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Daryl Morey deve salvare i Sixers
06 nov 2020
Il nuovo capo della dirigenza di Philadelphia trova una squadra disfunzionale.
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11 min
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In un’apparizione durante uno dei podcast seguiti dai tifosi più accaniti dei Philadelphia 76ers, quando i due presentatori lo hanno annunciato come uno dei padri spirituali del Processo, lo scorso luglio anche Daryl Morey ha risposto di sentirsi in qualche modo così. Era ovviamente una risposta di cortesia, di un personaggio che è riuscito a creare attorno a sé un’aura magica da santone, anche attraverso una massiccia presenza sui media tradizionali e social. Ma è anche una risposta onesta, perché poche personalità hanno avuto un impatto - per quanto di riflesso - sulla storia recente dei 76ers quanto lui. Non fosse altro perché è stato il padre putativo di Sam Hinkie, l’architetto del Process.

E il collegamento tra i due è inevitabile, visto che insieme - e con altri dirigenti diventati GM come Rafael Stone (erede di Morey ai Rockets), Monte McNair (Sacramento) e Gersson Rosas (Minnesota) - hanno lavorato a Houston modellando una franchigia vincente basata sull’analisi ossessiva delle statistiche avanzate e ribaltando molti dei dogmi sui quali si poggiava l’NBA moderna. Poi Hinkie è andato a Philadelphia per premere il pulsantone rosso dell’autodistruzione controllata e innescare la reazione a catena che ha portato i Sixers due talenti cristallini come Joel Embiid e Ben Simmons (oltre a tanti giocatori di culto e altri che non scenderanno mai più su un campo NBA), mentre Morey ha sfiorato un titolo andando a sbattere contro una delle squadre più forti di sempre e 27 ferri consecutivi.

Ora Sam Hinkie è da qualche parte in California a caccia di start-up in cui investire, mentre il suo vecchio mentore ha preso il suo posto alla guida dei Philadelphia 76ers, firmando un contratto da cinque anni per essere il nuovo President of Basketball Operations. Un avvicendamento poetico e allo stesso tempo pragmatico, che riporta Philadelphia sul sentiero iniziale del loro percorso, abbandonato con l'allontanamento di Hinkie e l’arrivo ai posti di comando dei Colangelo padre e figlio.

Una volta che i Sixers hanno cambiato guida hanno perso quella calma che Hinkie predicava nella sua fluviale lettera di dimissioni, iniziando freneticamente a cercare la via più veloce per arrivare al titolo. Una strategia che gli si è presto ritorta contro, incatenando le aspettative della squadra a un roster disfunzionale e a contratti che hanno la forma di blocchi di cemento con le fattezze di Tobias Harris e Al Horford. E dopo la brutta eliminazione per mano dei sempiterni rivali Boston Celtics al primo turno dei playoff della bolla, la dirigenza ha optato per un ulteriore ribaltone - affidandosi a questo turno però a nomi di tutto rispetto e dal comprovato valore.

La conferenza stampa con Morey e Rivers.

L’eredità di Morey a Houston

«È un po’ come se i Sixers avessero sposato la sorella più grande della propria ex moglie» ha scherzato Pablo Torre, conduttore del podcast ESPN Daily, in una rarissima conversazione pubblica con Sam Hinkie uscita la scorsa settimana subito dopo le prime conferme sui contatti tra l’ex GM degli Houston Rockets e i Philadelphia 76ers. Ed in effetti, per quanto le storie personali e professionali dei due siano intrecciate, tra il profilo di Hinkie e quello di Morey c’è una grossa distanza in termini di esperienza e risultati ottenuti lungo la rispettiva carriera in NBA. Se per Hinkie l’incarico ai Sixers fu per lui il primo (e molto probabilmente l’ultimo, almeno per quello che ritiene lui) a quel livello, Morey è stato uno dei GM più vincenti nella storia recente e viene da 13 stagioni nelle quali ha portato Houston ad avere un rendimento tra i migliori in NBA.

I Rockets hanno fatto segnare il secondo miglior record della lega durante la sua permanenza in Texas, dietro solo agli imprendibili San Antonio Spurs, e sono andati ai playoff in ogni stagione dopo aver acquisito James Harden da OKC. E sono stati gli unici a portare a gara-7 i Golden State Warriors di Curry e Durant, in quella che rimarrà una delle sliding doors più importanti della NBA contemporanea. Se il quadricipite di Chris Paul non avesse giocato un brutto scherzetto, se Houston non avesse dimenticato come si tira da tre o se Golden State non avesse avuto Kevin Durant, probabilmente avremo tutta un’altra considerazione di quegli Houston Rockets e della loro pallacanestro.

Se quella versione di Houston con Harden e Paul fosse davvero riuscita davvero a scardinare le gerarchie della lega non ci sarebbero riusciti solo sul campo, ma anche tra le scrivanie. Infatti i Rockets nell’ultimo decennio sono stati di gran lunga coloro i quali hanno speso meno per allestire una contender, visto la ormai nota ritrosia della proprietà a sconfinare nella luxury tax, una prerogativa quasi automatica per qualsiasi squadra voglia realmente provare a vincere il titolo. In questo decennio i Rockets sono andati in tassa di lusso in una sola stagione, mentre i Golden State Warriors hanno speso quasi 50 milioni di dollari in tasse negli ultimi cinque anni e anche gli Oklahoma City Thunder, la squadra che ha dovuto cedere James Harden per paura delle ripercussioni economiche a lungo termine, hanno pagato quasi 35 milioni per tenere Enes Kanter.

In una situazione economica così risicata, e avendo a libro paga due superstar che da sole si mangiavano più del 60% del cap, l’abilità di Morey è stata quella di lavorare certosinamente sui pezzi per completare il mosaico. Morey ha fatto i salti mortali per rendere competitiva ai più alti livelli una franchigia così restia a spendere, ha avuto l’abilità di puntare su Harden quando nessun altro intravedeva in lui un potenziale MVP ed è stato capace di costruirgli attorno un contesto vincente. Riesumando giocatori che erano finiti nel dimenticatoio, promesse mai mantenute e mezzi sconosciuti tirati fuori dalla D-League, è riuscito a cucire dei supporting cast a bassissimo costo in grado di massimizzare il talento di Harden evolvendo sempre più il roster fino alla distopia di questa stagione, di una squadra interamente sotto i due metri. Il punto d’arrivo di una rincorsa affannosa, quasi donchisciottesca, che alla fine è franata sotto i colpi della realtà.

D’altronde mantenere così a lungo aperta la propria finestra in NBA non è la norma ma l’eccezione, e le continue scommesse che ha dovuto accettare pur di mantenere in piedi il progetto tecnico di Houston alla fine hanno presentato il conto.

La rivoluzione dei Sixers fuori dal campo

Per sua fortuna la franchigia di Philadelphia non si è mai fatti troppi problemi a spendere, a volte anche con una certa nonchalance, e lo ha immediatamente dimostrato con un contratto da 10 milioni l’anno proprio al loro nuovo capo della dirigenza. Una scelta quasi d’istinto, una volta che Morey si è liberato da Houston, e che arriva dopo quella sull’allenatore, Doc Rivers. Una pratica non comune, che il proprietario Josh Harris ha motivato come un’occasione imperdibile una volta che si è presentata la possibilità.

È difficile criticare una mossa del genere - è molto raro poter aggiungere alla propria franchigia professionisti di quel livello - ma allo stesso tempo costringerà Morey a lavorare con uno staff che non ha scelto personalmente. Infatti oltre a Elton Brand, che ha recentemente esteso il suo contratto da General Manager per altri cinque anni, troverà nel Front Office anche Peter Dinwiddie e Prosper Karangwa, entrambi assunti il giorno successivo a quello della dipartita di Morey da Houston. I due erano stati presi per essere i due vice di Brand, rispettivamente delle basketball operation e del player personnel, poi l’arrivo di Morey ha modificato le gerarchie. Tutti chiedevano una profonda rivoluzione negli organi decisionali di Philadelphia, ma forse non si aspettavano in questi termini e in questa sequenza. Eppure quelli negli uffici non sono rimasti gli unici cambi.

I Sixers per riparare agli errori degli ultimi anni hanno deciso di essere molto aggressivi sul mercato, prendendo il nome più forte tra quelli disponibili invece che quello più adatto. Oltre a Rivers - che si dice sia stato scelto dopo una mediazione tra la proprietà, che voleva Mike D’Antoni, ed Elton Brand, che voleva Tyronn Lue - sono arrivati a completare il nuovo coaching staff Dave Joerger, capo-allenatore a Memphis e Sacramento; Sam Cassell, assistente di Rivers anche a Los Angeles; Brian Adams, allenatore della squadra G-League dei Clippers, gli Agua Caliente; e Dan Burke, storico assistente difensivo di Indiana. Burke, che era ai Pacers da quando il coach era Larry Bird, è salito agli onori di cronaca dei tifosi dei Sixers dopo che lo scorso anno aveva definito Embiid «uno che la fa franca con un sacco di trucchetti (eufemismo)».

https://twitter.com/JoelEmbiid/status/1321534908930662403

Come sempre la risposta di Embiid non si è fatta attendere.

Con tutte queste facce nuove i Sixers dovranno trovare rapidamente una chimica di squadra in vista dell’inizio della stagione, trovando la quadra sia dentro che fuori dal campo. Dopo gli anni sotto Brett Brown, dove la conduzione nel bene o nel male era estremamente familiare, il compito di Morey e di Brand è soprattutto quello di ristrutturare la franchigia rispetto standard più professionali.

Sarà fondamentale che Morey e Brand siano già da oggi sulla stessa pagina, perché tra meno di due settimane si svolgerà un Draft nel quale i Sixers hanno la 21^ chiamata al primo giro e altre quattro nel secondo e sul quale c’è ancora forte incertezza, visto che nessuno ha potuto effettuare provini o interviste. E con la NBA che inizierà la settimana di Natale non rimarrà molto tempo per muoversi sul mercato.

Il lavoro che attende Morey a Philly

E qui entriamo nel terreno più scivoloso e allo stesso tempo più affascinante del nuovo lavoro di Daryl Morey. Si è molto discusso di come i Sixers rappresentino una squadra all’esatto opposto dello spettro rispetto agli ultimi Houston Rockets visti la scorsa stagione: da una parte un quintetto con almeno tre giganti sopra i due metri e passa, dall’altra uno nel quale neanche uno dei membri arriva a tale asticella. Da una parte una squadra che ha portato il volume di tiri da tre punti a un’esaltazione fordista, quasi meccanica; dall’altra una che fa dannatamente fatica ad aprire il campo. I Rockets nelle ultime tre stagioni hanno viaggiato a una media di tiri da tre punti superiore a quella di tiri da due, mentre i Sixers lo scorso anno sono stati la quinta squadra per numero di tiri dalla media distanza.

Ma sarebbe sbagliato pensare che Morey voglia trasformare improvvisamente i Sixers in una versione aggiornata dei Rockets. Intanto perché l’idea che si è sedimentata negli anni, ovvero che il Moreyball sia una filosofia basata sul maggior numero di triple tentate, è errata, o almeno ci restituisce una visione molto parziale di essa. Il Moreyball, termine molto catchy mutuato dal Moneyball del baseball, si fonda sul raggiungimento della massima efficienza per possesso rispetto alla distribuzione dei tiri. E questa varia a seconda del talento e del personale a propria disposizione. In un sistema eliocentrico che aveva il solo Harden a costruire gioco, la tipologia di tiro più efficiente era la tripla dall’angolo assistita. In una squadra con più talento diffuso come i Sixers e un eccellente giocatore in post come Embiid, non è detto che la distribuzione di tiri debba essere la stessa.

Ad esempio nella scorsa stagione i post up di Joel Embiid hanno fatto registrare il 52.4% di percentuale effettiva per una produzione di 1.10 punti per possesso, mentre gli isolamenti di James Harden il 52.3% di eFG e 1.12 punti per possesso. Nel basket contemporaneo esistono svariati modi per far canestro, la chiave è massimizzare le proprie abilità.

Quello che negli ultimi anni è mancato ai Sixers - e che invece Morey ha dimostrato di saper fare al meglio, e di conseguenza la ragione per la quale il suo arrivo a Philadelphia è così intrigante - è costruire il contesto adatto per mettere in condizione la propria superstar di esprimersi al meglio. Le mosse di mercato prima di Colangelo e poi di Brand hanno snaturato la costituzione iniziale del roster, con la conseguenza di sbiadire il vistoso talento di Embiid e Simmons.

I due sono passati dall’avere un Net Rating di +16.2 punti per cento possessi nella stagione 2017-18, quando condividevano il parquet con tiratori del calibro di JJ Redick e Robert Covington al grigio +1.8 di questa stagione. Prima di pensare di separare questa coppia, Morey cercherà in ogni modo di metterla a proprio agio, smontando e rimontando il supporting cast. Operazione resa ovviamente non semplice dai contratti firmati l’estate scorsa da Al Horford (109 milioni per quattro anni) e Tobias Harris (180 milioni per cinque anni), ma non impossibile. L’ex GM di Houston ha dimostrato di saper cavare il proverbiale sangue dalle rape e i Sixers hanno ancora qualche asset nella manica da giocarsi.

Per ora con molta probabilità si limiterà a lavorare sui margini, aggiustando qua e là per quanto possibile il roster e ragionando insieme a Doc Rivers a un nuovo sistema di gioco. Per il grande colpo, l’all-in spregiudicato a cui Morey non si è mai sottratto ci sarà da attendere. Le voci che parlano di un possibile arrivo a Philadelphia di James Harden, per quanto suggestive visto il rapporto stretto tra Morey e il Barba, rimangono ad oggi rumore di fondo. È irrealistico infatti pensare che i Rockets possano anche solo ascoltare un’offerta che non comprenda uno tra Simmons o Embiid, e difficilmente Morey può pensare di scambiare in questa finestra di mercato uno tra Simmons o Embiid. Lo ha ripetuto anche Hinkie da Pablo Torre: chi parla di scambiare così a cuor leggero certi giocatori non sa quanto ci è voluto per arrivare a prenderli. E se c'è qualcuno che conosce l'importanza di avere delle superstars nell'NBA di oggi questo è Morey. La sua sfida, complicata quanto affascinate, parte da qui.

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