Se per caso dovesse esservi venuto un colpo di sonno attorno alle 5 di questa mattina, convinti che comunque i Golden State Warriors sul +15 nel secondo tempo di una gara-1 di finale NBA non avrebbero mai potuto perdere, siete scusati. Da quando Steve Kerr siede su quella panchina ha vinto 21 gare-1 su 23: storicamente il loro stile di gioco così particolare costringe gli avversari a un periodo di adattamento che può durare anche più di 48 minuti, dando loro un vantaggio intrinseco all’inizio di qualsiasi serie. In più, gli Warriors in questi playoff non avevano ancora perso in casa (9 vittorie e zero sconfitte) e non avevano mai perso una partita in cui erano riusciti ad andare in vantaggio in doppia cifra (toccata già nel secondo quarto). Aggiungeteci un primo quarto fenomenale di Steph Curry (sei triple a segno, record nella storia delle Finals, per 21 punti, il massimo dai tempi di Michael Jordan nel 1993) e un terzo quarto alla Warriors da 38 punti realizzati di squadra e tutto sembrava apparecchiato per una facile vittoria di Golden State. E invece.
Boston ha approfittato dei minuti di riposo di Curry a inizio ultimo quarto per confezionare un parziale di 7-0 in poco più di due minuti e mezzo e mandare in frantumi la fiducia di Golden State, affidandosi alla metà campo più sottovalutata del loro percorso: quella offensiva. I Celtics non avrebbero mai potuto vincere questa partita senza il loro attacco, che è andato nettamente meglio della loro difesa: dopo un 2022 in cui la loro difesa giustamente si è presa tutte le copertine, è stata la loro capacità di segnare con alte percentuali a permettergli di ribattere colpo su colpo a ogni tentativo di fuga di Golden State. Anche dopo un primo quarto in cui Curry ha fatto quello che ha voluto, Boston era sotto solo di 4 lunghezze; anche dopo un secondo quarto in cui gli Warriors senza Curry erano riusciti a toccare il +10, i Celtics sono riusciti ad andare all’intervallo avanti di due; e anche dopo un terzo quarto da 38-24, gli ospiti sono riusciti a non affondare andando al massimo a -15. E anche quando Golden State nel quarto periodo ha inanellato cinque possessi consecutivi a segno (schiacciata di Iguodala, tripla di Thompson, sottomano di Green, step back e sottomano di Curry nel giro di tre minuti), ha risposto colpo su colpo per poi esplodere con il parziale di 17-0 che ha spaccato in due la partita, dando ai Celtics l’ottava vittoria in trasferta su 10 gare affrontate in questi playoff.
La forza dei Celtics oltre Tatum e Brown
Il tutto in una serata in cui Jayson Tatum e Jaylen Brown hanno litigato a lungo con il canestro, rendendo ancora più prezioso questo successo per coach Ime Udoka. Tatum in particolare ha vissuto la sua peggior prestazione al tiro in carriera segnando solo 3 dei 17 tiri tentati di cui 1/5 da tre punti, sembrando a tratti perfino esitante e poco preciso nel posizionamento dei piedi, lui che possiede uno dei footwork più cristallini che si siano visti in epoca moderna.
Brown costruisce per lui una tripla comodissima, ma Tatum ha zero fiducia nel suo movimento di tiro e finisce per calpestare la linea da tre punti, prima ancora di sbagliare.
Il leader dei Celtics ha però compensato con una prova di grande maturità emotiva prima ancora che tecnica: pur sapendo che in caso di sconfitta sarebbe stato massacrato per i suoi soli 12 punti realizzati, ha avuto la lucidità di lasciare che i suoi compagni si prendessero responsabilità offensive, distribuendo 13 assist — record per un esordiente alle Finals e ovviamente massimo in carriera. Non ha avuto visioni illuminanti nei suoi 13 passaggi vincenti, ma è stato bravo a muovere il pallone quando necessario leggendo la difesa con lucidità, finendo per commettere solo due palle perse.
Jaylen Brown ha litigato col canestro quasi quanto Tatum (6/17 nei primi tre quarti con 0/5 da tre per 14 punti), ma è stato il motivo per cui Boston è riuscita a riaprire una partita che sembrava chiusa. Il parziale di 9-0 con cui i Celtics hanno cominciato il quarto periodo è tutto farina del suo sacco, riuscendo ad attaccare Klay Thompson come non gli era riuscito nel resto della partita e chiudendo con 10 punti e 5 assist, segnando 4 dei 6 tiri tentati e attirando su di sé le attenzioni che poi Derrick White e Al Horford sono riusciti a sfruttare come meglio non avrebbero potuto.
Boston si è tenuta in piedi per tutta la partita grazie al tiro da tre punti, segnando 12 dei 29 tiri costruiti nei primi tre quarti (41.4%), ma è il 7/7 dall’arco che hanno pescato nel quarto periodo ad aver fatto la differenza — permettendo loro di rispondere a quei cinque possessi in fila in cui l’attacco di Golden State ha prodotto punti, per poi sorpassare definitivamente gli Warriors. Derrick White è stato fondamentale non solo per le due triple che ha realizzato nel quarto periodo (21 punti alla fine), ma anche per il lavoro difensivo fatto insieme a Payton Pritchard su Steph Curry che ha permesso a Ime Udoka di tenere Marcus Smart in panchina per ben nove minuti nel quarto periodo; Horford, pur passando una serataccia a rimbalzo difensivo contro Kevon Looney per tre quarti, è esploso nel finale segnando tutti i quattro tiri tentati per 11 dei suoi 26 punti finali, tra cui due triple e un canestro dal mezzo angolo che hanno spezzato le gambe di Golden State prima e dopo il timeout chiamato da coach Steve Kerr per fermare l’emorragia.
141 partite di playoff in carriera e quasi 36 anni di età per arrivare a questo punto. Ah, 6 triple al debutto nelle Finals non le aveva mai segnate nessuno.
L’attacco di Boston maschera i problemi in difesa
Boston è riuscita così a ribaltare una partita che in realtà, nella propria metà campo, aveva chiaramente perso nei primi tre quarti, specialmente nella marcatura di Steph Curry. Boston ha cominciato la partita trattando Curry quasi come fosse un tiratore normale e non il migliore di tutti i tempi, decidendo di passare sotto ai blocchi con Marcus Smart e di rimanere in contenimento con il lungo, concedendogli il tiro dal palleggio. Una scelta tattica suicida — accompagnata da evidenti errori di comunicazione tra i giocatori, che non riuscivano a identificarlo in transizione lasciandogli dei tiri che non si possono concedere a questo livello — che ha permesso a Curry quel primo quarto da 21 punti, pur riuscendo a togliere dal match gli altri (solo 11 punti realizzati da Wiggins e Thompson), e che hanno solo parzialmente modificato nella ripresa, senza pagare dazio su una manciata di tiri che Curry normalmente segna (5/14 nel secondo tempo con 1/5 da tre). Nel secondo tempo però sono riusciti in questo modo a togliere il classico movimento di uomini e palla di Golden State, facendo impantanare il loro attacco specialmente nel quarto periodo.
Un altro aspetto sotto il quale Boston ha faticato enormemente è quello della lotta a rimbalzo, uno dei cardini sui quali Golden State sta costruendo la sua cavalcata ai playoff. Kevon Looney in particolare si è rivelato un cliente scomodissimo per la difesa dei biancoverdi, conquistando sei rimbalzi offensivi (tanti quanti quelli di tutti i Celtics messi assieme) nei primi tre quarti che sono valsi buona parte dei 26 punti da seconda opportunità con cui Golden State è riuscita a mascherare un attacco a metà campo che viaggiava attorno ai 90 punti su 100 possessi. A voler semplificare estremamente la questione, a Boston è bastato proteggere il proprio canestro (zero rimbalzi offensivi concessi a Golden State nella parte competitiva del quarto periodo) per mettere la museruola all’attacco degli Warriors, che non hanno più segnato per quasi cinque minuti nel quarto periodo in casa — loro che prima di questa partita avevano il miglior attacco dei playoff per efficienza su 100 possessi.
Golden State non è riuscita a sfruttare la miglior partita di Steph Curry in questi playoff (nei quali aveva segnato 34 punti solo una volta) anche per i problemi che stanno avendo nel finire al ferro, in particolare con Draymond Green. Il leader emotivo degli Warriors si è preso ben 12 tiri (solo una volta in tutta la stagione ne ha tentati di più) segnandone due, con un pessimo 0/4 dalla lunga distanza e un ancor più terribile 2/8 nel pitturato, dove tutti gli Warriors assieme hanno realizzato solo 13 dei 29 tiri tentati. Una incapacità di finire al ferro che ha vanificato una serata da 19 triple realizzate di squadra e da 21 punti da palla persa contro i soli 10 realizzati da Boston, numeri che normalmente equivalgono a una vittoria comoda per la squadra di coach Kerr, che negli ultimi 8 anni aveva vinto 42 delle 44 partite in cui erano riusciti ad avere un vantaggio in doppia cifra nell’ultimo quarto.
Contro Boston non bastano 36 minuti di ottima pallacanestro
Se i ruoli tra Golden State e Boston fossero stati invertiti, con i Celtics rimontati dopo aver cominciato il quarto periodo davanti di 12 punti per poi essere battuti di 12 punti (mai successo nella storia delle Finals), avremmo dato la colpa all’inesperienza e allo scotto che qualsiasi squadra con zero esperienza alle finali avrebbe dovuto pagare. E in effetti comunque Boston nei primi tre quarti ha avuto dei passaggi a vuoto mentali prima ancora che tecnici, specialmente nel primo quarto in cui hanno faticato ad accoppiarsi con Steph Curry e con le due stelle in difficoltà al tiro. Ma ne sono usciti di squadra, lavorando ai fianchi gli Warriors sui 48 minuti (coach Udoka ha sottolineato come, aumentando la fisicità nel quarto periodo, sia affiorata anche la stanchezza di Golden State) e trovando delle triple cruciali nel quarto periodo con White, Horford e Smart per vincere una partita che, per come stava andando il match, avrebbero dovuto perdere. E questo è un segnale straordinario per le loro speranze di titolo.
La regola aurea dei playoff NBA è di non dare troppa importanza alle gare-1, che raramente sono indicative del resto della serie. Ma se non altro i Celtics hanno mandato un messaggio: questa squadra non è arrivata qui per caso e ha più risorse, anche offensive, di quelle che le erano state attribuite. Ora sta a Golden State mettere assieme 48 minuti di pallacanestro di alto livello, perché hanno già visto che 36 non bastano a questo livello di gioco.