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Le dodici fatiche di Luka Doncic
14 nov 2022
Un inizio di stagione scintillante sta già presentando il conto in termini di stanchezza.
(articolo)
11 min
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All’alba della sua quinta stagione in NBA, Luka Doncic sembra essersi imbarcato in un’impresa titanica, all’apparenza del tutto impossibile: mantenere i suoi Dallas Mavericks al livello della passata stagione, conclusasi solo contro i futuri campioni dei Golden State Warriors in un’inaspettata finale di conference a Ovest dopo aver eliminato gli Utah Jazz e i Phoenix Suns. E deve riuscirci a dispetto di tutto: un roster indebolito, un fisico provato, botte da orbi e un numero di possessi gestiti al limite della resistenza umana. Cifre da MVP, ma quanto davvero sostenibili sul medio e lungo periodo?

Per comprendere quanto sia sorprendente il record di 7-5 (ma con tre finali di gara persi allo scadere poteva essere addirittura 10-2) che i Mavs detengono dopo la bella vittoria casalinga contro Portland del 12 novembre – e quindi contestualizzare meglio l’avvio misericordioso di Doncic – è utile fare un rapido riassunto delle puntate precedenti.

Un supporting cast non all’altezza

Dal termine della scorsa trionfale stagione, la situazione di Dallas a livello di supporting cast tornata a essere la stessa da quando Mark Cuban ne è diventato il proprietario: non all’altezza. Tim Hardaway Jr., come profetizzato da molti, dopo la firma sul contrattone da 75 milioni in quattro anni nell’estate del 2021 è diventato l’ombra di se stesso, incostante e infortunato; Jalen Brunson, grande gioia e chiave fondamentale dei successi dei Mavs 2021-22, è finito ai New York Knicks perchè Dallas non poteva né voleva dargli i tanti soldi che giustamente aveva chiesto al termine della miglior stagione della carriera; Christian Wood, arrivato per due noccioline da Houston, avrebbe dovuto compensare il vuoto realizzativo lasciato da Brunson, ma di tutto il resto che l’ex Villanova portava alla causa non vi è traccia; JaVale McGee, personalità sui generis e giocatore da sempre di complemento, viene firmato con la speranza (vana, e già tutti a Dallas lo sanno) di aggiungere verticalità, intimidazione e copertura a rimbalzo in una posizione che tanto dolore aveva provocato durante gli scorsi playoff.

Doncic si ritrova quindi alla prima palla a due stagionale nelle seguenti condizioni: un EuroBasket massacrante finito solo un mese prima ancora da smaltire; l’unico compagno di squadra con cui a fatica aveva imparato a condividere (e solo parzialmente…) possessi e responsabilità quando più contava partito per New York; un cavallo pazzo come Spencer Dinwiddie promosso nel quintetto base da Jason Kidd per carenza di creatori dal palleggio ma meno generale in campo di Brunson; un Christian Wood (in scadenza) retrocesso pubblicamente da Kidd a inatteso sesto uomo per sostenere una second unit derelitta; e infine un McGee che, nel giro di sette partite, passa da titolare designato e i 14 minuti giocati all’esordio con Phoenix ai 3 minuti totali contro Brooklyn e un ruolo già totalmente marginale, costringendo il coach a ri-cavalcare il caro buon vecchio Dwight Powell, 5 per necessità ma di poco più alto di Doncic.

A tutto questo si aggiungono le polveri bagnate dei due 3&D principali attorno a Luka, con Dorian Finney-Smith e Reggie Bullock, che stanno tirando con il 30% da tre punti contro il 40% degli scorsi playoff, un calo sanguinoso per i fragili equilibri dei Mavericks aggravato dal povero Maxi Kleber, in preda a una crisi d’identità e di tiro da cui non sembra essersi ancora ripreso. Il dimezzato contributo offensivo di un trio essenziale lo scorso anno per continuità e affidabilità viene solo in parte mitigato dalla solita intensità difensiva: Dallas non sta riuscendo a proteggere le dormite di Doncic sul suo lato del campo, e il Defensive Rating accettabile (decimi in NBA a 111.3) è legato più al numero di possessi bassissimo imposto dall’attacco a metà campo di Luka (432° per pace nella lega) che alla reattività e solidità delle rotazioni difensive di quella che, solo cinque mesi fa, era stata la vera miglior difesa della seconda parte della stagione insieme a quella dei Boston Celtics.

Eppure, con tre buzzer beater sbagliati in meno - tutti da Luka, poi ci ritorniamo - i Mavericks potrebbero vantare il miglior record di tutta la NBA.

«Wood always wins»

C’è un rituale che il coaching staff dei Dallas Mavericks ha instaurato da quando è iniziato il regno di Jason Kidd a Dallas: ogni dieci partite si ritrovano in una riunione a porte chiuse per riassumere gli aspetti positivi e negativi dell’ultimo lasso di partite e, ovviamente, le possibili soluzioni ai problemi più urgenti. Strano ma vero, nonostante l’avvio (quasi) record di Doncic con 30 o più punti segnati nelle prime nove partite stagionali, il grattacapo a cui è stata riservata l’assoluta precedenza è riassunto in questa “semplice” domanda: come diminuire l’utilizzo di Luka?

Un dubbio che Kidd ha espresso con grande onestà durante le conferenze stampa pre e post sconfitta a Washington dell’11 novembre e che ricorderemo con diverso peso a seconda di come finirà quest’annata. Dallas, battuta il giorno prima a Orlando dai Magic ultimi nella lega e senza Paolo Banchero e Cole Anthony, è reduce dal secondo capitombolo consecutivo in back-to-back contro la squadra della capitale priva di Bradley Beal e Kristaps Porzingis. Due partite orribili, di Doncic e di tutta la squadra, che hanno gettato un’improvvisa ombra sull’ottimo avvio stagionale della franchigia del Texas (6-3 prima delle due trasferte).

Jason Kidd, mai banale, appare visibilmente preoccupato: «Il legno del parquet vince e vincerà sempre» afferma col fare esperto dell’ex giocatore. Sotto accusa, se così vogliamo dire, è il sempre più elevato numero di cadute sul terreno di gioco (“wood” appunto) che Doncic sta accumulando sul suo corpo, un trend che in molti avevano sottolineato anche durante le dure partite di EuroBasket con la sua Slovenia e iniziato ben prima dei suoi pari età NBA, a 16 anni in ACB e Eurolega al Real Madrid.

Un trend che sembra all’improvviso aver iniziato a presentare il suo conto proprio nel breve tour a Est di Dallas: 9/29 al tiro in Florida, 8/21 dietro la Casa Bianca, forzature da carcere immediato (2/11 da dietro l’arco a Orlando), tiri quasi sempre finiti sul primo ferro, attaccanti avversari a banchettare e un linguaggio del corpo irritante sia per noi a 7.000 chilometri di distanza che, immaginiamo, per i suoi compagni scesi in campo insieme al talento sloveno nella doppia débâcle contro due squadre sulla carta nettamente inferiori.

Un esempio dei cambi difensivi sistematici che finiscono per stancare Doncic.

È Doncic stesso, con il solito disarmante candore ad ammetterlo ad alta voce nella conference room degli Wizards: «Sono molto stanco. Ho avuto un’estate intensa con la Nazionale che sta iniziando a farsi sentire. Non è una scusa, queste due sconfitte sono arrivate a causa mia». Una confessione a cuore aperto che tutti pensavano ma che è stata confermata anche dallo stesso protagonista e da coach Kidd, per la prima volta disposto a parlarne nel dettaglio in due anni da capo allenatore: «Dobbiamo trovare un modo per ridurre l’utilizzo di Luka, questa è la priorità».

Sulle spalle di Luka

L’inizio di stagione di Doncic è stato, per una volta, ancor più dominante di quanto ci si potesse aspettare. Dopo le “false partenze” del 2020-21 e del 2021-22 per evidenti e imbarazzanti problemi di condizione fisica, finora il 2022-23 ha presentato un Doncic onnipotente perlomeno in termini offensivi, grazie a un lavoro finalmente mirato in off-season con l’amico e preparatore sloveno Anze Macek. Doncic è capocannoniere (34.3), primo per tiri tentati a partita (23.5) e punti in post-up (5.4), al secondo posto per falli subìti (8.3) e tiri liberi tentati (11.6), terzo in penetrazioni al ferro (22.2), sesto per assist a partita (8.1) e via dicendo.

Un vortice statistico da capogiro riassunto efficacemente dal 38% di Usage Rating, la percentuale di possessi transitati dalle mani di un giocatore durante una singola partita: un numero abnorme, elevatissimo, superato solo da Russell Westbrook e James Harden negli ultimi 25 anni e molto simile al 36.8% con cui lo sloveno aveva concluso la scorsa regular season.

Detto questo: quando fa ballare così gli avversari non c’è nessuno che possa tenerlo.

Uno sforzo tecnico, fisico e mentale cui il numero 77 continua e continuerà a essere costretto fintanto che il sistema di Dallas rimarrà quello attuale e fintanto che il ragazzo non si convincerà che nessuno ha mai vinto da solo, Michael Jordan compreso. L’attacco “drive and kick” di Kidd che lascia tanto (troppo?) all’iniziativa individuale del ball-handler quest’anno sta dipendendo ancora di più dal mostruoso talento in fase di creazione (e “gravity”) di Doncic, con l’addio di Brunson come maggiore indiziato (e secondo problema in ordine di importanza discusso nella famosa riunione del coaching staff) e le pause difensive e i cali in efficienza nel quarto periodo di Luka come principali conseguenze negative.

In queste prime 12 partite è capitato spesso di vedere Dallas schierata semplicemente “cinque fuori”, con Wood o Kleber da 5 atipici pronti insieme agli altri compagni di squadra ad attendere gli scarichi del loro visionario playmaker di due metri o di Dinwiddie, oppure valanghe di azioni iniziate con un banale pick and roll centrale per provocare un cambio della difesa che Doncic, con un ingente dispendio fisico, sta trasformando sempre più in “post bassi” imposti di pura forza da dietro l’arco e conclusi sotto canestro a suon di “sculate” con un’ultima finta, una spallata o l’uso sopraffino dei piedi (il 91% dei suoi canestri sono frutto di iniziative individuali, ovviamente primo assoluto nella lega).

Tutte soluzioni che Luka possiede e interpreta con la classe, l'arroganza e leggiadria dei più grandi (oltre al famigerato step-back da 3 dall’ala sinistra, il fadeaway dalla media di Dirkiana memoria, il pick and roll con Wood e Powell diretto come un Maestro d’orchestra…) ma che dovrebbero essere dosate con più efficienza e meno spreco di energie lungo il corso della partita senza dissiparle nel primo e nel terzo periodo, non a caso i due quarti che Kidd fa giocare integralmente al suo miglior giocatore in quanto gli unici preceduti da due riposi. Uno stratagemma non sufficiente, considerato il drastico e preoccupante calo in termini di decision making e percentuali quando più conta nel periodo finale, nel quale tira con il 38% dal campo rispetto al 53% del primo quarto.

Le partite contro Phoenix, New Orleans e Oklahoma City sono state la lampante dimostrazione di un annoso problema che solo la saggezza cestistica di Brunson e gli estemporanei eroismi di Dinwiddie avevano in parte mascherato lo scorso anno: in tutte e tre le sconfitte Dallas è riuscita a farsi rimontare vantaggi in doppia cifra, arrivando stanca e frustrata in finali punto a punto che Doncic, nonostante le gambe affaticate, ha voluto risolvere in proprio con forzature siderali puntualmente uscite, fino al potenziale tiro della vittoria di cui, purtroppo, s’intuiva già da qualche minuto l’esito più probabile.

Quando Doncic, dopo aver dominato tutta la partita, è riuscito invece ad equilibrarsi negli ultimi minuti con Dinwiddie, come ad esempio nell'ultima, splendida vittoria contro Portland (42 punti e tripla doppia, fantascienza pura, ma la differenza l'ha fatta il giorno off passato immerso nel ghiaccio), il risultato è cambiato e Dallas ha iniziato improvvisamente a somigliare alla finalista dell’Ovest dei playoff 2022, nonostante tutto il supporting cast sottotono (esclusi l’ex Wizard, Wood e Josh “Mister Electricity” Green, l’unica vera bella sorpresa di questo avvio di stagione).

Ad oggi ad ogni modo non sembrano esistere risposte abbastanza convincenti per pensare razionalmente ad uno Usage Rating più prossimo al 32-33% se non quello di diminuire i minuti in campo di Doncic nel primo e nel terzo quarto. Un’opzione che Kidd sembra stia valutando insieme al resto degli assistenti (tra cui Marko Milic, amico di Luka e vecchia conoscenza del basket italiano, arrivato a Dallas quest’anno insieme all’altro amico dai tempi del Real Facundo Campazzo: dite che ci tengono a farlo felice?), così come quello di dare uno sguardo al prossimo calendario per capire quando far saltare qualche gara al numero 77 per consentirgli di staccare la spina. Il coach stesso ha ammesso che, se non dovessero trovare soluzioni adeguate, Luka rischia di «arrivare cotto intorno alla 25^ partita, cioè verso Natale».

Uno scenario che Dallas non può permettersi di percorrere, non avendo a disposizione alcun paracadute: Dinwiddie e Wood, così come Doncic, non hanno il talento per reggere da soli l’attacco di una squadra da playoff per più di qualche gara, a maggior ragione se i tiratori non riescono a punire raddoppi e close-out con la giusta efficienza e se non arriva da qualche trade un playmaker di riserva necessario come l’aria è difficile far cambiare le cose.

D’altronde, sempre in quella famosa conferenza stampa di Washington, quando hanno provato a chiedere a Doncic se il suo Usage Rating non fosse troppo alto, la sua risposta nel più classico e ironico accento slavo è stata emblematica: «Non guardo troppo questo genere di statistiche, di questi giorni voi giornalisti ne trovate per qualsiasi cosa: basta che uno si beva un espresso prima della partita e poi segni cinque punti per raggiungere un nuovo record». È abbastanza da MVP come risposta?

Rimane quindi il solito quesito, destinato probabilmente a diventare il refrain più frequente in questa prima parte di carriera di Doncic: come permettere a uno dei talenti più unici della pallacanestro mondiale di non sprecare altri anni, energie e salute mentale prima di iniziare ad essere competitivi per davvero? Chi potrebbe essere il giocatore più adatto a condividere con la superstar slovena il fardello offensivo dando pure una mano in difesa, magari per più di una stagione consecutiva? Ai posteri - e al GM Nico Harrison, che ha ancora da giocarsi l'all-in cedendo tutte le scelte di Dallas (sia direttamente che con pick swap) per una co-star dall'impatto immediato - l’ardua sentenza.

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