C’è stato un momento, fino a non molto tempo fa, in cui avere spazio salariale significava essere potenzialmente in gioco per tutti i migliori free agent sul mercato, quindi su stelle in grado di cambiare il corso di una franchigia. Avere il salary cap libero da contrattoni e ritagliarsi quei 30 milioni per un “max contract” faceva fantasticare sulla possibilità di prendere quel giocatore in grado di far fare il salto di qualità alla propria squadra — senza dover attraversare i campi di battaglia del tanking, senza dover implorare gli déi della Lottery del Draft, senza dover sacrificare come un vitello grasso il proprio futuro in termini di scelte e asset. Un paio di contratti in scadenza e via, pronti a volare da una parte all’altra degli Stati Uniti per incontrare e cercare di convincere i migliori giocatori di pallacanestro al mondo.
Come ha sottolineato John Hollinger su The Athletic, però, da almeno tre anni a questa parte avere spazio salariale in free agency non conta quasi più niente. Probabilmente per via della pandemia, che ha scombussolato le certezze granitiche sui guadagni futuri e la rottura di un crociato che può sempre essere dietro l’angolo, la grandissima parte degli All-Star preferisce prendersi tutti i soldi e subito, invece che aspettare la free agency e avere il maggior potere possibile sul proprio futuro (e quindi potere negoziale nei confronti delle franchigie). La lezione di LeBron James degli anni ’10, cioè quella di firmare solo contratti a breve termine (annuali o al massimo triennali con opzione di uscita al secondo anno) è ormai archiviata: complici anche le regole del contratto collettivo, le estensioni di contratto sono sempre più favorite rispetto ai contratti con altre squadre, portando i giocatori più forti ad assicurarsi il prima possibile il maggior numero di dollari per il maggior numero di anni possibili — e pensare poi eventualmente al resto.
La NBA del nuovo “player empowerment”
I risultati di questo nuovo “modus operandi” delle superstar, che rappresenta un’evoluzione del “player empowerment” cominciato con The Decision di LeBron nel 2010, sono essenzialmente due. Il primo: la free agency non è più quel momento che tutti aspettavano e non ha più così tanto impatto sugli equilibri della lega, visto che i giocatori che cambiano maglia sono diventati relativamente pochi. Dei 25 migliori free agent individuati da The Athletic per quest’anno, solamente quattro (Fred VanVleet, Dillon Brooks, Bruce Brown e Donte DiVincenzo) hanno cambiato maglia in questa free agency, mentre ben 15 hanno rifirmato con la propria squadra, tre hanno esercitato la player option per rimanere nel loro contratto (seppur con l’esplicita richiesta di essere ceduti, come nel caso già concretizzato di Kristaps Porzingis, o di farlo a breve, come James Harden) e tre sono ancora in attesa di conoscere il loro destino (due restricted free agent come Grant Williams e PJ Washington, più Christian Wood). Lo stesso vale nel 2022, nel quale solo Jalen Brunson ha cambiato squadra tra i giocatori di un certo peso, e nel 2021 con i vari Lonzo Ball, DeMar DeRozan e Kyle Lowry. Tutt’altro tono rispetto al 2019, quando a cambiare squadra furono cinque superstar del calibro di Durant, Irving, Kawhi Leonard e Jimmy Butler, oltre a All-Star come Kemba Walker, Al Horford e D’Angelo Russell.
Di fatto la free agency non è più il momento in cui si pongono le fondamenta della squadra, ma il momento in cui se ne rifiniscono i dettagli — per carità, sempre fondamentali alla fine della buona riuscita della costruzione, ma non più così determinanti. I tempi in cui i Miami Heat liberavano tutto lo spazio per firmare LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh o anche solo quello di Brooklyn che firma in tandem Kevin Durant e Kyrie Irving (con la tassa DeAndre Jordan di contorno) sono lontanissimi, anche se parliamo solamente di quattro anni fa.
Ah giusto: anche Chris Paul, Russell Westbrook e Paul George cambiarono squadra quell’estate.
Il secondo risultato di questo nuovo modo di intendere la free agency è che è il mercato degli scambi a farla da padrone, anche se non soprattutto seguendo le volontà dei giocatori più forti. Intendiamoci: le richieste di scambio sono sempre esistite e sempre esisteranno — anche se nel nuovo CBA è scritto specificatamente che “qualsiasi giocatore o suo rappresentante esprima pubblicamente il desiderio di essere scambiato ad un’altra squadra può essere soggetto a una multa o una sospensione”, stimata in un massimo di 150.000 dollari —, ma negli ultimi anni i movimenti di mercato più grossi sono sempre nati da richieste di scambio più o meno accontentate.
Anche quest’anno non fa eccezione: tanto il Draft quanto le firme dei free agent sono rapidamente passate in secondo piano rispetto alla richiesta di Bradley Beal di essere ceduto (finendo poi a Phoenix), a quella di James Harden (esercitando la sua player option e chiedendo di essere scambiato dai Sixers) fino ad arrivare a quella più pesante di tutte, quella di Damian Lillard (dopo un lunghissimo tira e molla che ancora non si è del tutto concluso). E negli ultimi anni a smuovere gli All-Star sono state le richieste di essere scambiati dei vari Durant, Irving, lo stesso Harden (sia da Houston che da Brooklyn), Ben Simmons, Anthony Davis e via dicendo, fino ad arrivare all’assurdità di vedere Jae Crowder rifiutare di giocare per i Suns lo scorso anno aspettando di essere ceduto.
C’è chi pensa che questo sia un male (tra cui in primis la NBA stessa) e chi pensa che invece sia un bene, o quantomeno una naturale evoluzione del gioco. Lo ha sottolineato KD non molto tempo fa: «Le richieste di trade creano interesse e attenzioni sulla lega, che sono quelle che portano soldi» ha fatto notare. «Per tantissimo tempo sono state le squadre a prendere e cedere i giocatori; ora anche un giocatore può determinare dove vuole andare. Sono cambiate le regole del gioco».
Come le squadre si sono adattate al nuovo mondo
Le squadre, a loro volta, hanno imparato a muoversi in uno scenario completamente diverso. Sono ormai poche quelle che si affidano alla free agency per dare una svolta alla loro traiettoria, cercando piuttosto di trattenere i propri giocatori e poi eventualmente di aggiungere dei tasselli se avanza qualcosa. Il caso dei Sacramento Kings di questa off-season, da questo punto di vista, è emblematico: dopo la miglior stagione degli ultimi 17 anni in cui finalmente sono riusciti a tornare ai playoff, alla notte del Draft hanno ceduto la scelta numero 24 per liberarsi del contratto triennale di Richaun Holmes, facendo pensare che volessero puntare a un nome grosso sul mercato dei free agent come Draymond Green e Kyle Kuzma con i quasi 30 milioni di spazio che potevano ricavare rinunciando ad alcuni giocatori importanti ma certamente non fondamentali come Harrison Barnes e Trey Lyles. Invece hanno usato lo spazio salariale per prendere una riserva come Chris Duarte, hanno rifirmato i due veterani di cui sopra e hanno usato il resto dello spazio per estendere al massimo salariale Domantas Sabonis, legandolo alla franchigia per cinque anni a 217 milioni.
Sabonis è stato fenomenale in questa stagione, ene abbiamo scritto in tempi non sospetti, però 217 sono proprio TANTI.
Da una parte è comprensibile che una franchigia come Sacramento, zimbello della lega per più di tre lustri, si sia aggrappata alla prima parvenza di stabilità cercando di confermare in blocco la squadra che ha fatto così bene agli ordini di coach Mike Brown. Può anche darsi che ci abbiano provato sul serio per Green, Kuzma o qualche altro free agent da 25+ milioni l’anno prima di vedersi sbattere le porte in faccia, scegliendo quindi la via della stabilità per continuare a crescere. Eppure la mancanza di ambizione di fare un salto nel vuoto per provare ad andare oltre a quello fatto lo scorso anno, anche con il rischio di peggiorare il terzo posto conquistato in regular season, è in qualche modo deludente — o quantomeno meno interessante rispetto a uno scenario in cui un giocatore migliore di Barnes si potesse inserire in quello scacchiere, provando a salire al rango di contender.
Allo stesso modo alcune delle squadre con spazio salariale non lo hanno utilizzato per firmare i free agent, ma si sono invece rese disponibili per assorbire contratti indesiderati (basti pensare a Detroit con Joe Harris, Oklahoma City con Davis Bertans e Utah con John Collins) in cambio tutto sommato di pochi asset, se pensiamo che solo i Pistons hanno ricevuto due seconde scelte per il disturbo. Non molto tempo fa era prassi inserire almeno una prima scelta al Draft per liberarsi di certi contratti, mentre ora il prezzo per “l’affitto” dello spazio salariale libero è sceso drasticamente. Altre squadre come ad esempio San Antonio, invece di andare a dare fastidio ai Los Angeles Lakers con una offer sheet da quasi 100 milioni di dollari per Austin Reaves con tutte le clausole indigeste del caso (player option, trade kicker, pagamenti anticipati ecc…), hanno preferito lasciare che i gialloviola lo firmassero per appena 56 milioni in quattro anni preferendo il quieto vivere, posizionandosi per fungere da “terreno di scarico” di contratti indigesti per le eventuali trade di Lillard e/o Harden.
D’altronde a San Antonio è in arrivo “Vic”: se c’è una squadra che può permettersi di aspettare con tutta la calma del mondo, sono certamente gli Spurs.
Un altro dei motivi per cui le squadre non si affidano più così tanto alla free agency è che il rischio di strapagare giocatori mediocri è dietro l’angolo. Con il salary floor alzato al 90% entro l’inizio della regular season (traduzione: le squadre NBA devono avere occupato il 90% del salary cap dagli stipendi dei propri giocatori, pena pagare la differenza alla lega sostanzialmente per niente) e lo spazio salariale di tutte le squadre noto tanto ai giocatori quanto soprattutto ai loro agenti, i prezzi dei free agent che vanno oltre la mid-level exception a disposizione di tutte le squadre sotto la luxury tax è cresciuto. Si spiega anche così il triennale al massimo salariale che Houston ha dovuto dare a Fred VanVleet per convincerlo a lasciare Toronto e soprattutto gli 80 milioni in quattro anni per Dillon Brooks, che probabilmente avrebbe accettato di andare in Texas solo per quella cifra accontentandosi invece di un contratto minore per andare in una contender. Ma considerando che i Rockets non sono riusciti a raggiungere Brook Lopez e che l’editto del proprietario Tilman Fertitta è stato quello di provare a tornare rispettabili il prossimo anno, ecco che i loro 66 milioni di dollari di spazio salariale sono stati occupati — invece che da due giocatori da max contrattuale come si sarebbe potuto sognare tempo fa — da buoni/ottimi giocatori pagati più del dovuto. Lo stesso, pur con basi diverse, vale per Bruce Brown, che non “merita” 45 milioni di dollari in due anni ma che con un contratto favorevole alla squadra (il secondo anno è in team option) e un fit cestistico perfetto al fianco di Tyrese Haliburton risulta essere una firma più che difendibile.
In questo scenario — che deve tenere conto anche di un salary cap destinato a crescere di anno in anno complice il rinnovo dei diritti televisivi nel 2025, e soprattutto del “second apron” che limiterà fortemente la possibilità di spesa delle squadre dal monte salari alto — per le franchigie è diventato molto più semplice estendere i propri giovani giocatori di riferimento (Edwards, Ball, Haliburton, Bane) al massimo salariale da 25%, contratto che il più delle volte si rivela un vero affare, e pensare poi eventualmente al resto. Al contrario con i giocatori meno di grido in uscita dal rookie scale possono permettersi di “giocare duro” e portarli fino alla restricted free agency, che risulta — almeno fino ad ora — meno remunerativa per i giocatori rispetto al passato, vedendosi spesso costretti ad accettare una qualifying offer scommettendo per un anno su se stessi per ottenere il contratto che pensano di meritare.
Chi si è mosso bene e chi si è mosso male finora
La NBA è un ecosistema complicato, nel quale ogni pezzo ha influenza su un altro spezzando e ricreando equilibri continuamente, come le molecole dell’acqua. Le squadre e i giocatori che riescono a interpretare meglio certe dinamiche sono quelle che alla fine hanno i risultati migliori: si può discutere sull’aver sprecato alcuni degli anni migliori della sua carriera, ma non c’è dubbio che Bradley Beal dal suo punto di vista abbia ottenuto il massimo possibile, firmando un contratto fuori mercato un anno fa con l’aggiunta della rarissima “no trade clause” (unico in tutta la NBA che può rifiutare lo scambio in una squadra) che si è rivelata cruciale per farlo finire a Phoenix, dove finalmente se la giocherà per il titolo. Allo stesso modo invece Harden si è fatto del male da solo, rifiutando l’estensione di contratto da 161 milioni in tre anni che i Nets gli avevano offerto nell’estate del 2021 per poi ritrovarsi a guadagnarne molti di meno nelle ultime stagioni, chiedendo per due volte di essere ceduto dopo averlo fatto già a Houston. E vedendo quanti soldi ha perso, c’è da scommettere che sempre più giocatori sceglieranno l’estensione — consapevoli di poter chiedere la cessione anche solo dopo un anno.
Allo stesso modo tra le squadre c’è chi si è mossa benissimo e in fretta, come ad esempio i Lakers con una free agency più che soddisfacente tra conferme a costi/anni contenuti (Reaves, Hachimura e Russell) e firme di livello (Vincent, Prince, Reddish, Hayes) oppure Phoenix che armata solamente di minimi salariali ha costruito una panchina quantomeno rispettabile (specie considerando che le riserve, piuttosto scarse in termini di talento offensivo, giocheranno sempre con almeno uno tra Booker, Beal e Durant); e chi invece si è fatta prendere per il collo come Portland, che ha promesso 160 milioni di dollari in cinque anni a Jerami Grant per poi scoprire il giorno dopo che Lillard non voleva più giocare lì.
Ora i Blazers e i Sixers si ritrovano tra le mani la difficile gestione dei casi Lillard e Harden, cercando di estrarre il maggior valore possibile da una situazione in cui sono state messe spalle al muro dalle decisioni dei propri All-Star. Ma se Portland ha in casa l’erede designato di Dame in Scoot Henderson, potendo virare verso una ricostruzione potendo contare su un talento di primo livello, Daryl Morey a Philadelphia deve tenere sempre bene in mente le esigenze di competitività di Joel Embiid, non potendosi permettere di scambiare Harden solo per ricevere il maggior valore possibile, ma dovendo costruire la miglior squadra possibile per vincere subito. Ogni squadra NBA è in una situazione a suo modo unica: chi riuscirà a navigare meglio le acque della off-season si posizionerà meglio per dare la caccia al trono dei Denver Nuggets nella prossima stagione.