
Tra il gioco senza difetti di Cade Cunningham e l’atletismo scintillante di Jalen Green, era facile perdere di vista Evan Mobley. In un Draft dominato dai giocatori perimetrali e dalle ali versatili, il prodotto di University of Southern California è stato l’unico lungo “vero” scelto in Lottery, quasi una mosca bianca in una lega che tende sempre più verso il perimetro. La posizione stessa in cui è stato scelto dai Cleveland Cavaliers, la 3, non era particolarmente interessante: la sensazione è che i Cavs fossero quasi “costretti” a sceglierlo dopo che Cunningham e Green erano stati chiamati alla 1 e alla 2 secondo pronostico, e quindi senza neanche il pungolo della curiosità — quello dato ad esempio dalla decisione di Toronto di andare su Scottie Barnes alla 4 invece del più quotato Jalen Suggs, finito alla 5 — Mobley è stato messo, in qualche modo, in secondo piano.
Le sue prestazioni in Summer League, poi, non sono state di certo memorabili. Mobley è sembrato molto indietro fisicamente, incapace di tenere bene il campo dal punto di vista muscolare anche in una versione annacquata della NBA come è quella che si gioca in estate a Las Vegas. E le non entusiasmanti impressioni destate a Vegas sono state confermate anche in pre-season, dove è sembrato in difficoltà a gestire i maggiori chili avversari venendo spostato più o meno a piacimento anche da mestieranti come Alize Johnson.
Dopo aver concesso la ricezione interna, nell’ultimo metro di campo Johnson fa quello che vuole contro Mobley che non sa come opporsi.
Il fatto è che era perfettamente normale che fosse così. La curva di apprendimento dei giovani lunghi è notoriamente più lunga rispetto a quella degli esterni che hanno la palla in mano, e capire come posizionare bene il corpo in difesa e in attacco è un processo che richiede molte ripetizioni in campo e ancor più sedute video fuori, per limare quella lunga sequenza di dettagli che alla fine permette di avere un giocatore NBA fatto e finito. Per questo le prime due settimane di Evan Mobley sono state decisamente sorprendenti: quando si è cominciato a fare sul serio, il lungo dei Cleveland Cavaliers si è dimostrato ben più avanti di quanto visto fino a quel momento — specialmente nella metà campo difensiva. E insieme a sé ha proiettato i Cavs in una dimensione diversa.
Il mostro a tre teste
La squadra allenata da BJ Bickerstaff è stata una delle più interessanti da seguire dal punto di vista tattico di questo inizio di stagione. Cavalcando la strutturazione del tutto particolare di un roster estremamente sbilanciato nel reparto guardie (ben 7) e in quello dei lunghi (altrettante) con soli tre giocatori catalogabili come ali, Bickerstaff ha varato un quintetto base con due guardie (Darius Garland e Collin Sexton) e tre giocatori sopra i 208 centimetri di altezza, vale a dire Lauri Markkanen, Jarrett Allen e lo stesso Mobley. In una lega che va nell’altra direzione, cioè di avere il maggior numero di giocatori intercambiabili tutti attorno ai due metri di altezza, il “mostro a tre teste” dei Cavs si propone davvero come un esperimento unico, ma che almeno in queste prime due settimane ha retto sorprendentemente bene.
La necessità di schierare Markkanen (ora fuori per positività al Covid-19 e sostituito in quintetto da un altro "lungo" capace di tirare come Dean Wade), Allen e Mobley assieme non nasce solamente dall’investimento economico fatto per i primi due (entrambi firmati in estate) o da quello in termini di capitali al Draft sul terzo, quanto soprattutto dalle scarse percentuali dall’arco degli unici “3” presenti nella rotazione, vale a dire Isaac Okoro (28.8% da tre in carriera), Cedi Osman (35.1%) e Lamar Stevens (17.2%). Markkanen supera appena il 36% da tre punti in carriera, ma su un volume di tiri più rispettabile (10 tentativi su 100 possessi) e una nomea certamente più riconosciuta in giro per la lega; schierarlo come “spot-up shooter” aiuta anche a metterlo nelle condizioni di prendere il minor numero di decisioni possibili dal punto di vista offensivo, semplificandogli il compito e lasciando che siano gli altri a creare per lui, preoccupandosi solo di tirare quando chiamato in causa.
Ma se offensivamente Markkanen, Mobley e Allen sono ancora un work inprogress (sotto i 98 punti segnati su 100 possessi secondo Cleaning The Glass, nel 9° percentile della lega), è difensivamente che i tre si sono resi sorprendentemente efficaci. Nei 284 possessi che hanno condiviso in campo hanno concesso appena 99.7 punti su 100 possessi agli avversari, dato che scende ulteriormente a 93.7 con Garland e Sexton nel backcourt (88° percentile della lega, il quarto migliore tra quelli con almeno 100 possessi giocati). Tutti e tre, infatti, sono sorprendentemente versatili: avendo più o meno lo stesso tipo di corpo, possono scambiarsi indifferentemente le marcature lasciando sempre uno o più giocatori dalle braccia lunghe pronti a chiudere l’area (concedono solo il 60.5% al ferro, nono miglior dato della lega) quando e se vengono battuti sul perimetro.
La chiave per far funzionare questo meccanismo è indiscutibilmente Mobley. Con la sua apertura di braccia e la sua mobilità laterale riesce a coprire enormi porzioni di campo, cancellando gli errori dei compagni e facendosi sempre trovare in aiuto per dare una mano. La sensazione è di vedere in campo una piovra pronta ad avvilupparsi attorno agli attaccanti avversari, una visione acuita anche dalla sua particolare conformazione fisica, con le braccia e le gambe che sembrano fin troppo lunghe per un tronco ancora esile e bisognoso di robuste sessioni di pesi nelle estati a venire. Mobley è il secondo giocatore in tutta la NBA per tiri contestati con 19.1 a partita dietro solo a Jakob Poeltl (19.4), ma a differenza del centro di San Antonio è dodicesimo per triple contestate (6.3 a partita), in un gruppo in cui è l’unico lungo insieme a Christian Wood e ampiamente il più giovane del lotto.
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Una dimostrazione di cosa significa contestare 19.1 tiri a partita.
La presenza difensiva di Mobley è talmente incombente sugli avversari da portare coach Bickerstaff anche a schierarlo in punta in una zona 3-2, in un ruolo solitamente riservato alle ali della conformazione fisica di un Kawhi Leonard, non certo di un lungo. In quel ruolo Mobley può sfruttare ulteriormente la sua onnipresenza, facendosi trovare sia al “punto di attacco” sia al centro dell’area per aiutare se qualcuno dei suoi compagni viene battuto sul perimetro, cosa che succede abbastanza spesso con due guardie sottodimensionate come Garland e Sexton. Il risultato finale è che con Mobley in campo i Cavs concedono 5 punti su 100 possessi in meno rispetto a quando non c’è e che il defensive rating di Cleveland si posiziona al 18° posto della classifica — una parvenza di mediocrità che i Cavs non provavano dalla stagione del titolo 2015-16, quando chiusero al 10° posto. Nei cinque anni precedenti e nei cinque anni successivi a quello del titolo sono sempre stati sotto al 18° posto difensivo, con un ultimo quadriennio raccapricciante (un ultimo posto, due penultimi posti e un quint’ultimo posto). Dovessero essere nella metà buona della classifica a fine anno, potrebbero pensare di organizzare una parata per festeggiare.
La metà campo difensiva è certamente quella migliore dei Cavaliers in questo inizio di stagione, ma non è di certo perfetta. Markkanen, Mobley e Allen, avendo all’incirca lo stesso tipo di fisico (lungo, slanciato e mobile), condividono anche gli stessi difetti, a partire da un baricentro molto alto e facilmente spostabile dai giocatori più fisici. Solamente Minnesota in questa stagione concede più rimbalzi offensivi di loro (quasi un rimbalzo disponibile su tre finisce nelle mani degli avversari) e la presenza contemporanea di tre lunghi permette agli avversari di volare in transizione. I Cavs riescono a difendere a difesa schierata meno del 75% delle loro azioni difensive (peggior dato di tutta la NBA) e, pur avendo una discreta efficienza nel difendere in transizione, il mero volume degli avversari finisce per metterli in difficoltà.
I lampi della metà campo offensiva
Se Mobley è il principale candidato al premio di Rookie dell’Anno insieme a Scottie Barnes di Toronto non è solamente per la sua presenza difensiva, ma anche per i lampi che si sono intravisti in quella offensiva. Fintanto che può usare le sue qualità e non gli viene richiesto di uscire dallo spartito, Mobley è già un lungo competente: sa finire nei pressi del ferro (80%), è in grado di mettere decentemente palla per terra (con un po' di fatica negli spazi stretti), sa dialogare con i compagni (11% di percentuale di assist) e seppur non sostenuto particolarmente dalle percentuali finora ha fatto intravedere una meccanica di tiro tutt’altro che rotta, almeno quando ha avuto tempo di tirare (oltre il 50% quando viene lasciato libero, anche se soprattutto da due punti).
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Questa notte al suo debutto al Madison Square Garden ha messo in mostra tutto il repertorio, aggiungendo anche due triple e una serie di partenze brucianti dal palleggio, chiudendo con 26 punti, 9 rimbalzi e 5 assist e 11/15 al tiro.
Mobley dà il suo meglio però da passatore, in particolare quando viene coinvolto al gomito (dove può dialogare con Sexton e Garland coi passaggi consegnati) o meglio ancora quando può agire negli short roll in una situazione di 4 contro 3, nei quali è estremamente lucido nel leggere il posizionamento dei compagni — in particolare Markkanen e Allen.
Con il finlandese, in particolare, sembra avere già una sintonia automatica.
Mobley è ovviamente ancora indietro in termini di partecipazione al gioco (solo il 17.1% dei possessi passa dalle sue mani, settimo nella sua stessa squadra) e di efficacia (1.08 punti per tiro tentato, decisamente sotto media per un lungo, e 13.5% di palle perse), ma è comprensibile: al momento della sua scelta era chiaro a tutti che gli mancassero almeno dieci chili di armatura per poter avere un impatto in campo, ed è più che probabile che il suo rendimento cali con l’aumentare delle partite, della stanchezza e del minutaggio, anche perché in questo momento sta spendendo un numero di energie gigantesco ogni volta che è in campo per volare da una parte all’altra a chiudere buchi per tutti quanti.
Ma per sua stessa ammissione si sente «più avanti rispetto alla tabella di marcia», come ha detto dopo i 23 punti con 10/16 al tiro realizzati sul campo dei Los Angeles Lakers di LeBron James, il quale ha avuto solo parole di elogio per il nuovo punto di riferimento dei Cavs: «Cleveland ne ha preso uno buono, sarà un gran bel giocatore di pallacanestro in questa lega. Direi che hanno fatto un bel lavoro al Draft nel corso degli anni» ha detto con un sorriso, ricordando evidentemente di essere stato lui il capostipite delle scelte al Draft dei Cavs negli ultimi 20 anni.
Anche all’interno di una classe di rookie decisamente promettente come quella del 2021, Mobley è il candidato principale a conquistare il premio di Rookie dell’Anno, giocandosela almeno per ora con Barnes di Toronto. Soprattutto, con la sua onnipresenza difensiva potrebbe persino essere un candidato per un posto nei quintetti All-Defensive, una rarità assoluta per una matricola e ancor più impressionante se consideriamo che stiamo parlando di un lungo. Ma non è solo l’argenteria che conta: Mobley dà l’impressione di poter essere la pietra angolare attorno alla quale costruire il resto della squadra, il punto fermo da cui partire per prendere ogni decisione futura, a partire dalle estensioni di Garland e Okoro e il rinnovo di Sexton.
Per una franchigia che negli ultimi anni ha faticato enormemente anche solo a trovare una direzione da seguire dopo l’addio di LeBron James nel 2018, avere tra le mani potenzialmente uno dei migliori lunghi della lega e un possibile candidato al premio di Difensore dell’Anno è senza mezzi termini la miglior notizia possibile di queste due settimane di regular season. È passato poco, ma sembra davvero che i Cavs ne abbiano trovato uno buono, come dice LeBron James.