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La deadline del mercato NBA non ha tradito la attese
11 feb 2022
Ci si aspettava il mega scambio Harden-Simmons ed è arrivato.
(articolo)
17 min
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Alla vigilia della deadline del mercato NBA, lo scambio tra James Harden e Ben Simmons era diventato la versione NBA del paradosso del gatto di Schrödinger. Dopo che unlungo articolo di Bleacher Report aveva dato il via alle speculazioni sul futuro di Harden, definito come scontento della sua situazione a Brooklyn, The Athletic aveva rincarato la dose sostenendo che Nets e Sixers avessero già cominciato a discutere di uno scambio prima della deadline del mercato. Dopo qualche giorno di voci e controvoci, si è arrivati a una sorta di stallo: la trade era contemporaneamente sia vicinissima alla sua realizzazione (secondo quanto sostenuto da Brian Windhorst di ESPN) che lontana anche solo dal discuterne (secondo quanto invece detto da Adrian Wojnarowski, curiosamente sempre di ESPN).

Fa tutto parte del grande “Gioco Delle Parti” che diventa il mercato NBA quando si mischia con il giornalismo USA: da una parte Windhorst cercava di spingere l’acqua verso il mulino di Daryl Morey, GM dei Sixers che ha utilizzato tutto il suo ascendente nei confronti degli insider per mettere pressione a Brooklyn; dall’altra Sean Marks ha provato a ingraziarsi il numero 1 degli insider NBA come Wojnarowski per cercare di controllare la narrativa attorno allo scambio.

Il punto di non ritorno è arrivato nel pomeriggio italiano di ieri, quando Woj — su chiara imbeccata di Marks e dei Nets — ha aperto il giorno della deadline con la bomba che tutti aspettavano: Harden aveva fatto capire di voler essere ceduto dai Nets, ma non aveva fatto una richiesta ufficiale “per paura del contraccolpo a livello di immagine nel chiedere di essere scambiato per due anni consecutivi”. Uno spin pubblicato ad arte proprio proprio per avere quell’effetto lì, come se non fosse già stato chiaro a tutti con la sua orribile prestazione in campo contro Sacramento della scorsa settimana che i suoi giorni a Brooklyn erano finiti.

https://twitter.com/GetUpESPN/status/1491779862201257988

Per quanto abbiano provato in tutti i modi a far sembrare che non fosse così — anche mandando Steve Nash al macello facendogli dire «Non scambieremo James Harden» in conferenza stampa mentre il naso gli si allungava come Pinocchio —, i Brooklyn Nets avevano paradossalmente più pressione per fare questo scambio subito rispetto a quanta ne avessero i Sixers. Tra le due squadre quella che non poteva mantenere lo status quo era certamente Brooklyn: da quando è rientrato Kyrie Irving e da quando si è fatto male Kevin Durant la squadra è allo sbando dal punto di vista della chimica prima ancora che di quello dei risultati, e i risultati ci dicono che hanno perso le ultime nove partite in fila di cui otto con scarti in doppia cifra, crollando miseramente all’ottavo posto nella Eastern Conference.

In questo lasso di tempo James Harden ha fatto chiaramente capire, con i fatti prima ancora che con le parole, di non voler più rimanere a Brooklyn. Dei motivi per cui il loro matrimonio è andato a rotoli avevamo già scritto la scorsa settimana, e da quel momento in poi le cose non hanno fatto altro che peggiorare, tanto che una sua permanenza in squadra si sarebbe rivelato un problema persino peggiore dei grattacapi con cui già devono fare i conti per l’affaire Irving. Se al problema di avere in spogliatoio un Harden scontento (e ancor più disinteressato alla difesa di quanto già non fosse) si aggiunge anche la sua free agency in arrivo a luglio (con la possibilità di perderlo a zero dopo aver speso per lui giocatori del livello di Caris LeVert e Jarrett Allen solo un anno fa, più la bellezza di sette tra prime scelte e pick swaps), si ottiene un cocktail troppo difficile da mandar giù per Sean Marks e per il proprietario Joe Tsai, che per questa squadra sta spendendo una quantità di soldi che si possono permettere solo le persone così ricche che il solo pensiero fa male.

L’imminente free agency di Harden significava però anche che le squadre con cui conversare si riducevano di molto, per non dire che ne rimaneva soltanto una: i Philadelphia 76ers. Un fatto che Daryl Morey ha sfruttato a suo vantaggio, con una sorta di insider trading che di sicuro non ha rasserenato i suoi rapporti con la dirigenza dei Nets. Poco a poco Marks si è ritrovato di fatto costretto a discutere con Morey dello scambio, perché qualsiasi alternativa sarebbe stata probabilmente peggiore: anche nella migliore delle ipotesi, cioè quella di avere la squadra al completo e di vincere il titolo 2022, i Nets avrebbero dovuto comunque rifirmare Harden con un quinquennale da 270 milioni di dollari. E considerando qual è stata la sua salute nell’ultimo anno solare, i rapporti con le altre due stelle non esattamente idilliaci (non giriamoci intorno: se Harden non è più a Brooklyn è perché a Kevin Durant e Irving stava bene che fosse così) e i primi segni di cedimento del livello del suo rendimento (a tratti stellare, ma non *ineluttabilmente* stellare come era a Houston in regular season), lo scambio adesso finiva per essere la decisione più razionale da prendere.

https://twitter.com/TheAthleticNBA/status/1491896599571615744

I rapporti tra Irving e Harden, come era intuibile, non erano proprio rose e fiori.

Alla fine, scambiare una stella scontenta per un pacchetto formato da Ben Simmons, Seth Curry, Andre Drummond e due prime scelte al Draft (una ora o nel 2023, una nel 2027 protetta 8) è un ritorno più che sostanzioso per un giocatore in possibile scadenza tra pochi mesi che non aveva più intenzione di rimanere. Certo, non è uno scambio privo di rischi, sia perché i Sixers sono rivali divisionali (a proposito: segnatevi sul calendario la sfida del prossimo 11 marzo a Philadelphia) e ci sono buonissime possibilità che si incrocino ai playoff nei prossimi anni, sia perché Harden rimane pur sempre uno dei 75 migliori giocatori di tutti i tempi.

Ma Simmons è di sette anni più giovane, ha ancora quattro anni di contratto oltre questo (il che lo rende un asset sul mercato nel caso in cui andasse tutto a rotoli), ed è perfetto per lo schema difensivo di coach Steve Nash che vuole cambiare su tutti i blocchi, dando una versatilità che probabilmente nessun altro All-Star avrebbe potuto dare ai Nets. In attacco, poi, può sia essere utile con la palla tra le mani per spingere in transizione (anche se nel roster non ci sono tanti giocatori in grado di correre con lui) e sfruttare un campo apertissimo con tiratori del calibro di Durant, Irving, Curry, Patty Mills e Joe Harris (attualmente infortunato e a rischio per la stagione), una batteria con cui non ha mai potuto giocare in carriera. E anche senza il pallone tra le mani Simmons potrebbe ricoprire il ruolo di Bruce Brown, portando blocchi sulla palla per Irving e Durant per giocare negli spazi da loro aperti.

Questo ovviamente parlando della versione ideale di Simmons, dato che al momento sappiamo solo che “è ansioso di unirsi alla squadra e di intensificare il suo percorso per tornare in campo”, secondo quanto detto dal suo agente Rich Paul a ESPN. Non abbiamo idea però di quale versione di Simmons si presenterà in campo, né quando si presenterà in campo, né quanto le scorie della tremenda serie contro gli Atlanta Hawks dello scorso luglio gli siano rimaste addosso. Avrà ancora paura di tirare i liberi? Giocherà talmente male in attacco da non essere schierabile nei finali di gara? Gli sta bene fare la terza stella al fianco di Irving e Durant, e di dover cambiare ruolo nelle gare in casa nelle quali non è disponibile Kyrie (stante la regolamentazione della città di New York)? Uno dei tanti motivi per cui voleva andarsene da Philadelphia era anche perché voleva finalmente provare ad avere una squadra “tutta sua”: questo a Brooklyn non può succedere.

Passando invece dal lato di Philadelphia, bisogna innanzitutto togliersi il cappello davanti alla perseveranza di Daryl Morey, che fin dal primo momento ha sostenuto di voler cedere Simmons solo per una stella di pari livello o superiore e alla fine ci è riuscito, un obiettivo che in diversi momenti dei passati mesi (per non parlare dello scorso luglio) sembrava semplicemente irrealizzabile. Bisogna però dire che a suo favore si sono allineati numerosi pianeti: la squadra è andata talmente bene da essere in lotta per il primo posto a Est (avessero avuto anche loro una striscia di 9 sconfitte in fila forse la pressione sarebbe stata diversa); aver fatto passare così tanto tempo ha cancellato un po’ il ricordo dei difetti di Simmons facendone ricordare soprattutto i pregi; il suo rapporto così stretto con Harden (che ha legami anche all’interno della proprietà di Philadelphia) ha fatto in modo che i Sixers risultassero l’unica opzione percorribile, escludendo le altre 28 franchigie da una possibile asta per i suoi servigi.

Forte di tutto questo e del trambusto all’interno dei Nets provocato dallo stesso Harden, Morey ha portato a termine lo scambio senza dover cedere né Tyrese Maxey né Matisse Thybulle, le cui cessioni avrebbero probabilmente fatto inalberare la tifoseria più focosa della NBA. Malissimo che vada, cioè con Harden che lascia nel 2023 (a proposito: per completare lo scambio ha esercitato la sua player option per il prossimo anno e potrà estendere per 223 milioni in quattro anni tra sei mesi), i Sixers in futuro avranno comunque la squadra di quest’anno senza Curry (anche lui free agent nel 2023) e senza Drummond (che a questo punto della carriera è sostanzialmente uno specialista dei rimbalzi da 15 minuti a partita in regular season e zero nei playoff), con due prime scelte al Draft in meno. Un rischio abbordabile tutto sommato per aumentare di molto le proprie chance di titolo in quelle che rappresentano le migliori stagioni di Joel Embiid.

Rimane giusto un aspetto poco discusso della vicenda: siamo davvero sicuri che Harden ed Embiid siano così complementari in campo? Se nella metà campo offensiva hanno comunque così tanto talento da poter trovare un modo di rendersi immarcabili per le difese avversarie (per quanto Harden non abbia mai giocato con un lungo che fagocita così tanti palloni come Embiid e viceversa, e senza Curry le spaziature saranno da reinventare), è nella metà campo difensiva che sembrano proprio incompatibili. A questo punto della sua carriera Harden può funzionare solo in uno schema che cambia su tutti i blocchi giocando da 4 “di fatto”, ma Embiid è al suo meglio quando può giocare in “drop” e oscurare la visuale con il suo corpo mastodontico mentre l’esterno torna sul suo uomo aggirando il blocco. Due stili che cozzano filosoficamente prima ancora che tecnicamente e a cui Doc Rivers dovrà trovare rimedio, magari contando sulle motivazioni del Barba che comunque quando coinvolto, come nei playoff dello scorso anno (pure su una gamba sola), nei suoi giorni migliori a Brooklyn non è sembrato del tutto insostenibile in difesa.

Quello che emerge come inconfutabile da questo scambio è che entrambe le squadre, per diverse ragioni, avevano bisogno di lasciarsi alle spalle i problemi degli ultimi mesi e voltare pagina. Entrambe hanno concordato che fosse meglio farlo adesso piuttosto che trascinare le due situazioni di Harden e Simmons fino all’estate, donando un minimo di serenità all’ambiente (oddio, i Nets hanno ancora a che fare con l’impiego part-time di Irving, su cui pende una percentuale per nulla irrilevante delle probabilità del prossimo titolo NBA) e provando a uscire dalla spirale negativa in cui erano finite.

I Mavericks gettano la maschera con Porzingis

Passando in rassegna più velocemente gli altri affari che sono stati conclusi alla deadline del mercato, l’altro nome grosso a essersi mosso è quello di Kristaps Porzingis, finito a Washington insieme a una scelta al secondo giro in cambio di Spencer Dinwiddie e Davis Bertans. Uno scambio che ha messo definitivamente fine alla sua esperienza al fianco di Luka Doncic: dopo essere arrivato tre anni fa a Dallas per essere la sua spalla, possiamo dire che il lettone ha fallito e anche i Mavericks (la cui dirigenza è totalmente nuova e non aveva legami con lui) se ne è resa definitivamente conto.

https://twitter.com/wojespn/status/1491858904791269376

Certamente si aspettavano di recuperare qualcosa di più rispetto a due giocatori dalla salute traballante come Dinwiddie e Bertans (e con contratti lunghi e pesanti più di quello di Porzingis, messi assieme), ma cercheranno di trovare in loro due ciò che si aspettavano dal solo Porzingis: creazione di tiri in Dinwiddie e tiro spot-up da tre punti in Bertans, sperando anche in una salute migliore rispetto a quella mostrata dall’ex All-Star (in campo solo per 34 delle 55 partite disputate quest’anno). Il resto è nelle mani di coach Jason Kidd, che dopo aver tirato fuori da questo roster la sesta miglior difesa della NBA (a un decimo di punto dal quinto posto di Miami, dati Cleaning The Glass) dovrà trovare il modo di inserire anche due difensori sotto media come quelli arrivati da Washington. Punti bonus alla dirigenza per l’estensione di Dorian Finney-Smith, assicurandosi un titolare a prezzi contenuti (52 milioni in quattro anni).


I Celtics provano a rimodellarsi attorno ai Jays

Era ormai chiaro a tutti che la direzione intrapresa dai Celtics era quella di costruire attorno a Jaylen Brown e a Jayson Tatum, mettendo sul mercato sostanzialmente tutti gli altri membri del roster, però così è un po’ troppo letterale. Dopo gli scambi che hanno portato in squadra Derrick White e Daniel Theis, i Celtics hanno solo dieci giocatori sotto contratto, una situazione inusuale a questo punto della stagione. Dover riempire un quinto del roster con giocatori svincolati è quasi senza precedenti, ma se non altro i 10 a disposizione sembrano tutti schierabili in una serie di playoff, dando a coach Ime Udoka due armi in più. White e Theis possono entrambi finire in campo le partite per questa squadra, cosa che non si poteva necessariamente per i vari Schröder, Richardson, Langford, Freedom e Fernando utilizzati per ottenerli.


I grandi sconfitti della deadline sono i Lakers

Non di soli scambi vivono le valutazioni post-deadline. Il fatto stesso che i Los Angeles Lakers siano rimasti fermi senza cambiare niente è una sconfitta gigantesca, specialmente dopo le ultime scoraggianti uscite di LeBron James e compagni. Se c’era una squadra con la disperata necessità di fare qualcosa, qualsiasi cosa, per iniettare un po’ di vita nel roster erano i Lakers, ma evidentemente le altre 29 franchigie avevano pochissima voglia di dar loro una mano — inflazionando il prezzo dei loro giocatori non appena vedevano il numero di Rob Pelinka (o di Kurt Rambis? O di LeBron James? O di Rich Paul? Non si può mai sapere coi Lakers) comparire sullo schermo del telefono.

https://twitter.com/MagicJohnson/status/1491643353271701505

A pagare per tutti sarà probabilmente Frank Vogel, il cui licenziamento ormai inevitabile è l’unica mossa rimasta per poter dare una scossa all’ambiente. Ma a questo punto viene da chiedersi anche che futuro possa avere questa dirigenza, che proverà a cavare fuori qualcosa dal mercato dei buyout (sì, ma chi vorrebbe andare adesso ai Lakers?) perriscattare sta stagione. Altre sconfitte sparse dalla deadline: gli Utah Jazz hanno fatto decisamente troppo poco per migliorarsi, e ne avevano bisogno; Chicago non è riuscita a prendere Jerami Grant, ma forse erano i Pistons ad avere più urgenza di cederlo (ci riproveranno in estate, magari nella notte del Draft); se a New York sta bene continuare così, contenti loro.


I Clippers si preparano alla grande per il 2023

Per trovare una dirigenza che invece sa il fatto suo non bisogna neanche cambiare città, visto che gli L.A. Clippers hanno di nuovo concluso una grande deadline del mercato. Dopo essersi mossi in anticipo di qualche giorno prendendo Norman Powell e Robert Covington da Portland per un esborso a dir poco risibile, i Clippers hanno anche ridotto la loro luxury tax per quest’anno e per gli anni a venire cedendo Serge Ibaka (che era diventato il loro terzo centro della rotazione, soppiantanto anche da Isaiah Hartenstein) e Keon Johnson (superato dall’altro rookie Brandon Boston Jr.) al prezzo di una seconda scelta al Draft e due giocatori indesiderabili come Eric Bledsoe e Justise Winslow. Ovvio che le possibilità di vittoria passino soprattutto dai rientri in campo di Kawhi Leonard e Paul George, che con ogni probabilità salteranno questa stagione, ma la dirigenza guidata da Lawrence Frank ha dimostrato un’altra volta come ci si muove sul mercato — e sono in posizione per avere una contender per il titolo il prossimo anno, sempre se la salute li assisterà.


Piccoli movimenti per grandi squadre

Note sparse: i Milwaukee Bucks prendono Ibaka per farne il loro Brook Lopez, complice il recupero difficile del loro centro titolare dai problemi alla schiena. Per farlo cedono Donte DiVincenzo, che probabilmente non avrebbero potuto trattenere in estate, cedendolo ai Sacramento Kings che ne sono innamorati da tempo (come dimostra lo scambio per Bogdan Bogdanovic poi annullato dalla NBA per tampering). Ma Ibaka ha ancora qualcosa nel serbatoio? Ci sono due posti per i buyout, ma la luxury tax è già a quota 52.9 milioni.

I Suns aggiungono due pezzettini dalla panchina per la corsa playoff come Torrey Craig (cavallo di ritorno) e Aaron Holiday, che magari non servono a niente ma se riescono a servire a qualcosa è tutto di guadagnato, visto che di fatto il costo è stato Jalen Smith (che non avrebbero potuto tenere) e una futura seconda scelta. Certo, fa male pensare che al posto di Smith ci sarebbe potuto essere Tyrese Haliburton, ma i risultati di squadra sono abbastanza buoni da far passare tutto nel dimenticatoio.




Sacramento ha fretta, non si sa di cosa ma ha fretta

A proposito di Haliburton: l’ottimo debutto di Domantas Sabonis con i Kings magari avrà aiutato a lenire gli squarci nei cuori dei tifosi di Sacramento, ma non si rimargineranno tanto in fretta. Solitamente quando si ha una guardia di 21 anni che mostra i lampi mostrati da Haliburton (17.1 punti, 9.4 assist e il 43% da tre nelle ultime 24 partite) non lo si cede mai, anche a costo di scoprire che erano solo lampi e non c’era niente di vero. Ma i Kings hanno una fretta enorme di essere competitivi e interrompere quella striscia di sedici stagioni consecutive senza playoff che pesa come un macigno sulla franchigia.

https://twitter.com/Pacers/status/1491548870521892868

Da qui la decisione di cedere Haliburton e Buddy Hield per arrivare a Sabonis, un giocatore di cui puoi essere certo di cosa ti dà, quando te lo dà e come te lo dà ogni singola volta che scende in campo — una dote sottovalutata, specie a Sacramento dove non vedevano un giocatore della sua consistenza forse da decenni. Certo, sono ben noti anche i limiti e i difetti, ma anche avere un po’ di stabilità nella franchigia più instabile della NBA non guasta. Una stabilità che porta al massimo al play-in, ma pur sempre stabilità.




Portland comincia la ricostruzione senza McCollum

Consapevoli che la loro stagione è ormai compromessa, i Blazers hanno approcciato la deadline con l’obiettivo di liberare il più possibile il monte salariali, specialmente per gli anni futuri. Da qui la decisione di cedere Powell e CJ McCollum e il loro contratti pluriennali, facendo risparmiare un bel po’ di soldi alla proprietaria Jody Allen (decisamente meno interessata alle sorti sportive della franchigia ereditata dal fratello Paul scomparso nel 2018) e provando a imbastire una sorta di ricostruzione in attesa della decisione definitiva sul futuro di Damian Lillard, che in estate potrà firmare un’altra estensione di contratto da oltre 100 milioni di dollari in due anni, legandosi ai Blazers a vita.

McCollum porterà i suoi 20 punti a sera a New Orleans, che senza nemmeno accorgersene si trova al decimo posto a Ovest e, considerando le mosse delle dirette concorrenti, deve guardarsi solo dai Kings per poterlo mantenere fino a fine anno. McCollum li aiuta dal punto di vista offensivo ad avere un altro realizzatore sicuro, ma Josh Hart era fondamentale per i loro equilibri specialmente nella propria metà campo, mettendo sulle spalle del rookie Herb Jones una quantità di responsabilità difensive mastodontica — specie quando e se tornerà Zion Williamson.


Cleveland ci prova prendendo LeVert

Dopo gli infortuni di Ricky Rubio e Collin Sexton, i Cavaliers avevano disperato bisogno di una guardia che potesse ragionevolmente segnare, o almeno palleggiare, o almeno respirare. Tre cose che Caris LeVert è in grado di fare più che dignitosamente, per quanto non sia di certo un giocatore esente da difetti, a partire da una difesa non indimenticabile, un tiro da fuori ondivago (sotto il 32% da tre, ma 38.4% piedi per terra) e una certa qual propensione a pensare al proprio tiro come prima, seconda e terza cosa ogni volta che scende in campo. Cleveland però aveva bisogno di una guardia realizzatrice per togliere un po’ di pressione dalle spalle di Garland e, soprattutto, che stabilizzasse l’attacco quando l’All-Star va a sedersi: con e senza Garland si passa da 113.3 punti su 100 possessi a 106.1. Il prezzo della prima scelta di quest’anno (di cui i Cavs se ne sarebbero fatti poco, essendo attorno alla 23 di un Draft “povero” come quello in arrivo) e una seconda molto buona come quella di Houston è altino, ma giustificabile per continuare ad alimentare il momento positivo della squadra.


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