Quando si tratta di Steph Curry e delle discussioni che riguardano il suo posto nella storia del gioco, le argomentazioni di chi lo vorrebbe ancora e comunque lontano dai grandi, dalle autentiche leggende, vertono su un assioma avvalorato da una domanda retorica. Curry, sostiene qualcuno, è un “giocatore di sistema”, perfetto per il contesto tecnico e tattico in cui si è trovato ad agire negli ultimi dieci anni, ma che nei momenti in cui quel sistema non funziona è incapace di andare oltre e caricarsi l’intera squadra sulle spalle. La domanda, per l’appunto retorica, che spesso accompagna questo ragionamento diventa quindi: è il sistema degli Warriors ad aver creato Steph Curry oppure il contrario?. Una domanda che, secondo chi la pone, tende più verso la prima versione dei fatti, anche se è completamente diversa da quella più volte fornita in merito alla questione da diretti interessati come Steve Kerr, Bob Myers e praticamente da ogni compagno di squadra passato dalla Baia durante l’ultimo decennio.
Tutti, in vari momenti e in contesti diversi, a precisa domanda su quale fosse il motivo principale dei successi mietuti da Golden State nell’ultimo decennio hanno risposto senza grandi esitazioni: Steph Curry. E se fin qui la testimonianza dei protagonisti in campo non è bastata a convincere gli scettici, forse l’ennesima prova di grandezza andata in scena ieri notte sul parquet del Golden1 Center di Sacramento potrebbe scrivere la parola fine alla legittimità delle titubanze che ancora circondavano la stella degli Warriors.
Un percorso poco lineare
Per Golden State, il percorso che ha portato a una gara-7 da vincere in trasferta, impresa riuscita una sola volta nel 2018 a Houston dall’avvento in panchina di Kerr, è stato poco lineare. Sotto 0-2 per cominciare la serie, situazione mai sperimentata prima nell’era Kerr, gli Warriors erano riusciti a invertire l’inerzia del confronto con tre successi in fila, regalandosi la possibilità di chiudere i conti in casa venerdì notte. Il fattore campo - tutt’altro che trascurabile dopo un’annata chiusa con il 4° peggior record in trasferta della lega davanti solo a perfette macchine da tanking come Pistons, Rockets e Spurs - sembrava premessa ideale per la conclusione della rimonta.
La vittoria netta, perentoria e insindacabile dei Kings in gara-6, invece, lasciava tifosi e addetti ai lavori con la sensazione che fosse arrivato il momento, inevitabile per qualunque dinastia nella storia NBA, dell’incontro fatale con una squadra più giovane, più motivata, pronta a prendersi lo scalpo dei campioni in carica. In fondo, lungo tutta la stagione i ragazzi allenati da Mike Brown avevano dimostrato con i numeri e con i risultati di essere la squadra migliore delle due, dando poi prova della loro consistenza anche in clima playoff. Alla vigilia della sfida decisiva i padroni di casa sembravano avere tutto ciò che serviva per vincere: entusiasmo, talento, disciplina tattica, atletismo e solidità mentale. Ciò che i Kings non avevano, però, era il miglior giocatore della serie.
Coefficiente di difficoltà
È difficile descrivere una partita leggendaria come quella di Steph Curry senza scadere nella retorica, così come è difficile aggiungere qualcosa a immagini che in molti avranno già visto e magari rivisto più volte. E allora, per provare a tracciare i contorni del suo massimo in carriera ai playoff, nonché della miglior prestazione di sempre per punti segnati in una gara-7 nella storia della NBA, occorre forse partire dai numeri.
I 50 punti segnati sono frutto di un talento fuori da qualsiasi logica ma anche di una scelta programmatica ben precisa: per vincere, gli Warriors avevano bisogno che la loro stella accentrasse su di sé la manovra offensiva della squadra. Tant’è vero che alla vigilia si era vociferato addirittura di un Curry pronto a giocare tutti e i 48 minuti filati, senza mai riprendere fiato, se si fosse reso necessario (eventualità confermata anche dalla proposta di Kerr di utilizzare i timeout al solo scopo di far riposare la sua stella).
Steph ha finito per giocarne poco meno di 38, ma solo in virtù del fatto che l’esito della partita appariva già segnato in avvio del quarto periodo. In quei 38 minuti si è preso 38 tiri, quasi il doppio della media in regular season (20.2) e anche di quella tenuta nel complesso della serie (24.6). Anche il suo Usage Rate (42.3%) è risultato decisamente poco in linea con la media del resto della stagione (29.7%), a ulteriore testimonianza della scelta palese di gestire molto più del solito in prima persona i possessi offensivi. E, infine, a proposito della domanda retorica di cui sopra, il 65% dei canestri segnati da Curry in gara-7 sono arrivati senza assistenza da parte di compagni, in pressoché totale autonomia. Il coefficiente di difficoltà dei tiri presi non è sempre stato ideale, ammesso che esista un coefficiente di difficoltà eccessivo per Curry, ma il risultato è stato quasi sempre quello desiderato.
In gara-6 Terance Davis aveva cambiato la partita con la sua aggressività, in gara-7 Curry ci ha tenuto a rimetterlo al suo posto.
Al di là del dispiego della ormai nota abilità quasi circense di trattare la palla e di farla finire nel canestro a prescindere dalle condizioni imposte e dagli sforzi degli avversari, Curry si è dimostrato letale nello sfruttare due difetti che da sempre, in maniera quasi inevitabile, affliggono le difese che provano a contenerlo. In primis, Sacramento, preoccupata di presidiare il perimetro per non lasciare a Steph e agli altri cecchini di casa Warriors dei tiri aperti, ha finito per concedere spesso e volentieri il via libera verso il proprio ferro. E, nei casi in cui dopo i cambi difensivi a rimanere accoppiato con Curry era un marcatore dalla limitata mobilità laterale, questo ha significato un appoggio tutto sommato semplice al tabellone.
Una volta superato l’incolpevole Keegan Murray, puntato più del solito in gara-7, non ci sono più ostacoli tra Steph e il canestro.
Poi, come spesso accaduto in passato, il peso fisico e mentale richiesto dallo sforzo di rincorrere Curry in lungo e in largo per il campo ha generato cali di attenzione da parte della difesa avversaria, passaggi a vuoto di cui Steph ha approfittato senza alcuna esitazione per affondare il colpo.
Attimo di distrazione letale e tripla di Curry: dove l’avevamo già visto?
Nei Kings è quindi subentrato quel senso di frustrazione già sperimentato da molte altre squadre di fronte a sequenze difensive quasi perfette e ciò nonostante concluse con un canestro, spesso dalla lunga o lunghissima distanza, totalmente senza senso. Sono i momenti in cui l’ineluttabilità di Curry si manifesta in tutta la sua evidenza, e per chi si trova sull’altra sponda della contesa non è affatto facile accettarla e avere la forza mentale di rimanere dentro la partita senza avere voglia di inveire contro il destino avverso.
Possesso difensivo sui cui i Kings non hanno nulla da rimproverarsi, ma che si conclude con quel tipo di tripla che ti fa alzare le braccia al cielo
Curry ha chiuso la partita con il 52.6% dal campo e il 39% da tre, sbagliando perfino due liberi consecutivi. Si tratta di percentuali non eccelse per le abitudini della casa, ma che in relazione al volume di tiri presi e il peso specifico della partita rimangono incredibili. Steph ha così compensato la serataccia dei compagni di reparto solitamente più prolifici (il trio Thompson-Wiggins-Poole ha tirato 12/44 dal campo) e, accompagnato da un sontuoso Kevon Looney da 21 rimbalzi di cui 10 in attacco, ha guidato i suoi - anche con un discorso alla vigilia raccontato con dettagli epici da Draymond Green e già ribattezzato come “il migliore della sua carriera” - a una vittoria tutt’altro che facile o scontata, specie a sole 36 ore di distanza da gara-6.
Eppure, il dato statistico forse più significativo della serata è nella singola palla persa, in controtendenza rispetto anche qui alle abitudini della casa, al resto della serie (3.3) e a recenti errori clamorosi che sarebbero potuti costare carissimi agli Warriors, a testimonianza del livello di concentrazione raggiunto per questa partita. Infine, sopra ogni altra cosa, a lasciare a bocca aperta è stata ancora una volta la capacità di Curry di padroneggiare l’andamento emotivo della gara, mettendo in mostra un dominio mentale che a tratti, seppur con le dovute differenze, ricorda quello di Michael Jordan. In questo senso, forzando un po' la mano, si potrebbe dire che il momento decisivo di gara-7 non sia stato rappresentato da uno dei tanti canestri impossibili o dal parziale con cui Steph e gli Warriors hanno preso possesso della partita a cavallo tra terzo e quarto quarto, quanto dall’espressione di Curry dopo la tripla del 45-47 a metà del secondo.
Uno sguardo, ripreso dalle telecamere di ABC, che non promette niente di buono per Sacramento e per i suoi tifosi.
Un’altra pagina, forse non l’ultima
Esistono pochi dubbi sul fatto che Golden State avesse bisogno di una prestazione di questo tipo da parte di Curry per superare l’ostacolo rappresentato dai Sacramento Kings, mentre ne rimangono parecchi a proposito della fragilità complessiva di squadra. Anche perché il prossimo, di ostacolo, sarà piuttosto ingombrante e avrà le fattezze di un vecchio rivale che, dopo qualche amarezza di troppo, sembra aver ritrovato attorno a sé il supporting cast adatto per sognare in grande.
L’incrocio con James e i Los Angeles Lakers è forse quanto di più avvincente si potesse chiedere per un secondo turno di playoff. In attesa della prima palla a due tra Steph e LeBron, di nuovo uno contro l’altro ai playoff a cinque anni di distanza dall’ultima volta, vale la pena di gustarsi ogni momento di una nottata che è già negli annali della NBA. Perché sì, Steph Curry l’ha fatto ancora: ha scritto un’altra pagina della storia del gioco e potrebbe non essere l’ultima.