae Young dall’anello centrale, marcati a vista dagli agenti di sicurezza. Spavaldi e increduli; così improbabili da sembrare, per un attimo, un club di ultras in trasferta in una qualsiasi domenica pomeriggio.
È la colonna sonora dello psicodramma andato in scena ieri notte al Wells Fargo Center di Philadelphia. Una folle gara-5, buttata via dai Sixers con un collasso di quelli memorabili anche per gli standard di una città che ne ha viste di tutti i colori, e sembra destinata a vederne ancora. Avanti di 26 punti a metà ripresa, e ancora di 18 dopo tre quarti, i Sixers si divorano una partita praticamente in ghiaccio, ritrovandosi sull’orlo del baratro. Trionfano invece gli Hawks, esanimi per tre quarti di partita, salvo poi risuscitare quando nessuno se l’aspettava. Una rimonta propiziata dai canestri di Lou Williams, entrato in quei momenti di solipsismo cestistico che continuano a renderlo un enigma per tutta la NBA. E poi chiusa dalle prodezze di Trae Young: imbottigliato dalla difesa dei Sixers per i primi tre quarti, prima di salire maestosamente in cattedra nei possessi decisivi.
C’è anche la firma di Danilo Gallinari, in campo durante la rimonta, caparbio nel segnare il tiro dal post basso che porta Atlanta sul +3 con meno di un minuto da giocare. È il massimo vantaggio della partita e l’ultimo canestro del 17-2 di parziale con gli Hawks chiudono la partita. Phila avrebbe ancora la chance di pareggiare, con un tiro di Seth Curry. Almeno in teoria. Ma il clima è così pesante che non ci crede più nessuno. E infatti il tiro finisce lungo, sancendo ufficialmente la fine dell’incubo. O il suo inizio, a seconda dei punti di vista.
Il falso dominio di Philadelphia
E dire che, nel tardo pomeriggio, c’era un clima stranamente piacevole fuori dal Wells Fargo. È tornato il sole, i nubifragi sono passati, e la caldazza estiva ha deciso di prendersi una settimana di riposo, prima di piombare nuovamente sulla città. E così, in attesa della partita, si approfitta delle condizioni favorevoli per timidi accenni di tailgating, in onore alla secolare tradizione che precede le partite di degli Eagles. Niente salsicce e griglie - quelle sono prerogative del football - ma spunta lo stesso qualche sedia da picnic, in mezzo a piccoli assembramenti seduti sull’asfalto, e canotte di Ben Simmons e Julius Erving comodamente svaccate nel bagagliaio dell’auto.
Sono gli ingredienti di un’atmosfera sostanzialmente serena, anche se di motivi per essere agitati per i tifosi dei Sixers ce ne sarebbero, dallo sciagurato secondo tempo di gara-4 al ginocchio di Embiid. Senza dimenticare la concreta possibilità che, se le cose dovessero prendere una brutta piega, questa potrebbe essere l’ultima partita in casa della stagione. Ma la febbre da playoff, anche in una città sportivamente passionale come Philadelphia, va sempre contestualizzata. Sale, vibra, fa tremare i muri del Wells Fargo Center, ma non arriva a intaccare il conforto dei rituali di sempre; quelli che non dipendono dal risultato, e sono stati appena scongelati dopo la lunga pandemia. Almeno fino a che non si alza la palla a due.
https://twitter.com/sixers/status/1405313389761544195
C’era pure Allen Iverson a suonare la campana per gara-5.
L’antifona, del resto, pare quella di una serata tranquilla. Come l’ultima vissuta tra le mura di casa dai Sixers. Philadelphia parte fortissimo, segnando 9 dei primi 10 tiri. Ma quello che è cambiato davvero, rispetto all’ultima uscita, è la reattività dei Sixers. La squadra che due giorni fa era stata “fucking outworked” dall’avversario - parola di Doc Rivers dopo la sirena finale di gara-4 - si presenta in campo con la tensione giusta. Paziente in attacco, organizzata in difesa. E, soprattutto, pronta a chiudere le linee di passaggio e ad avventarsi su ogni palla vagante, battendo regolarmente sul tempo gli Hawks. Ne scaturiscono comodi rimbalzi, agevoli canestri in transizione, oltre a giocate che infiammano la folla. Come il recupero in due tempi di Furkan Korkmaz, che soffia la palla dopo un lungo ballo a cavallo della linea laterale; o Simmons che si butta a pesce su una mischia a rimbalzo difensivo, strappando un fischio arbitrale a favore. Simboli di un atteggiamento radicalmente diverso da quello un po’ supponente di gara-4.
Certo, diventa tutto più facile quando, oltre alla garra, si può contare anche su un Joel Embiid mostruoso, feroce. Quasi imbarazzante per la facilità con cui si prende gioco di Clint Capela e di tutta difesa degli Hawks. Scottato dalla 0/12 nel secondo tempo di gara-4, il camerunense gioca come chi è giustamente arrivato secondo nella corsa all’MVP e non avrebbe rubato nulla se l’avesse vinto. Lasciato in marcatura singola, punisce Capela in tutti i modi possibili: rinculando verso il canestro, tirando in allontanamento, aprendo il fuoco da fuori. Segna i primi 6 tiri della propria partita, chiudendo il primo quarto a quota 17. E, soprattutto non mostra la minima sbavatura a livello emotivo - aspetto sotto cui tanti progressi aveva già fatto vedere nei mesi precedenti di questa stagione. Anzi, riesce a a sfruttare a suo vantaggio ogni situazione sul campo, trasmettendo una sensazione di dominio che va al di là delle sue cifre pur pazzesche. «È la migliore metà di partita che gli ho mai visto giocare. E questo dice molto» dirà Rich Hofmann, firma di The Athletic. E quasi tutti i 20mila del Wells Fargo sarebbero pronti a dargli ragione.
https://twitter.com/sixers/status/1405329468940509193
Eppure sembrava tutto così scritto, portando l’account dei Sixers addirittura a sbadigliare.
L’incredibile rimonta di Atlanta
In quel momento, però, nessuno ha idea di cosa stia per succedere. Soprattutto perché a sparigliare le carte non è una fiammata improvvisa né un episodio particolare, ma una lenta, certosina, impercettibile rimonta degli Hawks che segue lo spartito già eseguito in gara-4. Prima i Sixers accumulano un vantaggio importante ma non incolmabile, poi la panchina prende un parziale che dimezza il suddetto vantaggio. E infine i titolari quando tornano sono fuori ritmo e senza fiducia tanto da non riuscire più a invertire la tendenza.
Dopo tre quarti evanescenti, Lou Williams prende il comando delle operazioni. Un tiro buttandosi indietro. Un altro. Un altro ancora. Philadelphia continua a segnare, di tanto in tanto. I canestri di Curry ed Embiid prolungano l’illusione che, tutto sommato, i padroni di casa abbiano ancora le mani sulla partita. Ma quando Trae si unisce alla mattanza, i Sixers si scoprono in piena emorragia difensiva.
Nei primi tre quarti, l’ex Oklahoma era stato controllato senza troppi problemi, con la visuale dal perimetro chiusa dalle lunghe leve di Ben Simmons - copione fisso da gara-2 a questa parte - e aveva dovuto cercare fortuna in penetrazione, con risultati sporadici. Falli subiti, un paio di pregevoli tiri in corsa, alcune giocate isolate. Ma finendo sempre dove la difesa lo aspettava e senza mai riuscire a comandare il ritmo. Negli ultimi minuti, però, la storia è completamente diversa. Con Simmons senza più ritmo a causa delle continue sostituzioni — unico modo per proteggerlo dal fallo sistematico — il folletto torna ai fasti di gara-1, prendendo saldamente il comando delle operazioni. Sembra telecomandare la palla, mentre riesce finalmente ad arrivare continuamente al ferro, sbilanciando la difesa. E firmando i 7 punti che indirizzano definitivamente la contesa.
Prima due meravigliosi canestri in entrata e poi, con grande naturalezza, il fallo da tre tiri liberi sul possesso fondamentale, attirando a sé l’irruenza precipitosa di Matisse Thybulle. Il 3/3 dalla lunetta segna il primo vantaggio di Atlanta in tutta la partita: manca poco più di un minuto. Quello che sulla carta sarebbe pur sempre un finale punto a punto è in realtà già una disfatta annunciata. «La differenza l’ha fatta la nostra difesa. E pure la nostra testa. Abbiamo continuato a eseguire il piano partita. Play the right way è l’unico modo per recuperare partite del genere» dirà Danilo Gallinari alla fine. Trovandosi a un passo dalla prima finale di conference in carriera.
La visione di un disastro da vicino.
Con la stagione in bilico, si aprono così due giorni di fuoco per Doc Rivers. Che si trova a fare i conti, in un colpo solo, con tutti i problemi emersi in questa stagione. A partire dalle improponibili percentuali di Ben Simmons dalla lunetta, che ancora una volta si è ritrovato vittima di un fallo sistematico che ha fatto emozionare i nostalgici del gioco, riportando in auge i tempi dell’Hack-A-Shaq. L’australiano chiude con 4/14, trovandosi a tirare liberi quasi sempre propiziati da falli sistematici, lontani dalla palla e sbagliando 10 tiri liberi. È servito a poco l’incoraggiamento instancabile della folla. Alcuni corti, alcuni lunghi. Un paio proprio storti, segno di un giocatore in evidente confusione. «Se tira così, è evidente che non può essere tenuto in campo» dirà Doc Rivers alla fine della partita, senza troppi giri di parole. Se questo il problema più urgente, non mancano gli altri grattacapi. Come il contributo in attacco della panchina, ancora più allarmante ora che i minuti di Danny Green devono essere presi in carico da altri. O, sarebbe meglio dire, il contributo offensivo di tutti i giocatori non chiamati Embiid (37 punti) o Curry (36), illustrato da un incredibile dato: nessuno, a parte loro due, ha segnato un canestro dal campo nella ripresa, con Tobias Harris e i suoi 113 milioni di dollari rimanenti nei prossimi tre anni fermo a 4 punti e 2/11 al tiro.
A gara-6 mancano meno di 48 ore. La fiducia nel Processo non è mai stata così a dura prova.