(copertina) IMAGO / ZUMA Press
Quando nell’aprile 2023 l’Associazione Giocatori (NBPA) e il Board of Governors della NBA hanno firmato il nuovo accordo collettivo sul quale si regge oggi la Lega, la sensazione era che si andasse verso un territorio nuovo e inesplorato: sette lunghi anni di cervellotiche innovazioni, con un termine fissato non prima del 2029 o 2030, in base a cosa si deciderà di fare con l’opzione per terminare l’accordo. Adesso, dopo appena due stagioni e una curiosa ma prevedibile metamorfosi emotiva, tutti vogliono la testa di CJ McCollum che quell'accordo lo ha trattato come presidente della NBPA (per sua fortuna appena sostituito da Fred VanVleet).
Tra le numerose accuse più o meno avvelenate, spesso provenienti da fan di squadre storicamente ed economicamente potenti quali Lakers, Warriors, Celtics, Knicks e via dicendo, in questo periodo è in voga quella di “aver messo fine alla Free Agency per come la conoscevamo”. Una frase intrisa di populismo, utilizzata da Draymond Green in un lungo discorso iniziato bene ma evolutosi in una conclusione dal tono paternalistico e autoreferenziale, ma che cela un problema reale. E attuale, dato che dal 30 giugno scorso sono ufficialmente iniziate le negoziazioni contrattuali e sembra già tutto finito, o quasi.
In un certo senso, è vero, la free agency e il mercato non sono più quelli di prima sotto le restrizioni imposte dal nuovo CBA. Ma non perché, come suggerisce Green, siano morti, anzi. Le regole sono semplicemente cambiate.
IL SECONDO APRON
La definizione per il sistema finanziario che regolamenta il mercato NBA è da sempre quella di “soft cap”, esiste cioè un limite di spesa chiamato salary cap, ma nulla vieta a ciascuna franchigia di superarlo.
Anche sotto il nuovo CBA le cose funzionano così, ma solo a patto che si rispettino determinate regole, e questo forse è il punto più controverso. Concetti come quello di “apron” e “hard cap” esistono da tempo, ma nel regime corrente si impregnano di un significato del tutto differente. Senza spiegare nel dettaglio l’intero sistema finanziario NBA, in questa free agency e in ogni conversazione di mercato sono quattro i numeri che è necessario tenere in considerazione per ogni squadra nella costruzione del proprio roster:
- salary cap: $154,647 milioni
- luxury tax line: $187,895 milioni
- primo apron: $195,945 milioni
- secondo apron: $207,824 milioni
Superare il salary cap non comporta alcun tipo di restrizione rilevante, fino a che non si arriva alla soglia della luxury tax, che innesca sanzioni pecuniarie progressivamente più aspre per scoraggiare anche i proprietari con maggior potere di spesa dal dilapidare eccessivamente i propri fondi. Se però la dirigenza di una squadra in piena finestra da titolo decide di non badare a spese, si possono raggiungere soglie più elevate, come quella dell’apron, che esiste dal CBA del 2017 e che comporta numerose restrizioni in trade o firme dei free agent. Nel nuovo regime si distinguono due fasce salariali, chiamate per semplicità con il nome di primo e secondo apron.
Entrambe rappresentano limiti importanti, non solo perché superarle implica limitazioni sul mercato, ma perché può capitare che una squadra muovendosi inneschi il cosiddetto “hard cap”. Questo è un meccanismo che impedisce categoricamente al monte ingaggi complessivo di eccedere la soglia del primo e secondo apron, arginando la spesa massima di ciascuna squadra e annullando provvisoriamente i vantaggi del soft cap.
Per quanto l’hard cap sia sempre esistito, l’introduzione della duplice fascia dell’apron e la maggiore facilità con le quali si può innescare sotto il nuovo CBA rendono de facto quello NBA un sistema ibrido: è vero che i limiti di spesa non esistono, ma è altrettanto vero che evitare l’hard cap si fa molto complicato per chi voglia restare competitivo. In particolare:
- SI INNESCA L’HARD CAP AL PRIMO APRON SE:
Per firmare free agent si usano eccezioni salariali come la bi-annual exception o una porzione della non-taxpayer mid-level exception superiore ai $5.7 milioni. Si effettua una sign&trade. Non si mantiene un rapporto di 1:1 tra gli stipendi in entrata e in uscita in uno scambio. Si usa una trade exception generata nell’anno fiscale precedente. Si firma un giocatore rilasciato con buyout nella stagione precedente con uno stipendio superiore a $14.1 milioni.
- SI INNESCA L’HARD CAP AL SECONDO APRON SE:
Per firmare free agent si usa la taxpayer mid-level exception. In uno scambio viene incluso denaro (cash considerations) o vengono ceduti due o più giocatori. Si usa la trade exception di una eventuale sign&trade per ottenere un giocatore in qualsiasi trattativa seguente.
Chi supera il secondo apron può solo ri-firmare i propri free agent, scelte al Draft, minimi salariali, mentre può effettuare scambi ma dove ci sia un solo contratto in uscita e gli stipendi in entrata (uno o superiori) non superino quello del giocatore ceduto. Ma non finisce qui.
Se una squadra chiude la stagione sopra al secondo apron, non può scambiare la propria prima scelta a sette anni di distanza dall’anno fiscale di riferimento (per il 2025, sarà il 2032). A questo punto, se una squadra eccede questa soglia per due dei seguenti quattro anni - perciò per tre anni su cinque - quella scelta verrà reindirizzata alla fine del primo giro del Draft di riferimento.
FOTO: Spotrac
Si capisce quanto problematico sia restare fuori dal secondo apron, sia evitare l’hard cap. Di conseguenza, il taglio dei costi per le franchigie si fa sempre più importante, finendo con l’influenzare il volume degli stipendi e il mercato stesso dei free agent, più conservativo e in alcuni casi stagnante.Quest’ultimo è per esempio il problema di giovani come Quentin Grimes, Josh Giddey, Cam Thomas e Jonathan Kuminga, free agent con restrizioni in uscita dai contratti da rookie: terze parti possono applicare un’offerta, ma la squadra che ne detiene i diritti può pareggiarla. Se non c’è interesse esterno e nessuna proposta di estensione, si crea una situazione di stand-by come quella attuale.
Questo perché nel nuovo sistema rimane difficile tracciare un valore economico dei role player adeguato a mantenere una certa fluidità, senza rinunciare a pagare le proprie stelle, retribuite anche più di prima con il nuovo CBA - soprattutto se eleggibili per un contratto al massimo salariale dopo essere stati per almeno sette anni nella stessa squadra, con uno stipendio al primo anno che può arrivare fino al 35% del salary cap.
Nella free agency del second apron, nulla è più importante della flessibilità. E di esempi che lo confermano ce ne sono stati diversi.
LO STRANO CASO DEI BOSTON CELTICS
Non è casuale che tra i più grandi hater del nuovo CBA ci sia Bill Simmons, noto podcaster e sportswriter statunitense, nonché grande tifoso dei Boston Celtics. «Apocalisse» e «una delle peggiori disgrazie nella storia dello sport professionistico» sono solo un paio delle definizioni usate in un recente sfogo sulla propria piattaforma. E come dargli torto?
La squadra campione NBA nel 2024 non esiste più. L’infortunio al tendine d’Achille subito da Jayson Tatum non è costato solo l’eliminazione contro i New York Knicks, ma anche l’introduzione di un regime di austerità da parte della dirigenza, consapevole di non poter sostenere certe spese in un’annata senza il proprio miglior giocatore e dunque meno competitiva.
Brad Stevens si è così trovato costretto a forzare la mano e smantellare un nucleo in piena finestra da titolo per scendere al di sotto del secondo apron, misura utile sia a risparmiare centinaia di milioni tra tasse e stipendi, sia a non incorrere in restrizioni per le future first-round pick.
A fine giugno prima è stato ceduto Jrue Holiday, poi è toccato a Kristaps Porzingis, mentre in free agency partirà quasi sicuramente Al Horford. Già solo le prime due mosse hanno portato la franchigia a risparmiare oltre $200 milioni tra stipendi e penalità programmate, scendendo provvisoriamente sotto il secondo apron.
La scelta si è rivelata tra l’altro intelligente su più livelli, uno competitivo e l’altro progettuale. Per Holiday è arrivato Anfernee Simons, combo guard di appena ventisei anni, capace di segnare a piacimento e soprattutto di unire volume a qualità al tiro da tre punti, caratteristiche perfette per il sistema di coach Joe Mazzulla. Georges Niang, invece, è un role player più navigato ma a sua volta dotato di un tocco vellutato da fuori, che potrebbe rivelarsi utile per svariati minuti in regular season e con un ruolo limitato ai playoff - o essere ceduto assieme al suo contratto da $8.2 milioni per un’altra pedina più giovane o per risparmiare ancora.
Anche senza Tatum, quindi, la squadra non è in pieno rebuilding, ma mira a confermarsi competitiva, seppur con meno ambizioni in post-season. E dal 2026 le cose potrebbero farsi ancora più interessanti. Sia Simons, sia Niang sono in scadenza, pertanto i Celtics potrebbero alleggerirsi di altri $36 milioni di stipendi alla fine della prossima stagione, proiettando il proprio monte ingaggi al di sotto della luxury tax line di circa $20 milioni.
Questo garantirebbe o lo spazio per firmare eventuali free agent di medio livello, o per effettuare senza restrizioni trade e sign&trade, o infine per confermare Simons qualora dovesse ergersi a starter di livello nell’ottica di una run playoff competitiva.
Dopo aver firmato Luka Garza e Josh Minott, Boston si trova di nuovo poco al di sopra del secondo apron, anche se non è nulla che non possa essere risolto con uno scambio minore o il taglio di contratti non-garantiti.
In questa piccola rivoluzione, i giocatori chiave dei piani a lungo termine di Boston - Tatum, Jaylen Brown, Derrick White - sono rimasti, e dal 2026 saranno presenti svariate opzioni per ricostruire un progetto vincente a partire da loro. Tutt’altro che le macerie dell’Apocalisse.
IL CASO ANCORA PIÙ STRANO DEI THUNDER
Vista la facilità con la quale, nel giro di meno di 48 ore, i Celtics hanno rinunciato a due (tre, considerando Horford) pedine fondamentali di un roster da titolo, ci si aspetterà che sia così per tutti, giusto?
E invece gli Oklahoma City Thunder hanno optato per il sentiero opposto. I campioni in carica hanno costruito il roster migliore della Lega se si guarda al rapporto qualità-prezzo, dato che non pagheranno la luxury tax nemmeno nella prossima stagione e hanno già i 15 contratti standard richiesti.
Ma in questa offseason non hanno badato a spese. Dopo una stagione storica da MVP e MVP delle Finals, Shai Gilgeous-Alexander si è accordato con OKC per un’estensione contrattuale al massimo salariale, che gli frutterà oltre $364 milioni da qui al 2031. A ruota, è toccato anche a Chet Holmgren e Jalen Williams con due designated rookie extension da cinque anni ciascuna.
I valori sono diversi, con il 35% del salary cap al primo anno del nuovo contratto per SGA, potenzialmente il 30% per Williams in base alle prestazioni e il 25% per Holmgren, ma la sostanza non cambia: i Thunder a partire dal 2027 pagheranno oltre $150 milioni di stipendi per tre giocatori.
Sebbene sembri inevitabile inneggiare al secondo apron, con Sam Presti non bisogna mai dare nulla per scontato. Il piccolo capolavoro consiste nell’aver fatto firmare a Gilgeous-Alexander il precedente contratto senza inserire alcuna player option, facendo sì che l’estensione a cifre gargantuesche non possa partire fino al 2027/28. Ciò significa che l’impatto dei nuovi accordi firmati da Holmgren e Williams sarà molto limitato anche nella stagione 2026/27, sebbene probabilmente sarà arrivato il momento di pagare la luxury tax.
Ma il secondo apron non sarà una minaccia fino al 2027/28, quando i Thunder avranno comunque già deciso cosa fare con valvole di sicurezza quali le opzioni sui contratti di Isaiah Hartenstein, Luguentz Dort e Kenrich Williams, datate 2026/27, alle quali aggiungere anche quella di Isaiah Joe nell'anno seguente. Considerando anche le numerose scelte a disposizione al Draft, che potrebbero essere convertite in giocatori di rotazione a più basso costo rispetto ai veterani in uscita, ci sono i presupposti per un ciclo che consentirebbe di evitare il secondo apron almeno per le prossime tre stagioni, forse addirittura quattro.
Instaurando un paragone con i Boston Celtics, si tratta di due casi agli antipodi, ma figli di una progettazione chiara e definita che potrebbe garantire successo da ambo le parti. Per quanto più conservativa, dunque, la free agency si sta dimostrando ancora variegata e tutt’altro che morta. Richiede solo di ideare stratagemmi innovativi e ragionati.
IL PARADOSSO DI DAMIAN LILLARD E BRADLEY BEAL
Tutt’altro che casualmente, la vera novità di questa offseason è di origine traumatica. C’è ancora un tendine d’Achille di mezzo, quello di Damian Lillard, ma questa volta i Milwaukee Bucks non hanno optato per un taglio ai costi marginali, bensì per un taglio vero e proprio.
L’ex Portland è stato infatti rilasciato con $113 milioni totali di contratto ancora da incassare, che verranno distribuiti su cinque stagioni, provocando un impatto annuale sul salary cap di $22.5 milioni per i Bucks fino all’estate 2030.
Una vera e propria follia, ragionando a lungo termine, se non fosse che per Milwaukee il tempo scorre più in fretta. Dopo il titolo 2022, la squadra non ha mai superato il secondo turno e si è schiantata contro il primo round ormai per tre stagioni filate. Il contratto di Giannis Antetokounmpo scade nell’estate 2027. Basta fare 2+2, e si comprende il motivo di una scelta così violenta e frettolosa.
L’utilità del taglio è stata quella di veder crollare l’impatto dello stipendio di Lillard di oltre $20 milioni, aprendo lo spazio necessario a numerosi movimenti di mercato dopo aver scambiato anche Pat Connaughton e aver lasciato andare Brook Lopez in free agency.
I Bucks hanno potuto firmare Myles Turner, lungo titolare dei Pacers usciti sconfitti qualche settimana fa alle NBA Finals, e un paio di nomi secondari come Gary Harris e Cole Anthony, sebbene l’arrivo di quest’ultimo sia ancora da ufficializzare.
Milwaukee ha poi confermato sostanzialmente tutto il supporting cast, ri-firmando Bobby Portis con un contratto più lungo e lavorando al risparmio su tutti gli altri nomi, tra i quali è da segnalare Gary Trent Jr., accontentatosi ancora di cifre irrisorie pari a meno di $4 milioni a stagione.
Un movimento drastico e penalizzante sul lungo periodo ha offerto una boccata d’aria nell’immediato a una squadra che flirtava con il secondo apron, permettendo numerose aggiunte e conferme per allungare il roster attorno a una superstar scontenta. Qualcosa di mai visto prima per il volume del contratto, e proprio per questo non meno sconvolgente di una qualunque trade inattesa.
Qualcosa che si è ripetuto a distanza di giorni, anche se in forma diversa, con Bradley Beal e i Phoenix Suns. La franchigia dell’Arizona ha provato in ogni modo a liberarsi dell’ex Wizards, avente però diritto di veto su ogni scambio grazie a una clausola contrattuale e titolare di un contratto da quasi $111 milioni nei prossimi due anni.
Un bel mattone per una squadra reduce da una stagione fallimentare durante la quale è stata dilaniata dal secondo apron, con il monte ingaggi più costoso della Lega e oltre $366 milioni di spese tra tasse e stipendi, e intenzionata a ripartire da zero dopo aver ceduto Kevin Durant. Dal momento che uno scambio di Beal si è rivelato impossibile per le suddette ragioni, è entrato in gioco il metodo Lillard, ma sotto forma di buyout.
Si tratta di una procedura diversa dal taglio, perché in questo caso la squadra e il giocatore stabiliscono di comune accordo la risoluzione contrattuale, pattuendo sia le cifre alle quali una parte rinuncia, sia quelle che l’altra si impegna a pagare negli anni a venire. Non è insomma un rilascio netto stabilito solo dalla dirigenza, come quello di Milwaukee.
Un esempio di più facile comprensione riguarda una vecchia conoscenza proprio di Phoenix, Vasilije Micic, arrivato ai Bucks nella trade di Connaugthon e che ha accettato di lasciare sul piatto sei degli otto milioni previsti da contratto, con i rimanenti $2 milioni che verranno spalmati sui prossimi tre anni. Una scelta obbligatoria per il giocatore, che recupererà senza problemi grazie alla remunerativa firma con l’Hapoel Tel Aviv, ma soprattutto per la squadra.
Le regolamentazioni nba non permettevano infatti un taglio secco: il massimo che si possa avere a libro paga in stipendi “morti” è $23.2 milioni, pari al 15% del salary cap; a causa dei $22.5 milioni dovuti a Lillard, spalmare gli $8.1 milioni di Micic sarebbe stato impossibile, mentre ridurre le cifre a $2 milioni su tre anni ha permesso ai Bucks di spaccare il centesimo, aggirando la normativa. I Suns con Beal hanno fatto lo stesso, ma a cifre immensamente superiori.
Phoenix doveva fare i conti con circa $4 milioni morti dovuti ai tagli di Nassir Little e EJ Liddell, che aggiunti agli eventuali $22.2 milioni a stagione per il taglio secco di Beal avrebbero portato a eccedere il tetto massimo consentito dalla Lega. Come per Micic, pertanto, si è escogitato un buyout.
Il giocatore ha lasciato sul piatto $13.9 milioni, e così la squadra ha potuto spalmare i restanti 97 su cinque stagioni, provocando un impatto salariale di poco più di $19 milioni l’anno e rientrando nei limiti sanciti dalla Lega.
Una situazione complicata, risolta dopo mesi di trattative a causa delle cifre elevatissime in gioco e dal fatto che Beal il 15 luglio dovesse ricevere un pagamento pari al 25% del proprio stipendio annuale che avrebbe complicato ulteriormente i calcoli. Questione, con ogni probabilità, risolta internamente e compensata in parte dall’immediata firma di un biennale da $11 milioni con i Clippers.
Un tran tran che Phoenix è stata però costretta ad affrontare per uscire dal secondo apron, passando da $14 milioni oltre questa soglia ad addirittura $2.1 milioni sotto la linea della luxury tax. Parliamo di $210 milioni salvati tra tasse e stipendi, sbloccando nel frattempo ogni sorta di eccezione, rimuovendo le restrizioni negli scambi e aprendo la porta al potenziale “scongelamento” della scelta al primo giro del 2032 nei prossimi anni.
Per quanto taglio e buyout differiscano nella forma, le situazioni di Lillard e Beal sono due facce della stessa medaglia, sacrifici senza un profitto concreto - scelte al Draft, giocatori, cash - di due massimi salariali per non incappare recidivamente nel secondo apron. Non importa quanto peseranno quegli stipendi morti in futuro, non importa quanti asset siano stati sacrificati per arrivare a quei giocatori, nessuno è al sicuro perché niente è più importante di evitare le restrizioni e le penalità introdotte dal nuovo CBA.
Per farlo, serve architettare minuziosamente raggiri, operazioni drastiche dai calcoli meticolosi e stratagemmi a volte agli antipodi l’uno dall’altro. Non ce ne vogliano Draymond Green e Bill Simmons, ma questi sono i classici elementi degni di qualunque free agency che si rispetti. Semplicemente, adeguandosi ai tempi del secondo apron.