Tra le molte critiche rivolte alla NBA c’è spesso quella di aver trasformato uno sport, il basket, in uno show business. La spettacolarizzazione di quanto avviene in campo, e secondo molti soprattutto fuori dal campo, avrebbe reso stucchevole il racconto dal parquet, con le partite a fare quasi da contorno per quello che sarebbe ormai un vero e proprio prodotto d’intrattenimento. Addirittura, tra i critici più accaniti, c’è chi ne paragona l’andamento degli eventi alle storylines studiate a tavolino della WWE, con un’immaginaria eminenza grigia che influirebbe su risultati e mosse di mercato nel tentativo di mantenere sempre alto il livello di attenzione dei media e della vasta platea di tifosi.
Se prendessimo per buona questa fantasiosa teoria, gara-6 delle finali della Western Conference del 2016 sarebbe da considerare come snodo fondamentale per le trame della lega, oltre che un capolavoro dal punto di vista della bravura nel disseminare colpi di scena tra le pieghe della sceneggiatura di fondo.
Prima di correre avanti e tuffarci nei cambiamenti che la vittoria dei Golden State Warriors metterà in moto, però, concentriamoci sulla partita. Una prestazione iconica, il vero e proprio atto fondativo del culto che Haley O’Shaughnesy di The Ringer definirà come ‘Klaytheism’. Un’impresa individuale e di squadra già entrata nella storia dei playoff NBA. Storia dei playoff NBA che, è bene ricordarlo, a fine maggio 2016 stava andando in tutt’altra direzione.
Funerale per 73 vittorie
Il clima che precede gara-6 è di quelli cupi in casa Warriors. Draymond Green e compagni sono campioni in carica, per di più reduci dalla miglior stagione regolare di sempre, ma la sensazione è che alla Chesapeake Energy Arena sia tutto pronto per rendere l’estremo saluto alle loro 73 vittorie. Dopo essere scampati all’eliminazione in gara-5, i Dubs tornano sul parquet dove sono stati annientati in gara-3 e gara-4. I 58 i punti di scarto accumulati tra le due partite pesano come un macigno sui pronostici di appassionati e addetti ai lavori. L’opinione comune è che i 31 punti di Curry abbiano solo rimandato il verdetto di una serie ormai indirizzata verso l’Oklahoma.
I Thunder, puntando forte sulla taglia fisica del loro pacchetto lunghi, sembrano aver scovato l’antidoto al celeberrimo Death Lineup, arma in precedenza considerata letale. Coach Steve Kerr, come avrebbe ammesso più avanti, si ritrova a corto di contromosse con cui provare invertire la rotta come aveva fatto l’anno prima contro Memphis, mettendo Andre Bogut a difendere sull’innocuo Tony Allen, e contro Cleveland, quando l’inserimento di Iguodala nel quintetto iniziale era valso il titolo e il premio di MVP delle Finals all’ex Philadelphia. Per quanto riguarda i ragazzi di Donovan, invece, tutto gira per il verso giusto, congiuntura favorevole confermata dal fatto che persino Dion Waiters ha contribuito in modo significativo alla causa.
Dall’altra parte Curry, MVP in carica per il secondo anno consecutivo, è palesemente limitato dai continui guai fisici. Kerr, nel discorso alla squadra poco prima di entrare in campo, non ha molto da dire e chiede semplicemente ai suoi di restare concentrati sulla partita che li attende, senza pensare alla serie e alle possibili conseguenze dell’eliminazione. Quello del coach degli Warriors è un tentativo più che comprensibile di alleggerire i suoi dal peso specifico della posta in gioco: non arrivare alle Finals dopo aver battuto il record di vittorie dei Chicago Bulls di Jordan. Anche dal punto di vista economico, gara-6 si prospetta epocale: un rappresentante del front office di Golden State nei corridoi dell’arena rivela al reporter Tim Kawakami che in ballo ci sono 60 milioni di introiti complessivi - dollaro più, dollaro meno.
Tutto come previsto
Le prima metà di gara conferma il canovaccio previsto, con i padroni di casa che controllano il ritmo partita. Vista a distanza di qualche anno, questa versione dei Thunder si rivela dotata di un’esuberanza fisica e atletica clamorosa, contro cui Golden State può ben poco. E l’esuberanza fisica, applicata con ferocia anche in difesa, marchia l’avvio degli avversari che sbagliano 13 dei loro primi 18 tiri, circostanza più unica che rara per la squadra che vanta il miglior duo di tiratori nella storia del gioco. Gli Warriors registrano anche 9 palle perse nei primi due quarti, confermando le difficoltà già emerse nelle gare precedenti. La supremazia fisica dei Thunder è confermata anche dal dato dei punti segnati in area: 30 contro i 14 di Golden State.
Russell Westbrook all’apice della sua esplosività.
Nonostante tutto, si va all’intervallo con soli 5 punti di vantaggio per OKC. A evitare un crollo simile a quelli di gara-3 e gara-4, dove gli Warriors hanno chiuso le prime due frazioni rispettivamente sotto di 25 e 19, è la difesa di Iguodala su Durant (6/19) e quella di Thompson su Westbrook (5/12). E Thompson, che ha tirato con il 30% nel primo quarto segnando una sola tripla, si addentra negli spogliatoi della Chesapeake Arena dopo aver ricacciato indietro ogni tentativo di fuga avversario, chiudendo il primo tempo con 16 punti nel suo boxscore. Il meno celebrato dei due Splash Brothers è in grande serata, una di quelle dove si trasforma in una implacabile macchina da canestri: nei primi 24 minuti di gioco Klay Thompson è stato per distacco il migliore dei suoi, ma nessuno può nemmeno immaginare di cosa sarà capace al rientro sul parquet.
Ibaka ritarda l’uscita sul tiratore in transizione, che si chiamerebbe Klay Thompson.
La genesi del Klaytheism
Il terzo quarto è tutto di Westbrook e Durant, che con 9 punti a testa galvanizzano il pubblico sugli spalti, al solito pronto a esplodere per ogni canestro dei due beniamini. A interrompere le esultanze dei tifosi di OKC, però, è Steph Curry, che gioca tutti i 12 minuti filati e segna 14 punti, di cui 11 consecutivi, ed è l’unico dei Dubs ad andare a segno nella seconda metà del quarto. Lo scontro tra i tre MVP passati, presenti e futuri è il preludio necessario affinché la sfida salga di colpi.
L’unica tripla della partita di Durant, che chiuderà con un terribile 1/8 dalla lunga distanza.
Steph porta a spasso l’intera difesa avversaria con l’aiuto del compagno prediletto di giochi a due, Draymond Green.
I Thunder affrontano l’ultimo quarto con 8 lunghezze di vantaggio, distacco che malgrado le tre triple di un Klay Thompson in trance agonistica mantengono per tutta la prima parte della frazione. Quando sul cronometro mancano 5:09 e il tabellino dice 96-89 per i padroni di casa, Durant e compagni cominciano davvero a intravedere il traguardo delle Finals. Golden State ha messo in campo tutto ciò che poteva: il pick and roll Thompson-Bogut ha funzionato bene, Harrison Barnes si è fatto trovare puntuale sugli scarichi negli angoli, i continui raddoppi per contenere Durant (che chiuderà la gara con 10/31 dal campo e 3 palle perse) si sono rivelati efficaci. Kerr manda sul parquet Iguodala, ripristinando il celeberrimo Death Lineup che fin lì nella serie è stato brutalizzato a turno da Kanter, Adams e Ibaka, e non opererà più nessun cambio fino al fischio finale, lasciando Green in campo senza curarsi dei 5 falli a suo carico.
Nei 5 minuti e 9 secondi che seguono, la partita si trasforma in un conflitto a fuoco che sembra tratto da un vecchio film di John Woo. Per godere appieno dello spettacolo occorre applicare una momentanea sospensione dell’incredulità e lasciarsi trascinare dal ritmo incalzante degli eventi. Ad aprire le ostilità è una tripla surreale di Klay Thompson, la decima della sua partita. È un tiro senza senso: Thompson di fatto muove a malapena il piede destro, a meno di mezzo metro dal logo di metà campo, mentre raccoglie il palleggio, eppure la palla va dentro.
Qui, in un film di John Woo, sarebbe il momento in cui qualcosa esplode o prende fuoco.
Quando la palla buca la retina, qualcosa negli equilibri in campo cambia. Cambia il linguaggio del corpo dei Thunder che appaiono sfiniti dall’opera di continua rincorsa a copertura sui tiratori, e OKC non riesce a capitalizzare sul vantaggio di 4 punti. Due triple consecutive di Steph, che prosegue nella staffetta con il compagno di reparto, aprono il campo e portano il punteggio in parità a quota 99.
Palla persa di Durant e contropiede fulmineo di Golden State (da notare la sagacia difensiva di Waiters).
Non bastasse, in attacco i Thunder sparano a salve, segnando 5 punti in tutto. La tradizione di casa continua e Donovan, come Brooks in precedenza, appare sprovvisto di un piano B da adottare nei momenti d’emergenza. L’identità della squadra è statica, priva di versatilità e Durant si ritrova a forzare il forzabile con soluzioni al gomito o in pindown. Il solo canestro dal campo, un layup su rimbalzo offensivo di Robertson, regala a OKC l’ultimo vantaggio della partita. Russell Westbrook si fa soffiare il possesso da Iguodala, mandando a referto la prima di quattro esiziali palle perse negli ultimi due minuti di gioco, il contropiede che ne consegue genera la tripla numero 11 di Klay Thompson e il sorpasso dei campioni in carica.
Lo storico scippo di Iguodala e l’undicesima tripla di Thompson: tutto in meno di 4 secondi.
Se fossimo davvero in un film di John Woo, questo sarebbe il colpo che abbatte il cattivo di turno. L’appoggio facile di Steph e la gita in lunetta di Klay sono le ultime pallottole, quelle assestate giusto per essere certi che l’antagonista non sia più in grado di rialzarsi da terra. Il pubblico di casa è ammutolito, frastornato da quei 5 minuti che hanno completamente ribaltato l’inerzia di una partita, e di una serie, che sembrava destinata a rimandare i Thunder in finale dopo quattro anni. C’è ancora il pretesto di una gara-7 tutta da giocare per cercare di non sprofondare nella disperazione, ma negli occhi dei tifosi locali, e ancor di più in quelli di Westbrook e Durant, si legge la consapevolezza di non essere stati in grado, ancora una volta, di cogliere l’attimo fuggente e di giustiziare l’avversario mentre era in ginocchio. Anche se il verdetto non è definitivo, la sensazione comune è che la fine di quel viaggio cominciato dopo il trasloco da Seattle sia davvero vicina e, con ogni probabilità, inevitabile.
Instant replay
Bob Myers, subito dopo il fischio finale, chiede di poter rivedere gli ultimi 5 minuti della partita. È una richiesta bizzarra, quella del GM degli Warriors, mai fatta in precedenza. Nemmeno lui, seduto a pochi metri dalla panchina di Kerr e dotato di una discreta familiarità con le dinamiche delle due squadre, riesce a capacitarsi di quanto è successo. Il tabellino, a dire il vero, qualche indizio lo fornisce: I Thunder hanno chiuso la gara con un tragicomico 3/23 dalla lunga distanza, inaugurando la tendenza a “vivere o morire di triple” che segnerà i playoff NBA negli anni a venire (chiedere a Rockets e Celtics per dettagli). E, a proposito di “vivere o morire di triple”, è acclarato come quando in campo ci sono gli Splash Brothers non esista rimonta impossibile. Soprattutto se Curry e Thompson tirano con il 53% da tre, combinando per un totale di 17 triple messe a segno e 71 punti complessivi.
Inoltre, il Death Lineup che tanto aveva faticato durante i primi cinque capitoli della serie, ha fatto segnare un parziale di +11 negli ultimi sette minuti di gara, suggellando un quarto conclusivo in cui Golden State ha piazzato un parziale di 33-18. Di spiegazioni logiche, insomma, ce ne sarebbero, eppure anche agli occhi di un osservatore esperto come Myers i 5 minuti finali di gara-6, quelli che hanno spostato gli equilibri a favore di Golden State, appaiono troppo concitati, confusi, un concentrato di emozioni difficile da decifrare a caldo.
Di certo c’è il protagonista indiscusso, Klay Thompson, che con i suoi 41 punti diventa il terzo miglior marcatore in una gara da dentro o fuori nella storia dei playoff NBA (meglio di lui solo il LeBron James in gara-6 contro i Celtics nel 2012 e George Gervin in maglia Spurs contro Washington nel lontano 1979). Le undici triple messe a segno, di cui cinque consecutive senza errori nel suo 4° quarto da 19 punti, sono un altro record per i playoff NBA e costituiscono una prova balistica senza eguali.
Devastante nello sfruttare i cambi automatici forzati dagli Warriors per accoppiarlo a Westbrook o Waiters, difensori tutt’altro che irresistibili, Klay si è anche sobbarcato per tutta la partita la marcatura dello stesso Westbrook al picco della sua prepotenza fisica. E la gara di Thompson si trasforma velocemente in leggenda, con tanto di aneddoti collaterali che vanno dal discorso motivazionale che Curry gli avrebbe fatto prima dell’ultima frazione di gioco fino al colloquio costante con Bruce Fraser, assistente di Kerr, che avrebbe predetto ogni singola tripla messa a segno dalla guardia degli Warriors. Thompson si produrrà in altre gare epiche durante i playoff degli anni a venire, ma senza mai risultare determinante come in quella gara-6 delle finali di conference del 2016. E la vittoria degli Warriors, col tempo, si rivelerà decisiva anche nel segnare il futuro non solo delle due squadre scese sul parquet della Chesapeake Arena, quanto dell’intera NBA.
Sliding doors
Congetturare sul passato, anche su quello della NBA, è un’impresa sostanzialmente futile. Ciò non toglie che quella partita rappresenti una vera e propria sliding door per gli anni successivi. In caso di vittoria, infatti, i Thunder sarebbero tornati alle Finals dopo quattro anni, più maturi e con lo scalpo degli Warriors campioni in carica e titolari della miglior regular season di sempre. Certo, di fronte avrebbero pur sempre trovato LeBron James e un Kyrie Irving in forma smagliante, ma per la banda di Sam Presti la possibilità di alzare il Larry O’Brien Trophy sarebbe stata più che tangibile.
Ad ogni modo, a prescindere dell’esito delle Finals, la sconfitta degli Warriors e il passaggio del turno dei Thunder avrebbero quasi certamente sortito l’effetto di trattenere Durant in Oklahoma almeno per un altro anno. E così il passaggio di KD sulla baia, vero trauma sismico che ha smosso la tettonica a placche NBA, semplicemente non sarebbe avvenuto. Il mancato passaggio di Durant agli Warriors avrebbe di certo modificato il paesaggio dell’intera lega, a partire da Golden State, costretta a rinnovare il contratto Barnes oppure, con quei soldi, ad andare a caccia di un altro free agent di alto livello. Dall’altra parte, con ogni probabilità, i Thunder non avrebbero scambiato Ibaka o magari avrebbero strappato il sì di Al Horford, promesso sposo della franchigia prima dell’addio di Durant.
Soprattutto in caso di sconfitta nelle Finals, è probabile che anche Cleveland avrebbe operato qualche cambio radicale, magari provando a cedere il mai troppo amato Kevin Love. In generale, il mancato arrivo di Durant a Golden State avrebbe forse evitato quell’effetto rincorsa che ha trascinato buona parte delle concorrenti ad accelerare la propria timeline nel tentativo di contrastare lo strapotere degli Warriors (anche in questo caso chiedere ai Rockets per conferme) o a rallentarla per aspettare che passasse la mareggiata dei Dubs. Lo sviluppo effettivo di questo complicatissimo plot, ovvero se le cose sono andate come sono andate, è in definitiva dovuto dalla mostruosa prestazione di Klay Thompson, una performance che oltre a decidere la serie ha segnato il destino di tutta la NBA, con ricadute rintracciabili ancora oggi.
Se chiedete al diretto interessato, però, vi risponderà con un monosillabo e un’alzata di spalle, a metà strada tra modestia e strafottenza. Proprio come uno dei protagonisti dei film di John Woo o, più semplicemente, come Klay Thompson.