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Cosa significa il premio MVP di Giannis
27 giu 2019
Raggiungendo la vetta della NBA, Giannis Antetokounmpo potrebbe aver aperto gli occhi al mondo.
(articolo)
9 min
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Lo strano posizionamento della cerimonia di premiazione per i migliori giocatori della stagione regolare, stritolata tra i festeggiamenti a Jurassic Park e le Woj Bomb che inaugurano la Free Agency, ha fatto passare in secondo piano la portata storica dell’Mvp alzato da Giannis Antetokounmpo. Ma l’invisibilità è una condizione con la quale il greco ha imparato a convivere fino dall’infanzia.

In un’epoca in cui è possibile sapere e vedere tutto degli atleti, tra storie di Instagram e produzioni confezionate da solerti uffici stampa, il video sgranato che mostra gli esordi sul parquet di Giannis Antetokounmpo rischia davvero di passare alla storia.

Un pixel più lungo degli altri.

I campi, o per meglio dire le palestre, sono quelle della A2 greca, e tra i pixel tremolanti si riesce a malapena a distinguere il passo diverso con cui il 18enne che indossa la maglia numero 4 si distanzia da compagni e avversari. Nemmeno John Hammond, che al momento di spendere la 15^ scelta al Draft del 2013 è il GM di Milwaukee, ha davvero idea di quale sia il potenziale dietro quel nome quasi impossibile da pronunciare. Il ragazzo ha doti fisiche non comuni e una spiccata predisposizione per il gioco del basket, ma il livello di competizione a cui ha partecipato fino ad allora e la pochezza delle informazioni reperibili sul suo conto lo rendono poco più che un miraggio, esotico e distante.

Jonathan Wasserman, guru del Draft per Bleacher Report, subito dopo la scelta spesa dai Bucks lo paragona a Nicolas Batum, parallelo che a sei anni di distanza si è rivelato alquanto prudente, se non addirittura blasfemo. Deridere Wasserman per la poca perspicacia, così come esaltare Hammond per il fiuto dimostrato, sarebbe però del tutto ingiusto, perché né loro né nessun altro poteva prevedere il fenomeno Antetokounmpo.

Un po’ Carter, un po’ Duncan

Affiancare quelle immagini, o quelle dell’anno da rookie, agli highlights della stagione che lo ha consacrato come miglior giocatore della lega è un esercizio tanto utile quanto disorientante. L’impressione è quella di assistere ad una vera e propria metamorfosi, processo di trasfigurazione che non è possibile circoscrivere all’aumento della massa muscolare e alla rifinitura di soluzioni offensive che non siano l’attacco al ferro dal palleggio. Arrivato nella NBA con poca o nessuna esperienza tangibile di basket professionistico, Giannis ha saggiato sul campo la forza prorompente delle sue qualità e il fardello rappresentato dai suoi difetti.

Come un supereroe che giorno dopo giorno affina i propri superpoteri, ha prima assimilato, poi ha sperimentato e infine ha dominato il gioco. In questo senso la progressione delle sue statistiche individuali, sbalorditiva per costanza stagione dopo stagione, rimane un elemento incontrovertibile. La stella polare di Antetokounmpo è stata fin dall’inizio l’efficacia delle sue prestazioni, ovvero la voglia d’imparare a fare tutto ciò che serve per vincere le partite. Pur senza tralasciare la propensione naturale per giocate ad alto effetto scenico, l’ala dei Bucks ha maturato la capacità di concentrarsi sull’essenziale. Le conclusioni al ferro, situazione di gioco in cui nell’ultima stagione ha realizzato con il 73.7% (era il 61.2% nel suo secondo anno da professionista, quello in cui ha cominciato a giocare con continuità) rimangono la specialità della casa, ma nel frattempo è migliorata l’incisività dei tiri in sospensione (37.2% in questa stagione, era 33.6% al secondo anno) e dei fadeaway (41% questa stagione, 36.4% nel 2014-15).

Anche dal punto di vista difensivo il pitturato rimane la sua comfort zone, area nella quale gli avversari di cui Giannis si prende cura vedono calare di oltre dieci punti le proprie percentuali al tiro (il differenziale sfiorava a malapena i tre punti nel suo secondo anno a Milwaukee). Del terzetto finalista per l’MVP, Giannis ha il miglior dato per quanto riguarda l’efficienza complessiva (35.3 contro il 33.1 di Harden e il 27.4 di George), pur godendo di uno Usage tutto sommato contenuto (30.8, quello di Harden è a 36). Mentre con i suoi 27.7 punti di media si è piazzato terzo nella classifica marcatori dietro ai due rivali di cui sopra, Antetokounmpo ha trovato anche il modo di strappare 12.5 rimbalzi (6° assoluto in NBA) e recuperare due palle vaganti a partita, dimostrando un atteggiamento volitivo nella metà campo difensiva tutt’altro che scontato per una superstar. Schiacciate portentose in contropiede a favore di telecamera ma anche lavoro sporco per la causa comune, insomma: un po’ Vince Carter e un po’ Tim Duncan.

Com’è ovvio, una simile progressione nelle prestazioni non è frutto del caso. A dispetto di un contesto di squadra disfunzionale fino all’arrivo di Mike Budenholzer, già al momento del suo sbarco in NBA Giannis ha esibito un’etica lavorativa con pochi eguali. Con l’insediamento del nuovo head coach, abbeveratosi per anni alla fonte della tanto mitizzata Spurs Culture, questa irrefrenabile voglia di progredire ha trovato la propria sublimazione. E anche se a Milwaukee si escogitano trucchi di ogni tipo pur di tenerlo lontano dalla palestra e farlo riposare, Giannis sa bene che i margini su cui lavorare sono ancora ampi. Primo fra tutti il tiro da dietro la linea dei tre punti (25.6% in regular season, 32.7% nei playoff), arma ancora in fase di collaudo e che potrebbe rappresentare il passaggio ultimo verso l’egemonia assoluta sulla porzione di specie umana che ambisce a giocare nella NBA.

Semplice e sincero

L’unico precedente di un giocatore scelto così in basso al Draft e diventato MVP è quello che riguarda Steve Nash. Il canadese, curiosamente scelto alla stessa posizione di Giannis nella leggendaria classe del 1996, ha coronato la sua carriera a 31 anni e dopo nove stagioni da professionista, impresa che al nuovo MVP è riuscita dopo sole sei stagioni e a 25 anni. E se la velocità con cui Antetokounmpo è salito sulla vetta della NBA è strabiliante, lo è ancora di più la condotta che ha tenuto fuori dal parquet.

Per provare a capire come abbia gestito in maniera pressoché perfetta la propria immagine occorre partire da una premessa. A differenza di LeBron James, Luka Doncic o buon ultimo Zion Williamson, prospetti che già dall’adolescenza si sapevano destinati alla ribalta e quindi man mano addestrati ad amministrare tutti gli aspetti del successo, la storia personale di Giannis non contemplava l’ascesa prodigiosa di cui si è reso protagonista. Lo scarto con i cosiddetti “predestinati” affiora evidente soprattutto nella genuinità che ha saputo mantenere, frutto di un temperamento autentico più che di strategie di pubbliche relazioni studiate a tavolino, per quanto con il tempo abbia imparato qualche trucchetto da star (dopo le sconfitte, ad esempio, parla coi media solo davanti al suo spogliatoio e non in conferenza stampa).

La naturalezza nei comportamenti è la caratteristica che ha accompagnato il nuovo MVP sin dai suoi esordi, con l’indimenticabile, entusiasta tweet sul primo smoothie della sua vita, fino alle ormai irrinunciabili barzellette raccontate ad ogni occasione e all’atteggiamento espansivo verso i tifosi provenienti da entrambe le sponde dell’oceano.

Il suo è un percorso netto, senza veri inciampi (se non l’espulsione per flagrant 2 ai danni di Mike Dunleavy nel 2015, ma era al secondo anno), in cui è maturato nella consapevolezza del suo ruolo all’interno dello spogliatoio, dove è adorato da compagni e staff tecnico, e verso il mondo esterno, senza però smarrire la spontaneità, anzi, facendone un vero e proprio tratto distintivo. La stessa spontaneità portata sul palco della premiazione a MVP, momento in cui è risultato impossibile dissimulare la devozione per il legame con la famiglia e con le sue origini.

Prossimo passo nella carriera di Giannis: imparare ad accostare la camicia con la giacca.

Anche in questo caso il nuovo MVP ha sviluppato una straordinaria capacità comunicativa a dispetto di un contesto come quello dei Bucks, realtà per tradizione non proprio al centro delle attenzioni di media e tifosi, attraversando indenne un cambio di proprietà della franchigia e numerosi avvicendamenti tra dirigenza e panchina.

In definitiva, sotto tutti i punti di vista, risulta difficile chiedere a Giannis Antetokounmpo qualcosa in più rispetto a quanto fin qui già dimostrato, al netto che il titolo rimane un traguardo mediaticamente imprescindibile per giocatori di un certo peso. Poco importa, perché sarà lui ad ritoccare ulteriormente l’asticella, animato dall’intrinseco e continuo bisogno di provare a migliorarsi. È un atteggiamento che dovrebbe contagiare anche chi tenta di ricostruirne il percorso, così particolare da meritare ogni sforzo possibile.

Contro l’invisibilità

C’è però un altro argomento da affrontare. Quella di Antetokounmpo è una storia di povertà, ingiustizia, razzismo e discriminazione, compendio di mille altre che affollano le cronache quotidiane, spesso dimenticate e seppellite dal vociare di chi le vorrebbe relegare a rumore di fondo, irrilevanti danni collaterali.

Eppure la storia, ridotta a favola del bambino povero da Sepolia che supera inenarrabili difficoltà per arrivare infine ad essere un eroe del popolo, così come molti l’hanno raccontata in questi giorni, serve a poco. Perché è autoconclusiva quando invece quello di Antetokounmpo non è un cerchio che si chiude con la nomina a MVP, anzi, è una finestra aperta sul mondo di oggi. I lavoretti da venditore ambulante per aiutare la famiglia, le scarpe da gioco in condivisione con il fratello Thanasis, lo status di apolide, né greco né nigeriano fino alla chiamata da parte della NBA sono tutti particolari che valgono nulla se non vengono contestualizzati, armi retoriche e poco altro. Il canovaccio dell’outsider sfavorito dalle condizioni di partenza ma che riesce ad affrancarsi e spiccare il volo, il successo come riscatto personale e sociale e il talento individuale come unica via di fuga da un destino segnato, è un cliché tanto comodo quanto abusato. La storia di Giannis, ora, ci concede l’occasione di superarlo.

La retorica, in un caso come questo, serve solo ad assolverci invece di incoraggiarci a mettere in luce il problema reale, enorme e drammatico: quei bambini abbandonati a loro stessi, alle frontiere o in mezzo al mare, corpi senza alcun diritto o valore, sono esattamente ciò che è stato il nuovo MVP della NBA per i primi 18 anni della sua vita. Il suo esempio, a partire dall’orgoglio nel rappresentare un paese che non ne ha riconosciuto l’esistenza finché non si è reso necessario, dovrebbe aiutarci a dare un volto e un nome, voce e vita a quei corpi trattati come fredde statistiche, catalogati come fattori di rischio o, nel peggiore dei casi, utilizzati come strumenti per governare il consenso popolare.

Teniamocele strette, dunque, le lacrime di Giannis Antetokounmpo sul palco del Barker Hangar a Santa Monica, purché ci spronino ad andare oltre la banalizzazione e al di là dei muri e dei confini reali o immaginari, dove tanti altri come lui diventano invisibili agli occhi del mondo.

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