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Noi e loro
05 apr 2019
Più di 60 giocatori europei oggi giocano in NBA, e a gennaio 2020 la lega porterà in Francia una partita di regular season. A che punto siamo con il rapporto tra NBA ed Europa?
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La storia della National Basketball Association è composta da numerose pietre miliari e date da ricordare. Una di questa è senza dubbio il 9 agosto 2010: fu quello il giorno in cui l’allora commissioner David Stern annunciò quello che fu il picco del suo processo di globalizzazione della lega, ovverosia le prime partite di regular season disputate in Europa. «È con grande piacere che oggi annuncio che la NBA disputerà la sua prima partita di regular season di sempre su territorio europeo. Per me questo è un passo importantissimo nella progressione verso le prossime Olimpiadi di Londra 2012, che per noi costituiscono un’opportunità straordinaria per continuare la crescita della pallacanestro tanto in Europa quanto nel Regno Unito».

L’annuncio dei due match da disputarsi nella capitale britannica rappresentava, all’epoca, lo sbocco naturale di un processo iniziato più di un quarto di secolo prima. Già l’11 settembre 1984, qualche mese dopo l’insediamento alla guida della NBA dell’avvocato newyorkese, Phoenix Suns e New Jersey Nets diedero vita - nello scenario del vecchio Palazzo dello Sport di San Siro - al primo match di pre-season tra squadre NBA disputato nel Vecchio Continente e fuori dal Nord America. Quella del 1984 fu un’estate di passione per il rapporto tra NBA e Europa: la sfida di Milano fu il culmine di quasi tre settimane in cui Suns, Nets e i Seattle Supersonics avevano dato vita a una serie di sfide contro squadre europee in Germania, Israele, Svizzera e la stessa Italia. Tre anni dopo nacque il McDonald’s Open, torneo amichevole che metteva di fronte il meglio della pallacanestro mondiale e che ebbe vita fino all’alba del nuovo millennio.

Due squadre NBA torneranno poi ad affrontarsi sul suolo europeo, sempre in pre-season, nel 1993, a Londra. L’appuntamento coi Global Games diventerà poi più “fisso” nel 2006, in un momento storico in cui la presenza di giocatori europei nella lega più importante al mondo comincia ad essere l’abitudine e non l’eccezione, anche con la scelta di Andrea Bargnani alla prima scelta assoluta del Draft. Fino all’annuncio del 9 agosto 2010, però, l’Europa era stata coinvolta soltanto per partite di precampionato, per quanto l’idea di disputare partite di stagione regolare fuori dal Nord America non fosse nuova. Dal 1990 al 2003 sono state disputate 13 partite all’estero (12 in Giappone e una in Messico), ma era chiaro che l’annuncio di Stern era destinato a segnare un momento spartiacque per la storia della NBA.

Quasi dieci anni dopo quell’annuncio, e nove anni dopo le due sfide tra Raptors e Nets alla O2 Arena di Londra, la Lega compirà un nuovo passo di svolta nel suo processo di globalizzazione: il prossimo 24 gennaio, infatti, Charlotte Hornets e Milwaukee Bucks daranno vita alla prima edizione degli NBA Paris Game, la prima partita di stagione regolare disputata in Francia, e la prima apparizione di una franchigia NBA in terra transalpina dal McDonald’s Open del 1997, quella che vide la partecipazione dei Chicago Bulls freschi di titolo NBA e prossimi al secondo three-peat dell’era Jordan.

Un’istantanea del McDonald’s Open 1997 tra Chicago Bulls e Olympiacos (John Gichigi /Allsport)

In questo decennio il rapporto tra NBA e Europa è cresciuto notevolmente, e non solo per l’elevata presenza europea nei roster delle 30 franchigie (dei 108 giocatori “Internationals” presenti a inizio stagione nella lega, 68 sono europei). Sono sempre di più gli allenatori europei che integrano gli staff tecnici, e il serbo Igor Kokoskov è entrato nella storia come primo allenatore europeo di nascita a guidare una squadra NBA. C’è molta più Europa anche a livello dirigenziale, non solo nelle 30 franchigie ma anche nelle gerarchie della lega stessa.

Ma come si è arrivati alla situazione attuale dei rapporti tra NBA ed Europa? E cosa vuole mostrare, di sé, la lega quando arriva nel Vecchio Continente? Abbiamo provato a rispondere a queste domande chiedendo direttamente l’opinione di diversi addetti ai lavori.

Oltre il parquet e i 48 minuti di gioco

Spesso questo aspetto viene sottovalutato, ma una singola partita NBA non implica solo il trasferimento, per qualche giorno, di due squadre e relativi addetti ai lavori. Da alcuni anni a questa parte, i 48 minuti (più eventuali supplementari) di gioco sono più che altro il culmine, la ciliegina sulla torta, di un’intera settimana in cui la lega replica la sua essenza in un altro continente. Una delle attività principali, ad esempio, è la creazione di clinic nell’ambito del progetto Junior NBA: pomeriggi in cui studenti delle scuole hanno la possibilità di allenarsi e giocare seguiti da istruttori NBA e giocatori o leggende della lega.

«Mi ricordo bene quando, nove anni fa, firmavo autografi in un centro commerciale» afferma John Amaechi, ex centro di Cavs, Magic e Jazz e “padrone di casa” ogni qual volta la NBA viene nel Regno Unito. «Adesso la gente si sta rendendo conto di come non ci sia soltanto la partita del giovedì sera, ma un’intera settimana di attività, talk, con Junior NBA, con la possibilità di interagire con personaggi della Lega. Se un singolo bambino è in grado di portare con sé un minimo dettaglio di un’attività, sarà cresciuto grazie alla presenza dell’NBA».

Nel 2011 John Amaechi è stato insignito del titolo di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico per i suoi servizi nello sport e nel volontariato. È il primo giocatore NBA della storia ad aver dichiarato la sua omosessualità. (Mark Runnacles/Getty Images)

È della stessa lunghezza d’onda Phil Chenier, campione NBA con i Washington Bullets nel 1978 e più recentemente commentatore tecnico in tv: «Si forma una connessione. I ragazzi hanno a che fare con personaggi che prima di quel momento avevano visto solo in tv, e possono interagire con loro, creando una connessione. Con l’NBA che ha sempre in testa l’obiettivo di lasciare un’immagine positiva di se stessa».

La programmazione di attività extra-campo in grado di coinvolgere le comunità locali vede in primo piano il ruolo degli ambassador NBA, ex giocatori che appese le scarpe al chiodo si mettono a disposizione della lega, girando il mondo in rappresentanza della lega oltre alle loro attività personali. Tra di loro c’è Caron Butler, campione nel 2011 coi Dallas Mavericks e due volte All-Star, per cui questo ruolo ricopre un’importanza speciale.

«È un sogno diventato realtà, perché ho la possibilità di vivere esperienze sempre nuove che mi aiutano a mettere tutto in prospettiva» afferma Butler, il cui difficile percorso verso la NBA è raccontato nel libro autobiografico Tuff Juice. «Il basket mi ha salvato la vita, letteralmente. Mi ha dato la possibilità di uscire da un percorso verso un altro, di diventare la migliore versione possibile di me stesso. Oggi voglio raccontare la mia storia, lasciare un sorriso in chi incontro, essere d’ispirazione, far rendere conto di come, se hai un passato come il mio, la tua vita può cambiare. E non è necessario arrivare in NBA: puoi usare il basket come uno strumento in tanti modi diversi».

Butler in maglia Los Angeles Clippers. (Joe Robbins/Getty Images)

Anche per il suo trascorso di successo e per l’aver avuto tra i compagni di squadra in carriera i giocatori più importanti della sua generazione, Butler è tra le NBA Legends più richieste dai giovani britannici partecipanti ai clinic Junior NBA: «Quando sono davanti a qualcuno, che sia una telecamera o una platea di persone, sono me stesso. Senza filtri, senza tagli. Sta a te decidere se accettarmi o meno». A giudicare dall’affetto dei tanti partecipanti, la risposta sembra orientata verso il sì.

«Essere un ambassador NBA, per me, è la possibilità di passare un testimone» sostiene invece Muggsy Bogues, ex di Bullets, Hornets, Warriors e Raptors passato ai libri dei record per essere stato il giocatore più basso della storia NBA. «È un piacere avere la possibilità di collaborare ancora con la lega, per condividere la mia testimonianza e il mio esempio».

Bogues (a sinistra) ai tempi degli Hornets. (Stephen Dunn /Allsport)

«È bello, poi, come i giocatori di ieri e oggi continuino a restituire qualcosa ai giovani, alle comunità» continua Bogues. «Il “give back” è ciò che ad esempio ci ha portato a creare la Junior NBA, è un concetto che porto, e portiamo, in giro per il mondo ogni qual volta che rappresento la NBA». «Ai miei tempi i ragazzi avevano molte meno opportunità di confrontarsi con i giocatori NBA» sostiene Chenier. «Il loro entusiasmo è contagioso: proviamo a restituire loro non solo una tecnica di gioco ma anche un esempio, e la motivazione che porta a migliorare».

Rispetto agli anni scorsi quest’anno, nelle attività precedenti alla partita della O2 Arena tra Washington Wizards e New York Knicks, la NBA ha affiancato a giocatori - ed ex - anche rappresentanti del mondo della WNBA, a riconoscimento della crescita mediatica e d’interesse che ha attraversato la lega femminile negli ultimi anni.

«La WNBA ha da sempre una presenza oltreoceano, anche per le tanti giocatrici che giocano qui in off-season» afferma Elena Delle Donne, MVP nel 2015 e finalista nella scorsa stagione con le Washington Mystics. «È fantastico avere la possibilità di partecipare a eventi del genere, vedere come il livello del gioco sia in crescita in tutto il mondo e lavorare con i giovani».

Cinque volte All-Star, Elena Delle Donne ha anche vinto l’oro a Rio 2016 e al Mondiale 2018 con Team USA. (Lindsey Wasson/Getty Images)

Le fa eco Natasha Cloud, sua compagna di squadra nelle Mystics: «Il basket è uno sport inclusivo, come è testimoniato dalle tante donne che sempre di più lavorano in coaching staff o dirigenze NBA» afferma, «e mostrare quest’esempio ai ragazzi sin da subito dimostra l’importanza che il tema dell’inclusività ha per la NBA. Il lavoro che la lega fa con le Junior League è eccellente».

Mike Thibault, coach di Delle Donne e Cloud a Washington, sottolinea anche due aspetti collaterali del fattore “inclusivo” sempre presente nelle attività NBA: «Anno dopo anno vedo una crescita nel gioco, sin dalle prime annate. Sempre più ragazze giocano, e vedono il basket come uno strumento per arrivare all’università, o con l’obiettivo di giocare in WNBA o in Eurolega».

Mike Thibault, che lo scorso luglio ha raggiunto quota 300 vittorie in WNBA, ha anche vinto due titoli da assistente in NBA con i Lakers nel 1980 e nel 1982. (Rob Carr/Getty Images)

«Qui ho avuto modo di parlare con ragazze molto ambiziose» continua Thibault, l’allenatore più vincente della storia WNBA, «che chiedevano cosa ci vuole per raggiungere un livello alto. Non era così fino a 10-20 anni fa. È un qualcosa che osservo a livello mondiale: più bambini e ragazzi coinvolti in uno sport portano non solo a più giocatori, ma anche a più fan. Il basket ha una presenza importante a livello mondiale, una presenza che inseguiamo in continuazione».

Partecipare alla globalizzazione NBA

Coach Thibault, con quest’ultima osservazione, “abbraccia” la vocazione globale dell’NBA, una vocazione a cui la lega tiene molto e che non perde occasione di ribadire a ogni trasferta fuori da USA e Canada. «È la 91esima partita che l’NBA gioca in Europa» sottolinea, in conferenza stampa con i giornalisti, il commissioner NBA Adam Silver «e per noi è come un All-Star Game europeo: è il momento dell’anno in cui, durante la stagione, siamo qui per una settimana, e per i nostri uffici di Londra è l’occasione per organizzare attività con i nostri sponsor e incontri con la comunità».

La stagione 2019-20 non sarà un punto di svolta solo nel rapporto tra NBA ed Europa: Indiana Pacers e Sacramento Kings disputeranno le prime partite della storia della lega in India, a Mumbai, mentre i Los Angeles Lakers di LeBron James sbarcheranno per la prima volta in Cina, meno di un mese dopo la conclusione del Mondiale. Gli annunci di queste partite sono arrivati già lo scorso autunno, quasi in contemporanea al tentativo - poi fallito - della Liga calcistica di portare una sua partita (Barcellona-Girona) di campionato negli Stati Uniti, in un primo tentativo di replicare (a parti invertite) ciò che la NBA, ma anche l’NFL, fa da diversi anni.

Eagles e Jaguars si affrontano sotto l’arco di Wembley, in una delle tre sfide NFL giocate a Londra in questa stagione: una tradizione che si ripete dal 2007 e che dal prossimo anno vedrà anche l’entrata in scena del nuovo stadio del Tottenham. (Alex Pantling/Getty Images)

«Ho visto che in Europa c’è stata una particolare resistenza da parte di club e tifosi» riflette Silver, in riferimento alla vicenda spagnola. «Forse da noi non c’è questo atteggiamento anche perché la stagione regolare è più lunga, e chi viene qui rinuncia a una partita in casa su 41. Da parte degli Washington Wizards, poi, ho visto molto entusiasmo sul venire qui, e stiamo osservando una tendenza, nei giocatori europei, a godersi di più queste occasioni e trasmettere il loro entusiasmo ai loro compagni di squadra».

«Negli Stati Uniti abbiamo sicuramente una cultura sportiva diversa e non c’è mai particolare resistenza su questi punti» continua il commissioner «Ad esempio, quando i voli non sono troppo lunghi come quando veniamo in Europa, le stesse franchigie organizzano attività e iniziative per far viaggiare con loro alcuni dei propri tifosi. Ma allo stesso tempo sono un po’ geloso della special relationship, quasi tribale, che i tifosi di calcio hanno qui in Europa con le proprie squadre: negli Stati Uniti l’approccio è diverso».

L’entusiasmo descritto da Silver trova parzialmente conferma anche nelle parole dell’owner dei Wizards Ted Leonsis, presente a Londra nello scorso gennaio insieme alla squadra: «Abbiamo fatto domanda, per giocare questa partita, due anni fa» afferma «Per noi è una grande occasione, anche perché è la prima volta che giochiamo una partita di stagione regolare qui in Europa».

«Penso che Leonsis e la sua apertura mentale a questa opportunità siano la norma, non l’eccezione» sostiene Fred Katz, beat writer degli Wizards per The Athletic. «Penso che la lega e i proprietari nel loro insieme apprezzino questa opportunità: infatti la domanda, da parte delle squadre NBA, è in crescita. So che gli Wizards da subito hanno manifestato entusiasmo e disponibilità verso l’idea di giocare qui».

La possibilità di disputare una partita di stagione regolare in Europa è qualcosa che viene vissuta, davvero con entusiasmo, da parte dell’intera franchigia, nonostante rappresenti un’anomalia all’interno di una regolare stagione NBA, fatta di più partite giocate in una normale settimana. «Il ritmo del calendario NBA è abbastanza intenso e ti lascia poco spazio» dice Scott Brooks, coach di Washington. «Sapevamo dell’opportunità di venire qui a Londra dalla scorsa estate, e abbiamo usato questo viaggio per lavorare insieme e migliorare la nostra chimica di squadra e di staff, ma anche per vivere delle esperienze diverse dal solito».

Scott Brooks in una delle media availabilities a Londra nello scorso gennaio. (Dan Istitene/Getty Images)

«Oggi, ad esempio, abbiamo scattato alcune foto davanti al Tower Bridge. Chi vive qui e vede questi monumenti ogni giorno può quasi darli per scontati, ma per noi non è così: si tratta di vivere alcuni giorni in una delle città più belle del mondo, e per alcuni di noi è anche l’opportunità di giocare davanti a familiari e tifosi della loro nazione» continua Brooks, riferendosi in particolare a Tomas Satoransky e Ian Mahinmi, prevedibilmente i più richiesti dai giornalisti europei. «Oggi il gioco è veramente globale, non è più USA-centrico. È ciò che rende meravigliosa la pallacanestro».

Le radici internazionali di Washington risalgono a ben prima dello scorso gennaio o alla presenza, nel roster, del play ceco e del lungo francese: gli allora Bullets furono protagonisti della prima partita in assoluto giocata da una squadra NBA in Europa, un match nel settembre 1978 contro il Maccabi Tel Aviv. «Per l’NBA la globalizzazione del gioco è un motivo d’orgoglio» continua Katz «e tutto ciò che incentiva questo processo viene visto come estremamente importante».

Considerando il fallout di ogni passaggio della NBA all’estero, viene quasi da chiedersi se la globalizzazione della lega possa allargarsi anche alla sua galassia, includendo sempre di più la WNBA e magari aprendo alla possibilità di una partita femminile in Europa: «Sarebbe bellissimo, anche perché penso che ci sia un mercato solido» afferma Natasha Cloud. «Sempre più ragazze qui avrebbero la possibilità di vedere una lega, negli Stati Uniti, in cui sognare di giocare un giorno».

Natasha Cloud nelle ultime finali WNBA, vinte dalle Seattle Storm sulle sue Mystics. (Abbie Parr/Getty Images)

«La WNBA è in crescita» continua la Cloud «e spero che arrivi presto al punto in cui verrà naturale pensare a una partita qui in Europa, per estendere la nostra base di tifosi. «Sarebbe fantastico» rafforza il concetto Elena Delle Donne, «anche per la grande passione che c’è qui, ad esempio ho dei ricordi bellissimi del Mondiale giocato in Spagna la scorsa estate. Ma non è solo la possibilità di giocare una partita qui: vedere le nostre partite trasmesse in tv in tutto il mondo sarebbe già molto importante».

L’esempio degli Spurs e l’apertura inclusiva del gioco

È indubbio che non tutte le squadre NBA abbiano contribuito in maniera eguale alla globalizzazione del gioco e della lega stessa. In prima fila, da ormai due decenni, ci sono i San Antonio Spurs, tra i primi a intuire il potenziale valore aggiunto rappresentato dai giocatori international. «È il testamento del lavoro straordinario di RC Buford» afferma Bruce Bowen, tre volte campione NBA con i texani «e della sua capacità di cercare talento non limitandosi agli stessi Stati Uniti».

«Ad esempio, penso che le carriere di David Robinson e soprattutto Tim Duncan si siano allungate per la presenza dei pezzi giusti, trovati anche all’estero, che hanno permesso alla franchigia di mantenersi ai massimi livelli». Bowen è diretto nel riconoscere come un tale processo abbia bisogno di tempo, e anche di errori: «Mi ricordo l’arrivo, dalla Francia, di Antoine Rigaudeau. Era molto dotato tecnicamente, ma non era riuscito ad adattarsi alla fisicità della NBA. Quando succede, torni indietro e cerchi altri giocatori che pensi possano essere in grado di adattarsi a una pallacanestro diversa».

«Tempo fa» continua Bowen «alcune franchigie avevano un atteggiamento come a dire “Abbiamo abbastanza talento qui, perché cercarne altrove?”. Cercare giocatori all’estero non significava snobbare quelli che abbiamo da noi, anche perché negli anni tra Olimpiadi e Mondiali ci si rendeva sempre di più conto del valore dei nostri avversari».

Le manifestazioni internazionali sono state, nel corso degli anni, un punto d’incontro tra i due mondi: basti pensare all’effetto avuto sul basket mondiale dal Dream Team del 1992, ma anche dei fallimenti degli USA tra il 2002 e il 2006. Allo stesso tempo, però, hanno svolto una funzione di acceleratore motivazionale per tanti giocatori europei approdati, nel corso della loro carriera, al di là dell’oceano.

«Il talento c’è sempre stato, ma oggi ci sono più opportunità» sostiene il rumeno Gheorghe Muresan, passato alla storia come il giocatore più alto della storia NBA. «Dopo ogni partita che guardavo delle Olimpiadi di Barcellona avevo voglia di lavorare sempre di più in palestra, sempre più duramente».

Nel 1996 Muresan è stato il primo giocatore straniero della storia a conquistare il titolo di Most Improved Player nella NBA. (Philippe Lopez/AFP/Getty Images)

«Giocare una competizione internazionale ti dà la possibilità di brillare agli occhi del mondo, ma allo stesso tempo i giocatori hanno bisogno di allenatori e programmi di alto livello» continua Muresan, che dopo il ritiro da giocatore ha fondato un’accademia di basket nel suo paese natio. «I giovani cercano sempre qualcuno in grado di motivarli, una figura che funga da “mentore”. I giocatori NBA hanno anche questo ruolo».

La globalizzazione della lega, e la sua apertura al mondo, permettono alla NBA di esportare anche i suoi valori, di essere da esempio per generazioni di giovani atleti e tifosi anche fuori dal rettangolo di gioco. Il ruolo dell’NBA come leader “etica” nello sport mondiale è abbracciato ormai da generazioni, e lo stesso Silver riconosce «l’importanza della nostra piattaforma, che permette ai nostri giocatori di esprimersi su tematiche importanti per loro».

In un’era in cui il tema della gender equality è sempre più sentito a livello mondiale, anche la NBA può giocare un ruolo decisivo. L’esempio di figure come Becky Hammon o Nancy Lieberman, membri di staff tecnici NBA, o di reazioni dure a fatti di attualità come l’annullamento (poi ripristinato in seguito) dell’All-Star Weekend a Charlotte in seguito a una legge statale discriminatoria nei confronti della comunità LGBT, sono due esempi di come l’inclusività e l’apertura mentale della lega siano, ormai, valori fondanti della stessa. «Il basket è uno sport inclusivo» sostiene John Amaechi «che può essere giocato e condiviso da chiunque: qui nel Regno Unito abbiamo tanti sport “divisi per genere”. Possiamo essere un esempio».

Attualmente Becky Hammon è nella sua quinta stagione nello staff dei San Antonio Spurs. Nel luglio 2015 ha guidato gli Spurs alla vittoria della Summer League di Las Vegas, diventando la prima allenatrice donna a raggiungere tale traguardo. (Christian Petersen/Getty Images)

L’inclusività del basket, come abbiamo già visto in precedenza, non si limita soltanto a queste occasioni, ma si allarga in maniera trasversale a tutta la galassia NBA: «Quando ho visto Sue Bird assunta dai Denver Nuggets mi sono emozionato» afferma Caron Butler, «perché quando tu parli della conoscenza del gioco o dell’essere un vero campione, parli di lei, di Lisa Leslie, di Cheryl Miller, donne che sono fianco a fianco coi più grandi del nostro gioco. Penso che sia importantissimo, quindi, riconoscere i loro meriti, la loro importanza e dare loro possibilità e spazi uguali ai nostri».

Da Londra a Parigi, da Parigi a...?

Dopo nove anni di presenza quasi ininterrotta, il 2020 sarà l’anno del grande trasferimento da Londra a Parigi: città separate tra loro da un relativamente breve viaggio in treno attraverso la Manica, ma di grandissime differenze per quanto concerne la passione per la pallacanestro. «Riconosco che ci siano mercati europei con un’affinità per il basket maggiore che qui in Inghilterra» dice Adam Silver. «In parte è stato un matrimonio di convenienza, ma di grande successo: ogni partita qui va soldout nel giro di poche ore, e Londra rappresenta un hub facilmente accessibile dagli Stati Uniti».

Fred Katz è diretto nel rafforzare l’idea di Silver e indicare i due punti fondamentali che hanno fatto di Londra il “Virgilio” delle partite di regular season NBA in Europa: «È la città più vicina agli Stati Uniti, e la differenza di fuso orario è abbastanza ridotta». «Londra ha giocato un ruolo fondamentale nella globalizzazione della NBA» rivendica con orgoglio John Amaechi, «e penso che la lega sia molto contenta del feedback che vi è anno dopo anno».

Amaechi era poi dubbioso nell’individuare nella Brexit una delle motivazioni per quella che a gennaio era un possibile arrivederci a Londra, e che nel frattempo è diventato realtà. Il cambio di scena era nell’aria, anche a rileggere oggi le parole di Silver a gennaio: «La Francia storicamente è un mercato molto importante per noi, abbiamo tanti giocatori francesi in NBA. Ricordo bene quando siamo venuti con i Chicago Bulls di Jordan e l’entusiasmo che vi era attorno alla squadra: penso che continuerà ad essere un mercato molto importante, non vediamo l’ora di tornare a Parigi».

Lo sbarco oltralpe potrebbe rappresentare, per l’NBA, un punto di partenza di un futuro composto da più partite di stagione regolare in Europa, sulla scia di quanto avviene da qualche stagione in Messico, dove tre squadre giocano un totale di due partite nell’arco di una settimana, e una passione dei tifosi in crescita negli ultimi anni.

«Penso sia una possibilità che la NBA sta esplorando» afferma Fred Katz. «Come avviene a Città del Messico, può avvenire anche qui in città come Londra, Parigi o Barcellona, luoghi che hanno arene ideali per gli standard NBA. Noi come media adoriamo questa possibilità, e penso sia qualcosa che anche nella lega stessa sia guardata con attenzione. E in Europa c’è grande passione».

Una panoramica dell’ultima gara NBA giocata nello scorso dicembre a Città del Messico. Dal 1997 a oggi, sono state nove le partite di regular season disputate nella capitale messicana. (Pedro Pardo/AFP/Getty Images)

Scott Brooks, invece, è ottimista per quanto riguarda l’aspetto logistico del disputare più partite di stagione regolare anche in Europa: «È qualcosa che puoi fare funzionare» ammette l’allenatore dei Wizards. «Le squadre avrebbero comunque bisogno, come ora, di qualche giorno libero prima e dopo il viaggio, ma sarebbe una grande opportunità per ampliare la globalità del nostro gioco e della nostra lega».

È lo stesso commissioner, inoltre, a sottolineare come l’Europa sia in prima linea, rispetto ad altri continenti, per quanto riguarda partite di stagione regolare rispetto a gare di pre-season, che verosimilmente in futuro saranno sempre più concentrate in paesi come Cina o India e in continenti come il Sud America: «Quando giochiamo partite di stagione regolare all’estero, il calendario è più compatto e non consente troppo tempo per attività con le comunità, visti i tempi dedicati a viaggi e recuperi. Mi confronto continuamente con l’Associazione Giocatori su possibili modi per rinfrescare e innovare la struttura del nostro calendario. Un’idea, ad esempio, potrebbe essere quella di creare dei tornei, durante la stagione, in Europa, in Asia, in America Latina o in altre parti del mondo».

L’idea dei tornei, mutuata dalla competitività continua del sistema sportivo europeo, ha sostituito quella ricorrente delle “franchigie europee”, discussa per anni anche per “inseguire” la NFL, che da tempo valuta attivamente la creazione (o lo spostamento) di una franchigia con base a Londra, facilitata da un calendario che renderebbe il progetto più fattibile di un equivalente NBA giocando una sola partita a settimana.

È certo, però, che la special relationship che intercorre tra NBA ed Europa abbia fatto passi da gigante nell’ultimo decennio ed entra nella terza decade del terzo millennio con rinnovata voglia di crescere e di innovazione. L’Europa, forse più di altri continenti, continua a dimostrarsi un mercato maturo e ricettivo nell’accogliere tutto ciò che deriva, soprattutto fuori dal campo, dalla presenza di una stella NBA o di una squadra.

Sembra quasi passato sotto traccia il fatto che sono ormai tre anni che una squadra NBA non viene a disputare partite di preseason in Europa contro squadre di club europee (gli ultimi furono gli Oklahoma City Thunder nell’ottobre 2016), e forse questa è la testimonianza più grande di una specie di maturità dell’Europa nei confronti dell’NBA.

Un momento di Oklahoma City Thunder - Barcellona, partita della pre-season 2016. (David Ramos/Getty Images)

«Giocare in paesi diversi è speciale, e lo è ancora di più quando hai giocatori in squadra di un determinato paese» afferma Muggsy Bogues, in riferimento alla possibile presenza nel prossimo gennaio di due icone del basket transalpino come Tony Parker e Nicolas Batum in campo nella prima edizione degli NBA Paris Games. Contando la predominanza del continente europeo nella compagine international in NBA, non è difficile scommettere ad occhi chiusi sull’importanza del ruolo del Vecchio Continente nella lega che verrà.

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