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La storia degli Warriors non è ancora finita
17 giu 2022
Golden State domina gara-6 a Boston e vince il quarto titolo in 8 anni, riaprendo la propria dinastia.
(articolo)
8 min
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Col senno di poi, stabilire qual è il momento in cui il risultato di una partita di basket viene deciso è un’operazione tanto furbesca quanto futile. Perché la storia recente del gioco, in particolare nell’epoca dell’uso massiccio del tiro da tre punti, insegna che non esiste svantaggio che, con un po' di tempo a disposizione sul cronometro, non possa essere recuperato. Detto questo, se si dovesse individuare l’attimo in cui il titolo NBA 2022 ha preso la direzione della baia di San Francisco, sarebbe impossibile non pensare al tiro da tre segnato da Steph Curry a metà del terzo quarto della partita di questa notte.

Curry direttamente dal logo su assist di Draymond Green in transizione: un grande classico degli ultimi 10 anni.

Con oltre 18 minuti ancora da giocare, e sulla scorta di quanto visto giusto un paio di settimane fa in gara-1, la partita, e quindi la serie, sarebbero in teoria ancora aperte. A scavare un solco tra le due squadre però non sono tanto i 22 punti di distacco, quanto la sensazione che i Golden State Warriors abbiano preso in via ormai definitiva il controllo della partita, e quindi della serie, dal punto di vista emotivo prima ancora che da quello tecnico-tattico. I Celtics, sulle spalle di un Al Horford ultimo ad alzare bandiera bianca, proveranno poi a recuperare, riuscendoci solo in parte, prima di arrendersi definitivamente.

Parziali e rimonte solo parziali

Eppure l’inizio di gara sembra seguire un canovaccio favorevole ai padroni di casa, che grazie alla consueta aggressività in difesa e a un Tatum ispirato in attacco dettano il ritmo. Proprio il jumper con cui l’ex Duke sigla il 22-16 a 2:53 dal termine del primo quarto, però, segna l’inizio della fine per i Celtics. Il parziale di 21-0 a cavallo tra i due quarti ribalta completamente l’inerzia della partita, ora saldamente nelle mani degli Warriors. Da lì in poi Boston viene risucchiata in un buco nero dove i difetti emersi in questi mesi vengono ingigantiti dall’abilità dell’avversario di sfruttare ogni palla persa (8 nel solo secondo quarto, saranno 22 alla sirena finale) e ogni minima distrazione in difesa.

Il parziale del primo tempo è il più lungo negli ultimi 50 anni di storia delle Finals; l’altro, un 20-0, appartiene sempre agli Warriors in gara-2 delle Finals 2019 contro Toronto.

La sensazione, al rientro dall’intervallo lungo, è che la tavola sia apparecchiata per uno degli ormai leggendari terzi quarti di Golden State. La valanga arriva a metà del parziale quando le triple di Curry e di un Otto Porter Jr. perfetto nello sfruttare lo spazio generato dalle attenzioni che la difesa biancoverde riserva ai compagni regalano agli Warriors un parziale di 12-3 che nel giro di 90 secondi porta il risultato sul 72-50. La reazione dei Celtics, declinata nel contro-parziale di 16-4 con cui chiudono il quarto, porta la firma di Jaylen Brown e Horford, che compensano la prestazione impalpabile di Jayson Tatum (2 punti e 1/8 dal campo nella seconda metà di partita).

Forse l’unico momento in cui i Celtics hanno davvero sperato di riprendere la partita.

Quello, però, sembra il massimo a cui i ragazzi di coach Ime Udoka possono ambire, perché Boston riesce a ricucire fino solo fino al -8 con la tripla di Brown a 5:35 dalla fine. Ogni canestro segnato costa ai Celtics una fatica tremenda, anche perché Golden State può contare su una versione vintage di Draymond Green (96.3 il defensive rating con lui in campo nella partita) che legge in anticipo le linee di passaggio e mette una mano sulla palla praticamente a ogni possesso difensivo. Se fosse un incontro di boxe, in vista dell’ultima campanella gli Warriors sarebbero davanti ai punti ma i Celtics avrebbero le fattezze dell’avversario che rifiuta di andare al tappeto. Il colpo del KO tecnico arriva a 4 minuti dal termine e a sferrarlo non può che essere Steph Curry.

La difesa dei Celtics a un certo punto ha alzato bandiera bianca e ha cominciato a fare cambio sistematico contro di lui, lasciando Horford in isolamento contro Curry. Ma l’aiuto non arriva e Steph legge perfettamente la situazione per due punti facili: la sua capacità di arrivare al ferro è di gran lunga migliore rispetto a quella dei primi tre titoli.

Un’altra tripla di Curry riporta Golden State a +15 e la partita, ammesso che fosse mai stata davvero aperta, si chiude lì. Cala il sipario sulle Finals e sulla stagione NBA tutta, che sul gradino più alto del podio ritrova delle facce familiari.

Un posto nella storia

È difficile collocare questo titolo, il quarto in 8 anni, nella dinastia degli Warriors, ed è ancora più complicato collocare questi Warriors nella storia del gioco. Forse la vittoria ottenuta stanotte può ricordare il trionfo di San Antonio nel 2014, costruito su un nucleo storico lontano dal picco di carriera ma ancora in grado di fare la differenza nei momenti decisivi, e su una serie di incastri perfetti nella composizione del roster. E se quegli Spurs potevano contare su un Kawhi Leonard ormai uomo-squadra, in questo titolo dei Dubs c’è molto di Andrew Wiggins, che con il suo apporto sui due lati del campo è stato in grado di compensare un gap fisico e atletico nei confronti dei Celtics (oltre a essersi preso cura di un certo Luka Doncic in finale di conference). E ci sono i contributi arrivati di volta in volta dai vari Jordan Poole, Otto Porter, Gary Payton II e Kevon Looney, bravissimi nel fare ciò che gli veniva chiesto, anche con minutaggi limitati a disposizione, e a concedere minuti preziosi di riposo alle stelle della squadra. Si spiega così una serie di finale che ha visto Draymond Green, a 2 assist dalla tripla doppia in gara-6, e Klay Thompson, discontinuo al tiro ma minaccia costante per la difesa dei Celtics e presenza solida in difesa, crescere di partita in partita. Quanto al terzo del trio, beh, confessiamo che è difficile trovare le parole adatte.

Tutto quello che si poteva aspettare da Curry in queste Finals e anche molto di più.

Il primo premio di MVP delle Finals è il giusto, logico coronamento di una serie in cui Steph Curry è stato per distacco il miglior giocatore in campo, risultato non proprio scontato alla vigilia. Negli occhi di appassionati e tifosi rimarranno l’iconica prestazione di gara-4, col senno di poi il vero crocevia di queste finali, oppure le triple senza senso - anche se arrivati a questo punto dovremmo tutti aver capito che se è Curry a prenderle quelle triple hanno un senso, eccome – con cui ha demolito le certezze dei Celtics in gara-2 e gara-6. Steph, che per la cronaca chiude la serie con 31.2 punti di media, il 48% dal campo e il 43.7% da tre su quasi 12 tentativi a partita (e ce n’è pure una da 0/9 in mezzo), è stato in grado di dominare il gioco pur avendo di fronte la miglior difesa della NBA, forse una delle migliori degli ultimi anni e dovendosela vedere in prima battuta con il miglior difensore dell’anno, Marcus Smart. A impressionare davvero, tuttavia, è stata la capacità di Curry di rendersi utile nella propria metà campo, dove ha saputo tenere negli isolamenti contro avversari sempre più grandi e grossi di lui, permettendo agli Warriors di accettare i cambi cercati con insistenza da Boston senza modificare i meccanismi difensivi di squadra. Queste Finals hanno insomma confermato, qualora ce ne fosse davvero bisogno, come Curry non sia solo il più grande tiratore di tutti i tempi, o uno dei più grandi attaccanti di tutti i tempi, bensì uno dei più grandi giocatori di basket di tutti i tempi, senza bisogno di specificazioni.

Gli Warriors, una squadra

Se è difficile collocare questo titolo degli Warriors nella loro storia e in quella del gioco, per ovvi motivi lo è ancora di più separarlo dalle prestazioni strepitose di Curry. Al di là dei singoli, però, la vittoria di Golden State è prima di tutto quella che si definisce una vittoria di squadra, di un gruppo di giocatori che ha saputo eseguire meglio degli avversari su entrambi i lati del campo, senza perdere mai il filo della partita o della serie. Ecco perché questo è più che mai il titolo di Steve Kerr. La sua capacità di rinnovare il roster, adattandolo alle esigenze di una identità di gioco che, pur con tutti i distinguo del caso, non è mai cambiata in modo sostanziale dal 2014 si è rivelata straordinaria. Così come straordinaria si è rivelata l’abilità nel gestire i singoli momenti delle gare, anche quando questo ha significato compiere scelte dolorose.

È opinione comune che quella uscita vittoriosa dalla battaglia con i Celtics sia la versione meno talentuosa degli Warriors allenati da Kerr, e forse è vero solo in parte. Di certo per tornare a vincere il titolo Golden State doveva sbagliare poco o niente e così è stato, a partire dalle rotazioni e dagli aggiustamenti tattici proposti da Kerr, che tra poco si metterà al dito il nono anello di campione NBA della sua carriera, il quarto da allenatore dopo i cinque da giocatore. Che questo trionfo sia il risultato dell’ultimo slancio, a tratti miracoloso, di una dinastia giunta al termine oppure l’inizio di una fase nuova, in cui al nucleo storico di cui sopra si accompagna la crescita dei tanti giovani presenti a roster, molti dei quali dal potenziale ancora inesplorato, lo dirà il futuro ma oggi come oggi importa poco. Perché in fondo gli Warriors nella storia c’era già entrati da tempo, e questa notte hanno solo, si fa per dire, scritto un altro capitolo, per certi versi inatteso, di un’epopea straordinaria.

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