Chi sono i general manager della NBA?
Sono coloro che dirigono ogni aspetto di una franchigia, quelli che spesso restano dietro le quinte, nonché quelli con il passare delle stagioni hanno dovuto fare i conti con una massiccia evoluzione professionale. Devono intuire prima di tutti le innovazioni in arrivo sul parquet e allontanarsi da derive improduttive del gioco prima che sia troppo tardi. Hanno la responsabilità di scandagliare le caratteristiche dei giocatori per definirne il potenziale sia tecnico che umano, e adattare il progetto sportivo e salariale al gruppo prescelto. Al tempo stesso sono chiamati a “scaricare” interpreti storici in caso di necessità, ma senza perdere di vista la giusta continuità e compromettere la chimica dello spogliatoio. Bisogna essere nello stesso tempo commercialisti, psicologi e allenatori.
Oltre a questi requisiti è necessaria una sublime capacità di mediazione con la proprietà: il desiderio sempre più diffuso dei governatori di conquistare visibilità ha in parte stravolto le dinamiche in gioco e ridotto al minimo ogni margine di errore. Come se non bastasse tutto questo, ci pensano poi gli agenti a procurare fastidiosi e preoccupanti rumori di fondo che possono rovinare un intero gruppo. È un ruolo complesso e ricco di sfumature, pieno di insidie e di percorsi a bivi da scegliere per una strada che raramente contempla la possibilità di invertire la marcia.
Per il grande pubblico restano figure misteriose anche perchè la maggior parte delle attenzioni finiscono per concentrarsi sugli allenatori, che per certi versi godono di una considerazione che finisce per sopravvalutare il loro impatto sulla catena di comando - per quanto sia un aspetto che spesso i dirigenti stessi usano con grande saggezza e che consente loro di operare senza pressioni, favorendo il prezioso anonimato.
Quella di GM è una posizione talmente singolare che non prevede un percorso definito o un iter prestabilito per arrivare dalla base al vertice. In questo caso non abbiamo una “coaching tree ” o una scuola universalmente riconosciuta. Si naviga a vista senza un protocollo vero e proprio, anche se con il tempo sta emergendo un profilo-tipo vagamente riconoscibile con un passato da giocatore NCAA di secondo o terzo piano, un percorso nello scouting e una capacità di valorizzare del talento fuori dal comune. Il General Manager perfetto garantisce al tempo stesso una buona conoscenza tecnica, la visione dirigenziale e preziosi contatti allacciati tra il mondo collegiale e quello dei pro che agevolano le soffiate giuste quando si tratta di operare scelte rischiose di mercato.
Un ruolo estremamente complesso, insomma, che viene interpretato in tanti modi diversi. Andiamo a scoprire o a riscoprire i primi dieci interpreti che hanno già scritto o stanno scrivendo la storia di questo sport che è in continua evoluzione.
10) Dennis Lindsey - Utah Jazz
La squadra dei mormoni ha fatto i conti con lo spettro della rilocazione nel corso della prima parte della sua storia e ha presto compreso la necessità di costruire le sue fortune su un management di alto livello. Prima del trasferimento da New Orleans la proprietà aveva ceduto i diritti delle scelte di Magic Johnson (!) e di Moses Malone (!) nel tentativo di far quadrare i conti e di attirare pubblico con giocatori più esperti e più economici.
A cambiare le sorti dell’organizzazione ci ha pensato Frank Layden, capace di operare scelte rischiose e di costruire le sue fortune grazie alle selezioni di John Stockton e Karl Malone. Vincitore del premio di allenatore della stagione e di miglior GM nel 1984, ha contribuito a modernizzare il ruolo e ha guidato Jerry Sloan verso la successione in panchina. Le battute alla Woody Allen, l’atteggiamento a bordocampo da grande istrione e la visione tecnica fa di Layden uno dei più grandi executive di tutti i tempi e l’esempio su cui Gregg Popovich ha cercato di costruire la sua carriera.
I Jazz sono gestiti in modo eccellente anche oggi, hanno fatto spesso dimenticare le difficoltà di ingaggio dei free agent in una città come Salt Lake City e garantito un rendimento che nella tremenda Western Conference rimane un punto di riferimento per gli “small market team”. Le chiavi della squadra le ha in mano il GM Lindsey Hunter dal 2012, dopo aver giocato al college a Baylor e costruendosi in seguito una solida reputazione di osservatore prima per gli Houston Rockets e poi per i San Antonio Spurs. Nella città dell’Alamo ha ricoperto il ruolo di assistente di R.C Buford e imparato a conoscere coach Quin Snyder che gestiva la squadra della lega di sviluppo, gli Austin Toros.
Lindsey e il suo braccio destro Justin Zanik hanno valorizzato Gordon Hayward, pescato Rudy Gobert e Donovan Mitchellben fuori dalla top-10,oltre a scoprire giocatori come Joe Ingles e Royce O’Neal. Inoltre la scelta di Snyder si è rivelata vincente e perfettamente in linea nella filosofia di squadra: il coach responsabilizza e sviluppa i giovani e al tempo stesso ha il rispetto e la considerazione dei veterani. La dolorosa partenza di Gordon Hayward assorbita a tempo di record ha dimostrato un telaio solido: questa struttura è destinata a conoscere un ulteriore evoluzione grazie ai servigi di Mike Conley, che rappresenta certamente un miglioramento rispetto a Ricky Rubio.
Nelle poche interviste che concede Lindsey spicca sempre per la buona comunicazione e la sua capacità di proteggere il parco giocatori dalle insidie esterne, in perfetta continuità con l’identità dei Jazz. Se cercate un basket radicale avete sbagliato indirizzo: qui siamo partiti da uno stile lento e ragionato per massimizzare ogni possesso e sfruttare la solidità generale. Ora che la Western Conference sembra un terreno di conquista non è da escludere che a medio termine Mitchell riesca ad attirare uno o due compagni di peso (stiamo pur sempre parlando di un sophomore). I Jazz rimangono una squadra di cui si parla poco e che resta sullo sfondo, ma che non va sottovalutata in ottica presente e futura.
9) Sean Marks - Brooklyn Nets
Se consideriamo il modesto retaggio dei New Jersey Nets a livello di tradizione e il disastro targato Billy King a cui ha subito posto rimedio, siamo già a livelli di eccellenza nonostante la brevissima militanza da GM. Il più grande successo di Sean Marks è quello di aver costruito un “ecosistema” di ottimo livello praticamente da zero e di aver trasformato la classica zucca delle favole in una fiammante carrozza. In una lega in cui viene sovente utilizzato a sproposito il termine “cultura del lavoro” siamo di fronte a un dirigente che ha realizzato quello che sulla carta è il desiderio di ogni proprietà e della maggior parte dei tifosi. E tutto in soli tre anni.
Durante la carriera da giocatore, discreta ma niente di più, si avvicina alla cultura Spurs, dove conquisterà un titolo nel 2005. L’avventura dietro la scrivania comincia proprio dopo una chiamata dei neroargento che nel 2012 gli affidano compiti di gestione del roster: si occupa di aiutare i nuovi arrivati ad acclimatarsi al meglio. Viene promosso a General Manager degli Austin Toros e al tempo delle vittoriose Finali NBA del 2014 è inserito nel ricco staff di assistenti allenatori di coach Popovich, per poi tornare a svolgere un ruolo nella struttura di Buford l’anno successivo, mettendosi sempre in evidenza.
Sean Marks Our Lord and Savior.
Nel febbraio del 2016 viene scelto dai Brooklyn Nets per risollevare una franchigia più vicina a Chernobyl che al professionismo americano: pessimo roster, nessuna scelta al Draft di qualità su cui puntare e una percezione comune ridotta al dileggio sistematico in seguito alla ormai famigerata trade con i Boston Celtics.
Con le spalle al muro e poche opzioni a disposizione, Marks ha operato delle ottime firme, si è reso disponibile ad assorbire dei pessimi contratti previo compenso tecnico e in tre stagioni è tornato ai playoff con un gruppo futuribile, ricco di possibilità salariali e in un contesto apprezzato. Ha sempre cercato di competere al massimo delle sue possibilità, una condizione obbligata dallo scambio suicida, ma che si è dimostrata un punto di forza in un mondo che si abbandona facilmente al tanking. Ha messo in piedi insieme al suo capo allenatore Kenny Atkinson (“pescato” nel parco assistenti degli Hawks su indicazione di Mike Budenholzer) una eccellente propensione allo sviluppo, tanto che il progresso dei prospetti è diventato un fiore all’occhiello della franchigia. La prova vivente è Spencer Dinwiddie, che si è trasformato da giocatore NBA a perenne rischio taglio in un esterno in grado di rivaleggiare con i migliori interpreti del ruolo in uscita dalla panchina. Marks ha scelto Caris LeVert e Jarrett Allen ma anche giocatori di contorno efficaci come Rodions Kurucs, ha infine valorizzato D'Angelo Russell e mestieranti efficaci come Joe Harris. C’è in oroscopo il definitivo salto di qualità?
8) Jerry West, Lawrence Frank & associati - L.A. Clippers
Come i Nets, anche gli L.A. Clippers sono riusciti negli ultimi anni a ribaltare la loro narrazione che li vedeva come i fratellini minori e pasticcioni della Città degli Angeli, e oggi si affacciano alla lega come uno dei front office più organizzati e ammirati. Il cambio di ritmo ha coinciso ovviamente con l’arrivo di Jerry West, la cui carriera da executive merita lo stesso appellativo che ha conquistato sul campo: leggendaria. L’arzillo ottantenne è stato reclutato da Steve Ballmer (che si sta dimostrando uno dei migliori proprietari delle squadre nei grandi mercati) e sta cambiando l’inerzia di un’organizzazione che da sempre attende di essere valorizzata, considerando che si trova anch'essa a Los Angeles.
Lotta tra i GM di Los Angeles.
West è la mente e la voce fuori campo che guida le operazioni di una dirigenza molto nutrita, in un ruolo che ricorda romanticamente qualche interpretazione di Orson Welles. Il suo braccio armato della stanza dei bottoni è invece Lawrence Frank, che ha un passato discreto da allenatore e che è unanimemente considerato un abile gestore del personale e un gradito riferimento anche per molti agenti. Sulla carta il GM designato è Michael Winger, che in realtà riveste il ruolo di “guru” del salary cap, e che è periodicamente corteggiato dalle squadre che ne sondano la disponibilità al trasferimento. A supportare le sue attività e a fornire prezioso valore aggiunto c’è un altro pezzo da novanta del sommerso NBA: quel Trent Redden che sembra destinato a sostituirlo a breve termine e che per mesi è stato l’oggetto del desiderio dei New Orleans Pelicans, i quali lo avevano individuato come l’uomo giusto per ricostruire presto e bene (con David Griffin, comunque, non sta andando male).
L’estate scorsa è arrivato anche Lee Jenkins, ingaggiato per aumentare la possibilità di attirare i grandi free agent grazie al suo riconosciuto carisma da storyteller. Firma tra le più stimate di Sports Illustrated, si è conquistato un nome tra gli addetti ai lavori quando si occupò del ritorno a Cleveland di LeBron James nel 2014. Il suo ruolo, tra le altre cose, è quello di affascinare e di accarezzare l’ego della superstar e di rappresentare e diffondere il nuovo “Clipper-pensiero” nei salotti buoni della lega, spesso anche quelli dei media.
Nulla è stato lasciato al caso e l'estrema specializzazione del front office è un elemento inedito e di affascinante innovazione. Per completare il quadro non va dimenticato l’apporto di coach Doc Rivers, che come allenatore è più efficace rispetto al precedente doppio ruolo, ed ha lo spessore necessario per dialogare con Jerry West. La squadra si affaccia alla off-season con uno dei maggiori spazi salariali a disposizione: il margine è tale da poter rivaleggiare con i New York Knicks, ma forte di un contesto tecnico molto più intrigante e un front-office migliore. I Clippers hanno già sotto contratto Shai Gilgeous-Alexander, Landry Shamet e Danilo Gallinari oltre a solidi veterani come Lou Williams e Montrezl Harrell e puntano ad aggiungere un paio di pezzi importanti in estate, sfruttando tutta la fascinazione di una metropoli come Los Angeles. Kawhi Leonard quantomeno li osserva, e non è poco.
7) Tim Connelly - Denver Nuggets
Cominciamo da una nota di colore: i cinque fratelli Connelly rappresentano una dinastia sportiva in piena regola. Kevin, Pat, Joe e Dan lavorano tutti in qualità di scout o come manager a livello NBA e collegiale. Tim non si è sottratto alla tradizione familiare e ha cominciato a muovere i primi passi grazie alla disponibilità dello staff dei Washington Wizards che dalla fine degli anni ‘90 lo ha introdotto progressivamente nel reparto tecnico. Secondo voci di corridoio ha ottenuto l’incarico grazie ad una lettera auto-promozionale in grado di conquistare l’attenzione di Chuck Douglas, che al tempo gestiva gli osservatori della squadra.
La personalità spiccata e la grande capacità di affabulazione sono dei marchi di fabbrica di Connelly che spesso è in grado di dirottare le domande dei giornalisti sciorinando la sua notevole cultura cinematografica. La sua carriera conosce una svolta importante nel 2010 quando il GM Dell Demps lo accoglie a braccia aperte ai New Orleans Pelicans e gli permette di spaziare e di crescere in ogni ambito gestionale della franchigia, contribuendo a traghettare la squadra dall’era di Chris Paul a quella di Anthony Davis.
La grande occasione arriva nel 2013 quando i Denver Nuggets si affidano alle sue doti e alla sua freschezza e gli concedono il pieno controllo delle operazioni quando ha appena compiuto 36 anni. Chiamato a sostituire Masai Ujiri, indovina le scelte di Nikola Jokic, Jamal Murray e Gary Harris in cinque anni di paziente tessitura tecnica, un lustro che ha progressivamente inserito la squadra ai vertici della Western Conference. Qualche fisiologica valutazione errata come nel caso di Emmanuel Mudiay e Tyler Lydon non incide in modo significativo sulla sua eccellente valutazione complessiva. In primavera ha rinunciato a un offerta degli Wizards, sulla carta la destinazione dei suoi sogni per luogo di nascita e per formazione professionale. A supportarlo c’è Artūras Karnišovas, che ha giocato un ruolo chiave con Jokic: prima della firma con Denver infatti il centro era molto vicino al Barcellona e oggettivamente poco attratto dal contratto da seconda scelta che lo aspettava ai Nuggets. Alle loro spalle si muove un notevole gruppo di scout; a spiccare in modo significativo sono Calvin Booth e soprattutto Rafal Juc, che è l’ingrediente principale della notevole conoscenza internazionale della squadra e che a soli 27 anni è già una piccola celebrità.
6) Daryl Morey - Houston Rockets
Daryl Morey è tante cose, ma è soprattutto un uomo e un professionista completamente fuori dagli schemi e un instancabile innovatore che ha imposto e sdoganato soluzioni - tanto a livello di statistiche avanzate che di contratti - che oggi sono norma e regola per tutta la lega.
La sua parabola professionale è stata fortemente influenzata da una visione d’insieme che ha trasformato in modo profondo la pallacanestro che osserviamo al giorno d’oggi. Inventore di una voce statistica (la “percentuale reale” che tiene conto del peso diverso dei tiri da 1, 2 e 3 punti), questo alunno del MIT ha preso per la mano la NBA nel momento di massima fascinazione della Sabermetrica, resa celebre grazie all’esperienza di Billy Beane e amplificata dal successo del libro e del successivo film “Moneyball". Assunto come assistente GM nel 2006 dopo una significativa esperienza alla corte dei Boston Celtics, sale immediatamente agli onori della cronaca per la partecipazione nello scambio che vede coinvolto Shane Battier per la scelta numero 8 (Rudy Gay) e Stromile Swift. L’acquisizione di un veterano come Battier ottenuta con il sacrificio di un prospetto di grido scandalizza buona parte di stampa e tifosi e contribuisce a far salire la sua notorietà a livelli esponenziali.
La stagione successiva viene nominato General Manager dopo un solo anno di militanza con Houston. Lo scambio con il tempo si rivela indovinato e nei primi anni del 2010 è perfino il soggetto di alcuni lavori universitari. Tuttavia il tramonto precoce delle carriere di Yao Ming e di Tracy McGrady impediscono ai texani di salire al vertice.
Nel 2012 dopo anni difficili ottiene via trade James Harden, che rifirma con un contratto quadriennale al massimo salariale che supera l’offerta di OKC per una somma complessiva inferiore ai 5 milioni. Per realizzare l’operazione capitalizza la cessione di Kyle Lowry ai Raptors e con la scelta ottenuta assembla una contropartita che comprende Kevin Martin, Jeremy Lamb e varie scelte assortite per il Barba, Daequan Cook e Lazar Hayward. Questo movimento di mercato è l’incubo per i Thunder, che cominciano a perdere appeal ed inerzia, e allo stesso tempo diventa la chiave di volta della carriera di Morey. La scommessa sul terzo violino di OKC si rivela vincente, nonostante le perplessità dell’epoca, e Harden diventa nel giro di poche stagioni il perfetto interprete del basket che si gioca dentro la testa di Morey.
Il documentario della figlia di Daryl Morey sulla trade che ha cambiato la storia di Houston.
Con la sua pietra angolare al posto giusto, la strategia di mercato si è riconvertita gradatamente in una sorta di “ricostruzione immediata perenne” che lo ha mantenuto ad alti livelli, anche al costo di rinunciare al Draft (non è un caso se non sceglie al primo giro dal 2015). In generale non ha mai assemblato squadre clamorosamente ricche di talento attorno ad Harden, ma ha sempre costruito roster che hanno reso al massimo delle loro possibilità o ci sono andati molto vicino. L’epopea degli Warriors ha in parte intaccato la straordinaria popolarità di inizio carriera, anche se le due finali di conference raggiunte a dispetto di una concorrenza selvaggia sono da rimarcare con grande merito. Precursore tenace, fieramente integralista e ormai consumato protagonista della lega, ha lasciato indelebilmente il suo segno.
5) Sam Presti - Oklahoma City Thunder
Presti comincia a lavorare alla fine degli anni ‘90 come stagista per R.C.Buford alla corte degli Spurs per 250 dollari al mese e scala rapidamente la gerarchia interna, dopo essersi dilettato a giocare per l’università di Virginia Wesleyan dal 1995 al 1997 come amatore. Armato di entusiasmo e un occhio felicissimo per questo sport, si conquista un nome quando convince la squadra a scegliere alla fine del primo giro Tony Parker al Draft del 2001. Ci riesce dopo uno sfiancante logoramento, recapitando a casa Buford un numero impressionante di VHS per supportare il suo pupillo fino ad ottenere il semaforo verde.
Alla tenera età di 30 anni, conquista il ruolo di GM dei sofferenti Seattle Supersonics nel 2007 e si assume per prima cosa la responsabilità della delicata trade con i Boston Celtics che coinvolge il leader della squadra Ray Allen. A breve termine cede anche Rashard Lewis agli Orlando Magic e sceglie, grazie ai Blazers e a Greg Oden, con la scelta numero 2 al Draft Kevin Durant. I primi anni sono una sinfonia: rilocato con la franchigia a Oklahoma City, poco prima di fare le valigie seleziona con la quarta assoluta Russell Westbrook e Serge Ibaka con la pick numero 24 nel 2008, e l’anno successivo culmina il suo stato di grazia con James Harden per cui investe la terza scelta del Draft del 2009.
Forte di un nucleo stratosferico che accetta la promozione dell’assistente Scott Brooks a capo-allenatore, la crescita è fragorosa e vale sin dal principio il vertice della lega. Dopo un breve periodo di apprendistato OKC raggiunge le finali NBA nel 2012, ma si ferma al cospetto di LeBron James e dei Miami Heat che si impongono per 4-1. Si tratta a sorpresa del punto più alto della giovane storia della squadra, un picco che anche a causa di una serie di complesse scelte manageriali e di qualche evento sfortunato ha lasciato spazio a un rendimento discontinuo e ha spalancato le porte agli emergenti Warriors.
Nel 2015 Presti sceglie Billy Donovan per la panchina, ma i rapporti tra Westbrook e Durant contribuiscono alla clamorosa eliminazione in una finale di Conference che i Thunder controllavano sul 3-1. La gestione lacunosa dei rapporti in spogliatoio e delle inevitabili pressioni che raggiungono le squadre di vertice ha profondamente impattato su un roster investito dai media con la pesante etichetta di “dinastia del futuro”. Presti in modo particolare ha scelto di cedere James Harden, di puntare su un asse con Serge Ibaka e successivamente ha compromesso la flessibilità salariale con i contratti elargiti a Enes Kanter e a Steven Adams. Ha compensato con l’acquisizione di Paul George e con la successiva ri-firma, una mossa che ha sorpreso molti addetti ai lavori e data quasi per impossibile al momento dello scambio con Victor Oladipo e Domantas Sabonis. Le sue squadre sono sempre state ricche di talento, ma raramente sono riuscite a sfruttarlo al meglio: le sue scelte in tema di tiratori, ad esempio, hanno destato più di qualche perplessità.
A dispetto della attese è riuscito a tamponare la perdita di KD, che ha perso senza ricevere nulla in cambio, mettendo la franchigia nelle mani di Russell Westbrook. Proprio il suo leader potrebbe essere la prossima stagione un jolly per provare a ricostruire dalle fondamenta un nuovo progetto. Migliorato con il tempo come specialista degli scambi, ha perso contatto con i top assoluti ma resta un grande punto di riferimento e un “draftatore” di classe.
4) Danny Ainge - Boston Celtics
Il ponte ideale tra la pallacanestro di ieri e quella di oggi grazie a una longevità sportiva e manageriale di grande spessore e un carattere che raramente scende a compromessi. Ainge è stato un atleta polivalente a livello liceale e poi grande protagonista in NCAA con Brigham Young University, che ha trascinato nel 1981 a un passo dalle Final Four. Quando viene scelto dai Boston Celtics ha già fatto in tempo a giocare nella MLB di baseball con i Toronto Blue Jays e si integra a meraviglia con lo spogliatoio gestito con mano ferma da Red Auerbach e Larry Bird. Ainge diventa uno splendido quinto elemento di una squadra da titolo nel 1984 e 1986 e, quando i Celtics lo cedono per ricostruire, si ritaglia ancora uno spicchio importante di carriera a Portland e Phoenix, dove riesce a disputare altre due finali. In Arizona si cimenta anche come allenatore tra il 1996 e il 1999 con discreti risultati nel periodo di Jason Kidd anche se non manca qualche tensione con i giocatori, come potrebbe testimoniare Robert Horry.
Nel 2003 torna a Boston per guidare la squadra in qualità di General Manager grazie alla fiducia di un gruppo di investitori locali (tra cui l’attuale proprietario della Roma James Pallotta) che si è costituito appositamente per acquistare la franchigia. I primi mesi sono tremendi e il cambio di passo arriva solo grazie al carisma di Doc Rivers che firma nel 2004-05 per avviare un progetto incentrato su giovani come Al Jefferson. I tempi per tornare in vetta sembrano troppo lunghi per un ambiente abituato a vincere ma nel giro di due anni lo scenario cambia completamente. Il 2007 è l’anno della rivoluzione grazie ad una serie di scambi spregiudicati che fruttano gli arrivi di Ray Allen e Kevin Garnett e la provvidenziale crescita di Rajon Rondo acquisito via Draft 12 mesi prima tramite i Suns. I nuovi arrivati e la classe del capitano di lungo corso Paul Pierce trasformano immediatamente la squadra in una corazzata che conquista il titolo NBA al primo tentativo nel 2008, tornando poi di nuovo alle Finals nel 2010 (perdendole in gara-7) e a quelle di conference del 2012 (sopra 3-2 contro Miami prima di perdere le ultime due).
Quando capisce di essere a fine ciclo, grazie alla “blockbuster trade” con i Nets nel 2013, Ainge azzera tutto per cominciare una nuova avventura, firmando l’allenatore prodigio Brad Stevens (classe 1976) dall’Università di Butler. I biancoverdi grazie al lavoro di Stevens giocano un basket redditizio che miscela aggressività e una sapiente organizzazione difensiva e passo dopo passo tornano nelle finali di conference con un roster ricco di prospetti (su tutti Jayson Tatum e Jaylen Brown) e l’esperienza di Al Horford a scandire il passo. Riesce a mettere sotto contratto anche anche Gordon Hayward, ma un grave infortunio azzera la sua prima stagione a Boston e compromette il rendimento della seconda. Proprio l’azzardo vincente di scambiare la prima scelta al Draft con i Sixers nel 2017 lo disegna con i contorni del veggente, mentre negli ultimi tempi i suoi movimenti hanno assunto contorni troppo passivi.
Un apparente immobilismo che ha giovato ai Sixers e soprattutto ai Raptors, che hanno strappato Kawhi Leonard ai San Antonio Spurs senza eccessiva concorrenza. La prudenza di Ainge - che negli ultimi anni aveva più asset di tutti, ma ha affondato il colpo di fatto solo per Kyrie Irving - è ormai nel mirino della stampa sportiva e il recente accordo che i Lakers hanno finalizzato con i Pelicans per l’acquisizione di Anthony Davis rischia di trasformarsi in un romanzo. Poco male: il prodotto di BYU ha le spalle larghe e in passato è stato criticato per la motivazione opposta tanto da essere soprannominato “Trader Danny”. Pragmatico e molto efficace in sede di Draft: una vera istituzione che sa come vincere.
3) Masai Ujiri - Toronto Raptors
L’uomo copertina della stagione 2018-19 insieme a Kawhi Leonard. Il tratto principale della sua esperienza è un approccio alla pallacanestro che unisce allo stesso tempo un piglio intellettuale e la coriacea determinazione che ha scandito la sua scalata ai vertici della NBA. Vanta un’onesta carriera europea da giocatore professionista che ha portato avanti grazie a uno spirito di sacrificio non comune. Cresciuto accarezzando il mito di Hakeem Olajuwon con cui condivide l’origine nigeriana e un approccio abbastanza tardivo al basket, riesce ad approdare a Seattle grazie all’aiuto di una famiglia molto vicina ai suoi genitori. Quando si affaccia al mondo NBA è un perfetto sconosciuto e viene introdotto agli Orlando Magic dal coach David Thorpe, da decenni una quotata personalità collegiale e apprezzato personaggio nella sfera cestistico-mediatica. Thorpe è il principale artefice della sua ascesa: è immediatamente rapito dalla sua magnetica capacità relazionale e dai suoi rapporti iper-dettagliati sui giocatori.
Masai ottiene un incarico da osservatore senza stipendio che gli vale le prime importanti attenzioni degli addetti ai lavori e lo proietta successivamente alla corte di Kiki VanDeWeghe ai Denver Nuggets come scout internazionale. La fermata successiva è proprio quella a Toronto, dove nel 2008 diventa il braccio destro di Bryan Colangelo dopo appena una stagione in Canada. La svolta arriva nel 2010, quando i Nuggets lo richiamano nei propri ranghi affidandogli l’agognato incarico di General Manager. Atterra in un pianeta dominato dalle bizze e dal talento di Carmelo Anthony e lo rivoluziona rapidamente con uno scambio molto complesso che traghetta sostanzialmente Melo ai New York Knicks e Danilo Gallinari in Colorado. Allestisce una squadra molto competitiva anche se priva di superstar e, sotto la guida di George Karl, raggiunge nella stagione 2012-13 il terzo posto ad Ovest. Il roster prevede Danilo Gallinari, Ty Lawson, Andre Iguodala e il mercuriale Kenneth Faried: un anno spumeggiante che gli vale il premio di dirigente dell’anno (primo non-americano della storia a vincerlo) ma che si conclude mestamente con l’uscita al primo turno per mano degli emergenti Golden State Warriors, complice l’assenza di Gallinari per infortunio.
Il finale amaro di stagione favorisce il suo ritorno ai Raptors, che mancano da cinque anni i playoff in una conference dalla difficoltà relativa e che non riescono a risalire la china. Ujiri confeziona immediatamente una trade per Andrea Bargnani, modella il roster su Kyle Lowry e DeMar DeRozan e sacrifica Rudy Gay a vantaggio di una chimica del roster che inaspettatamente diventa straordinaria. Al termine della tornata 2013-14 ha già riportato i canadesi ai playoff e fissa il record franchigia con 48 vittorie stagionali. Il gruppo di Lowry e DeRozan produce annate sensazionali, ma i playoff regalano amarezze in serie e nonostante gli aggiustamenti il sogno si infrange sempre contro lo strapotere di LeBron James, il quale nel 2017-18 infligge persino uno sweep al secondo turno di playoff.
"Fuck Brooklyn".
Proprio nel momento più difficile il dirigente africano opera il suo capolavoro costruendo il roster campione 2018-19 nel modo più anticonvenzionale possibile. Rivoluziona il gruppo a metà, cedendo il veterano DeRozan agli Spurs insieme a Jakob Poeltl e una prima scelta per Danny Green e un Kawhi Leonard fermo da un anno e con il contratto in scadenza, sfidando apertamente lo spogliatoio e il leader Kyle Lowry ad alzare il livello. Ujiri inoltre licenzia coach Dwane Casey e affida la responsabilità della panchina all’assistente Nick Nurse, in cui intravede un grande potenziale ancora tutto da esprimere. Favorisce inoltre le condizioni per la definitiva esplosione di Pascal Siakam e riesce a ottenere i servigi del veterano Marc Gasol in una trade durante la stagione. Un assolo travolgente che ha visto premiare la sua strategia ad alto rischio. Masterclass.
2) Bob Myers - Golden State Warriors
Il 7 luglio del 2016 Kevin Durant inizia un nuovo capitolo della sua carriera e firma il contratto che lo lega agli Warriors. Stabilire se Myers lo abbia reclutato o se sia stato il giocatore in cerca di rivincite ad aver reclutato la squadra di San Francisco non lo sapremo mai. Ma il quesito evidenzia i grandi pregi e la straordinaria versatilità della creatura che Myers ha cesellato a tempo di record e che ha fatto innamorare milioni di appassionati in tutto il mondo. Ma riavvolgiamo il nastro.
L’architetto della squadra della Baia approccia la pallacanestro ai tempi del liceo ma non ottiene borse di studio. Quando visita le strutture di UCLA ha un incontro fortuito con l’assistente Steve Lavin che lo convince ad abbandonare i suoi propositi di vogatore dilettante per tentare la via del basket collegiale da comprimario. Passa le selezioni, entra nel roster del 1993 e da matricola conquista immediatamente il titolo universitario nonostante una media punti che resta bloccata nei paraggi dello zero virgola. Non demorde e la sua etica gli vale la segnalazione che lo staff di UCLA indirizza al “super agente” Arn Tellem, il quale lo assume come stagista nello stesso periodo in cui si assicura un giovane Kobe Bryant nel portafoglio clienti. La carriera è folgorante: Tellem lo introduce a più di qualche proprietario NBA, e quando il co-owner degli Warriors Joe Lacob apprende del suo tifo sincero verso la squadra della Baia, scatta un colpo di fulmine che gli vale la nomina ad assistente GM nel 2011. Bob nel giro di pochi mesi seduce anche i magazzinieri con la sua personalità e dopo soltanto un anno di apprendistato viene promosso titolare del ruolo. Il roster ha già in dote Steph Curry e Klay Thompson e nel suo primo anno da timoniere aggiunge via Draft sia Harrison Barnes (n.7) che Draymond Green (n.35, anche se lui stesso gli sceglie prima Festus Ezeli), di fatto modellando il roster verso l’applicazione di sistemi di gioco dinamici e versatili. Concede senza indugi un’estensione contrattuale da 48 milioni di dollari a un Curry che non riesce ancora a superare i problemi alle caviglie e che sul momento sembra un pericoloso azzardo. Si rivelerà il suo più grande colpo.
La crescita è progressiva e verticale e lo porta a conquistare stabilmente i playoff, un evento che non si verificava dalla fine degli anni Settanta, fino ad diventare la dinastia di queste ultime stagioni. Golden State con Steve Kerr in panchina abbraccia una filosofia di gioco definita e completa l’ultimo tassello: un sistema offensivo povero di isolamenti, ricco di circolazione e sopra ogni cosa si preoccupa di mettere in pratica un basket divertente da guardare e coinvolgente da giocare. Miscela principi della “Seven second or less” di Mike D’Antoni (le cui origini risalgono alla sua esperienza sulla panchina dell’Olimpia) che aveva estrapolato e sviluppato questa idea da sperimentazioni collegiali anni Settanta e dell’attacco “pointless” di Don Nelson, cogliendo in pieno le migliori qualità dei suoi fuoriclasse. La “small ball” di Golden State fa epoca e concretizza il concetto di un flusso di gioco veloce e dinamico, privo di vincoli particolari e caratterizzato da complesse spaziature. Bob sposa dal principio questa visione ed è chirurgico nel fornire al suo staff tecnico il giusto personale.
Gli Warriors si sono giocati l’anello negli ultimi cinque anni, indossandone tre e subendo due brutali sconfitte. Ma se la prima è stata causata dalla grande rimonta di LeBron James e dei Cavs dal celebre 1-3 nel 2016, l’ultima per mano dei Toronto Raptors ha aperto un momento di crisi per la franchigia che nell’estate si sposterà da Oakland a San Francisco. Proprio Bob Myers è comparso in lacrime davanti alle telecamere dopo gara-5 prendendosi in prima persona la colpa dell’infortunio subito da Durant, un evento che potrebbe riscrivere la storia futura dell’NBA. L’estate del 2019 e il suo bastimento carico di complessi punti di svolta con gli infortuni da gestire e i giocatori da rifirmare aprirà un nuovo capitolo nella storia di Myers, finora piena solo di luminose vittorie.
1) Robert Canterbury Buford - San Antonio Spurs
Il braccio armato della dirigenza texana è l’architetto di un sistema che ha modificato la parabola gestionale della lega miscelando innovazione, continuità e una sorprendente abilità di sviluppare giocatori e tecnici universalmente apprezzati. La carriera di Buford inizia insieme a quella del suo sodale Gregg Popovich, entrambi scoperti, valorizzati e connessi al mondo NBA dal vulcanico Larry Brown. Nella seconda metà degli anni Ottanta l’iconico duo si incrocia fugacemente nello staff tecnico dell’Università di Kansas per poi seguire il comune mentore a San Antonio a partire dalla stagione 1988-89. La prima avventura in nero-argento è produttiva, la squadra conquista uno status di tutto rispetto ma si chiude in modo burrascoso a causa delle continue tensioni tra lo stesso Brown e la proprietà agli inizi del 1992.
Buford ha un passato trascurabile da giocatore NCAA a Texas A&M University e a Oklahoma State, ma il suo feeling per il gioco lo trasforma in un assistente allenatore che alla soglia dei 35 anni si è già costruito una solida reputazione sia a livello collegiale che al piano di sopra. Nel 1994 riceve la chiamata di Popovich che nel frattempo è tornato in Texas con ruolo di primo piano e viene ingaggiato con la carica di capo-osservatore. Un cambio di posizione e di prospettiva che trasforma la sua carriera e si pone al principio di una dinastia che costruisce le sue fortune sulla scelta al Draft del 1997 di Tim Duncan e sulla disponibilità del veterano David Robinson a supportare il nuovo corso. A stretto giro di posta Buford seleziona Manu Ginobili con la pick numero 57 nel 1999 tra l’indifferenza generale degli addetti ai lavori statunitensi mentre era da tempo sul taccuino degli Spurs. Sotto la sua direzione dello scouting viene ingaggiato un giovane Sam Presti che nel 2001 è strumentale per la scelta di Tony Parker. Buford costruisce le fortune della sua squadra con scelte al Draft alla fine del primo giro (George Hill, Tiago Splitter, Dejounte Murray, Derrick White tra gli altri) e selezionando in giro per la NBA una serie di giocatori molto vicini a uscire dal giro che conta. L’esempio migliore di questa filosofia è probabilmente Danny Green che tra il 2010 e il 2011 viene idealmente recuperato dal marciapiede, riprogrammato in uno specialista offensivo della “corner 3” e sviluppato come una principali armi difensive per Pop. Il successo dell’operazione fa letteralmente esplodere la categoria di giocatori definiti come 3&D e spalanca le porte a una rivoluzione tattica che fa ancora proseliti tra il resto delle squadre.
Scambiando il beniamino dello spogliatoio George Hill è riuscito a mettere le mani su Kawhi Leonard, un altro dei tanti diamanti scoperti nella polvere, rilanciando la competitività di un gruppo che a dispetto di grandi stagioni regolari mancava all’appuntamento più importante da sette stagioni. Alfiere dello scouting internazionale, ha costituito insieme a Pop un curioso melting pot cestistico fondato su giocatori e tecnici di cultura e formazione profondamente diversa, pensato per arricchire vicendevolmente tutti i suoi componenti. Basti pensare che il leader attuale dello spogliatoio è Patty Mills, uno dei tanti australiani passati in maglia nero-argento.
Gli Spurs hanno registrato 18 stagioni vincenti consecutive con più di 50 vittorie all’attivo e hanno interrotto la striscia principalmente a causa dell’anno ai box di Leonard, una ferita ancora non completamente rimarginata dalle parti dell’Alamo. Buford ha conquistato cinque titoli da executive, ha contribuito a realizzare uno dei principali sistemi di sviluppo giocatori della lega ed è uno dei motivi principali del successo della squadra.
Per dirla come la Settimana Enigmistica: il General Manager NBA che vanta numerosi tentativi di imitazione.
Honorable mention
Jon Horst - Milwaukee Bucks
Appena nominato executive dell’anno. Promosso a direttore delle operazioni nel 2017 ha il grande merito di aver rifinito una squadra funzionale intorno all’Mvp Giannis Antetokounmpo e di aver scelto Mike Budenholzer (Allenatore dell’anno) in panchina. La consistenza e la durabilità del progetto sono ancora da verificare, luxury tax permettendo. A 34 anni è già vicino al top della lega.
Donnie Nelson - Dallas Mavericks
Cresciuto sotto la tutela tecnica del padre Don, ha fatto da apripista per la generazione contemporanea dimostrando grande attenzione al basket internazionale sin dagli anni Ottanta. Ha cesellato la squadra da titolo del 2011 e quella che ha raggiunto 67 vittorie nel 2007. In calo di “rendimento” e popolarità che potrebbe ritrovare con la crescita di Luka Doncic.
Neil Olshey - Portland Trail Blazers
Timona la squadra da quasi dieci anni. Ha draftato e ri-firmato il backcourt Lillard-McCollum e nonostante gli alti e bassi ai playoff ha finalmente raggiunto le finali di conference. Qualche scivolone occasionale sul versante del rinnovo dei contratti non incide su una gestione complessivamente sopra media che lo distingue nella temibile Western Conference.
Travis Schlenk - Atlanta Hawks
Sulla fiducia. Grande conoscitore di basket che ha griffato la scelta di Draymond Green durante la sua permanenza agli Warriors. Criticato per una filosofia eccessivamente vicina a San Francisco ha smentito molti dubbi azzeccando un paio di Draft che stanno trasformato Atlanta in una delle squadre più interessanti e un futuro cult per la visione del League Pass. Lo scambio Trae Young-Luka Doncic è ancora da valutare con il tempo e determinerà molto della sua considerazione.
David Griffin - New Orleans Pelicans
Il suo buon nome è legato al titolo vinto con LeBron James ai tempi dei Cleveland Cavaliers nel 2016. Ha stregato la lega da quando si è seduto nella cabina di regia dei Pelicans. Apre l’era di Zion Williamson con la trade di Anthony Davis che ha portato in dote diversi giocatori interessati ed è già in grado di presentare un quintetto mediaticamente accattivante. In due mesi ha fatto cose egregie e non ha dimenticato di ricavare spazio salariale.