È ormai diventato un luogo comune che l’NBA sia diventata “ tutto atletismo e niente cervello”. Come tutti i luoghi comuni ovviamente anche questo è sbagliato, visto che i 450 giocatori che compongono i 30 roster delle squadre NBA sono diversissimi, ognuno unico a suo modo. Ci sono grandi talenti realizzativi, spettacolari atleti in campo aperto, super difensori sul pallone, guardie rapidissime e lunghi impossibili da spostare, e si potrebbe andare avanti a lungo. Ciascuno di essi è riuscito a ritagliarsi il suo spazio e, in un modo o nell’altro, a rimanere nella lega con le unghie e con i denti, lavorando sul proprio gioco e scavando in profondità nel proprio bagaglio per resistere il più possibile nella lega con la più alta concentrazione di talento al mondo.
Per sopravvivere in NBA bisogna rispettare uno standard fisico minimo per non essere travolti dalla velocità con cui si viaggia in campo, ma non tutti e 450 sono dei super atleti. Anzi, ce ne sono alcuni che hanno mezzi fisici e atletici tutto sommato nella media o addirittura sotto la media per il proprio ruolo (in termini di velocità, altezza, rapidità, capacità di salto e mille altri piccoli fattori), ma che riescono in qualche modo ad avere successo affidandosi ad altro. È quella categoria di giocatori che vengono definiti come “intelligenti”. Un’intelligenza che può essere declinata in molti modi: lettura del gioco, anticipazione, genialità, ma anche scaltrezza, maniacalità, furbizia, perfino un pizzico di malizia pur di guadagnare un vantaggio competitivo.
Ai fini di questa classifica, prenderemo in considerazione quei giocatori che grazie al loro cervello sono riusciti a salire a uno o anche due livelli superiore rispetto a quello che i loro mezzi atletici gli permettevano. Per intenderci: LeBron James è certamente uno dei giocatori più intelligenti della NBA (se non il più intelligente), ma anche se non avesse quella testa lì avrebbe comunque messo insieme una carriera di alto livello, anche se magari non quella che abbiamo avuto la fortuna di vivere negli ultimi 17 anni.
I giocatori scelti per questa classifica magari sarebbero comunque arrivati ad avere un posto in NBA senza le loro capacità mentali, ma non avrebbero probabilmente avuto il successo che hanno avuto o stanno avendo in questi anni dopo aver strizzato il proprio talento per estrarne anche la più piccola goccia.
Kyle Lowry
Basketball-Reference.com, indispensabile bibbia di ogni appassionato di NBA, attribuisce a Kyle Lowry l’85.74% di possibilità di finire nella Hall of Fame. Dietro a leggende ancora in attività come James, Kevin Durant o Steph Curry o alcuni che vedranno presto chiamato il proprio nome come Vince Carter e Pau Gasol, spunta il playmaker dei Toronto Raptors che per anni è stato più un problema che altro, specialmente per i suoi allenatori.
Come spesso accade per i giocatori troppo intelligenti, la testa e il carattere di Kyle Lowry sono state sia il motivo per cui sono arrivati in NBA, sia il motivo per cui hanno faticato a spiccare il volo. Nei suoi primi anni di carriera Lowry era semplicemente insopportabile, rimbalzando tra Memphis e Houston prima di trovare, un po’ per caso, il proprio posto nel mondo al nord del confine.
Pur essendo nettamente più basso della media del ruolo e con un fisico tendente a gonfiarsi (tanto che le sue foto da magro diventarono in qualche modo virali qualche estate fa), Lowry riesce a compensare con una comprensione e un’anticipazione del gioco straordinaria, visibile quasi più nella metà campo difensiva che in quella offensiva. Il suo controllo del corpo — a partire da un leggendario uso del sedere — è davvero un oggetto di culto, e il suo senso dell’anticipo si rende evidente nella capacità quasi soprannaturale di prendere sfondamento in difesa, chiudendo sempre tra i primi nella lega (e dandone un saggio anche all’All-Star Game).
Se dovessi esprimere Kyle Lowry in un’azione sarebbe questa: la rubata in difesa leggendo con anticipo le intenzioni di Middleton, il contropiede fermato quando si accorge di avere alle spalle Antetokounmpo, l’assist per Leonard a rimorchio e soprattutto la furbizia di cercare con la mano il corpo di Giannis, togliendogli quella frazione di secondo necessaria per permettere a Kawhi di schiacciare. In quel tocco c’è tutta la furbizia di un giocatore che è andato ben oltre a quello che ci si aspettava da lui.
Spencer Dinwiddie
Mi sono cestisticamente innamorato della point guard dei Brooklyn Nets lo scorso novembre, quando ho avuto l’opportunità di vederlo dal vivo in una partita contro i Boston Celtics. In un matinée in un Barclays Center ancora sonnacchioso e in assenza di Kyrie Irving già infortunato, i Nets andavano da qualche parte solo e soltanto quando la palla passava dalle mani di Dinwiddie, che ha mostrato il controllo dei tempi di gioco di uno che ha già visto la partita con grande anticipo.
In questa azione ho perso la testa: dal video forse non rende, ma la pausa che fa Dinwiddie dopo aver girato il blocco per “gelare” Daniel Theis e aspettare il momento giusto per alzare il lob a Jarrett Allen è una dimostrazione di controllo del gioco purissima.
Dinwiddie ha poi chiuso quella partita con 32 punti e 11 assist, una delle sue dieci doppie doppie stagionali. Sono uscito da quella partita chiedendomi se il ruolo di backup non fosse limitante per un giocatore come lui, e con la rivoluzione che sta accadendo a Brooklyn non è detto che in off-season le cose non possano cambiare — anche perché bisognerà ricostruire la squadra in base alleesigenze di Irving e Durant.
Chris Paul
Prima o poi bisognerà fare un lungo discorso su Chris Paul, uno dei giocatori più mefistofelici ad aver mai calcato i parquet della NBA e allo stesso tempo uno che, ogni volta sul più bello, non è riuscito a fare il passo in più per ascendere nell’empireo. La già citata classifica di Basketball-Reference non ha alcun dubbio nell’inserirlo tra i tre sicuri al 100% di un posto a Springfield (gli altri due sono James e Durant) già adesso, indipendentemente che la sua carriera lo porti a giocare o meno per il titolo.
Chris Paul da giovane era un fulmine ed era imprendibile quando accelerava, ma questa stagione ci ha mostrato cosa è in grado di fare quando il fisico lo sorregge e il contesto gli permette di gestire le sue energie senza sovraccaricarlo di responsabilità. Agli Oklahoma City Thunder CP3 può rifugiarsi nella sua amministrazione controllata: tre quarti di smistamento di palloni e di responsabilità per poi salire di livello nel quarto periodo, nel quale è molto semplicemente il miglior realizzatore dell’intera lega.
18 minuti e 22 secondi in cui CP3 accende il bus e porta ancora a spasso tutta la NBA.
Paul ha una capacità straordinaria nel sapere sempre quello che vuole fare in campo data dalla sua esperienza e dal suo talento, ma è nei dettagli che si vede il suo genio. Nel modo in cui non concede neanche un centimetro ad avversari che svettano sopra di lui; nell’utilizzo nascosto di trucchi e trucchetti per poter entrare sotto pelle a chi si trova davanti; nel sapere sempre come e quando servire i suoi compagni, specialmente se non tirano da un po’. Anche lui come Lowry ha un carattere tutt’altro che semplice, ma la sua pallacanestro è un clinic di intelligenza che forse troppo spesso è stata data per scontata.
Lou Williams
Quella di “Sweet Lou” è un tipo di intelligenza diversa, che sfocia quasi nella furbizia. La manifestazione più palese è nella sua capacità di guadagnarsi falli per andare in lunetta: pur essendo in giro in NBA veramente da una vita, essendo entrato nel 2005 da 19enne a Philadelphia, nessuno è riuscito davvero a prendergli del tutto le misure, specialmente in regular season in cui la sua combinazione di furbizia nel cercare il contatto e di mancinismo (dettaglio di cui i suoi difensori sembrano sempre dimenticarsi), lo rendono una macchina da liberi.
Negli scorsi playoff si è acceso in gara-2 sul campo dei campioni in carica e ha preso a schiaffi la difesa di Golden State: quanti giocatori possono vantare prestazioni del genere nell’ultimo lustro?
I tre titoli di sesto uomo dell’anno raccontano meglio di qualsiasi analisi l’impatto offensivo che riesce a fornire ogni volta che entra a partita in corso, oltre ai limiti difensivi che emergono quando il livello di gioco si alza (non è un caso se ai playoff l’efficacia del suo gioco, e i fischi che vanno in suo favore, inevitabilmente calano). Le sue improvvisazioni nei pick and roll con Montrezl Harrell e il fatto di giocare in una contender per il titolo hanno ravviato una carriera che dopo i passaggi tra Toronto, Lakers e Houston sembrava destinata a spegnersi: ancora oggi i minuti della second unit dei Clippers sono perfino più divertenti di quelli dei titolari, e il merito è principalmente suo.
Malcolm Brogdon
I compagni sin da quando era al College a Virginia gli hanno appiccicato il soprannome di “Presidente”, ma forse sarebbe più appropriato quello di “Professore”. Brogdon è perfettamente consapevole di non avere chissà quali margini di miglioramento o di talento, non ha la possibilità di “scalare le marce” e accendersi improvvisamente per prendere il controllo delle partite. Oltretutto, deve fare i conti con un fisico che spesso lo lascia alle prese con piccoli e grandi infortuni, dovendo fare un minuzioso lavoro di stretching anche solo per una qualsiasi partita di regular season.
A questa mancanze Brogdon sopperisce con un’efficienza di gioco impressionante e una assoluta consapevolezza di ciò che è in grado di fare ma soprattutto di cosa non è in grado di fare, cercando un modo di aggirare il problema che si è posto davanti a lui.
Brogdon aveva cominciato la partita prendendosi una super stoppata da Embiid; nel terzo quarto allora ha aggirato il problema cambiando il ritmo del palleggio e lasciando uno dei migliori difensori della NBA nella polvere, appoggiando comodamente al vetro. Questa è capacità di adattamento, o nel suo caso di sopravvivenza.
Joe Ingles
Quando Joe Ingles ha lasciato l’Europa per tentare l’avventura negli Stati Uniti, in molti erano convinti che sarebbe tornato al massimo nel giro di qualche stagione. Evidentemente se ne erano convinti anche gli L.A. Clippers, che lo hanno tagliato un po’ in malo modo al termine di una pre-season in cui non aveva esattamente convinto, continuando ad avere un buco nel ruolo di 3 attorno ai quattro mammasantissima Paul-Redick-Griffin-Jordan.
Ingles è stato immediatamente preso dagli Utah Jazz e da lì in poi ha cominciato a capire sempre di più come adattare il suo gioco a quello della NBA, studiando piano piano modi diversi per essere efficace. Paradossalmente, il sistema offensivo di coach Quin Snyder è creato a sua immagine e somiglianza, esaltando la sua capacità di riconoscere un vantaggio e ampliarlo il più possibile mantenendo sempre in movimento la catena di passaggi per arrivare a un tiro pulito. Le sue visioni sul pick and roll sono indispensabili per l’attacco della squadra, e in difesa riesce a essere efficace con una malizia davvero con pochi eguali — tanto da renderlo uno degli avversari più odiati dal resto della NBA.
Non c’è neanche una giocata che non sia celebrale, non c’è neanche un’esultanza che non ti faccia venire voglia di picchiarlo (se lo hai come avversario) o amarlo (se gioca per la tua squadra).
Nessun altro giocatore riesce a sfruttare così a fondo il 100% del proprio cervello come fa Ingles, che a casa potrebbe benissimo avere una scorta di quelle pasticche che Bradley Cooper prende in Limitless (forse le occhiaie che si porta appresso si spiegano anche così, come effetto collaterale).
C.J. McCollum
Già tre anni e mezzo fa scrivevamo di come CJ McCollum fosse riuscito a diventare un giocatore NBA di livello grazie allo studio dei video da vero studente modello. Nel resto del tempo questa sua capacità non ha fatto altro che consolidarsi, diventando davvero un esempio di come si possa riuscire a salire continuamente di livello grazie alla tecnica, all’allenamento e ad un’efficienza nei movimenti di fattura in certi momenti quasi artistica.
McCollum dà sempre l’impressione di sapere esattamente quanti passi e palleggi servono per raggiungere il suo obiettivo, senza usarne né uno di troppo né uno di meno. La sua gara-7 da 37 punti sul campo di Denver rimane una delle prestazioni ai playoff più sottovalutate degli ultimi anni: la spintina con cui si libera di Torrey Craig per il tiro del +3 nel finale è davvero da cultori del gioco.
McCollum si muove sempre alla velocità che più gli è congeniale senza farsi prendere dalla fretta, grazie soprattutto alla capacità di tiro da ogni posizione (soprattutto dalla media distanza) che rappresenta la sua valvola di sfogo nel momento in cui il suo piano principale non va a buon fine. I Blazers hanno avuto una stagione tormentata, ma si sono impegnati sul lungo periodo con lui e Damian Lillard: sarebbe interessante vedere in futuro come potrebbe cavarsela anche da solo, con maggiori responsabilità creative dal palleggio e compagni migliori nei ruoli di ala e sotto canestro.
Draymond Green
Si dice spesso che il più grande pregio di un uomo sia anche il suo maggior difetto. Il carattere di Draymond Green è allo stesso tempo il motivo principale per cui ha avuto il successo che ha avuto, ma anche il motivo per cui — non appena cala il suo livello di attenzione — emergono prepotenti anche i lati oscuri, come ben ricordano a Oakland per le finali del 2016. Quello che in ogni caso non si può discutere è la sua applicazione cerebrale alla difesa: Green è un manuale di letture difensive - già adesso uno dei difensori più intelligenti della storia del gioco - ed è riuscito con la mente a sopperire alla mancanza di centimetri mettendo il suo marchio su tre titoli NBA e risultando la chiave di uno dei migliori quintetti di sempre quando scalava da 5.
Sempre al posto giusto al momento giusto.
Se i Golden State Warriors sono riusciti a costruire una difesa di livello celestiale pur avendo in campo un bersaglio per gli attacchi avversari come Steph Curry è grazie alla capacità di Draymond di prevedere il gioco. Quella di Green è realmente genialità: sa esattamente dove vogliono andare gli avversari, ruota con anticipo per negare la soluzione e allo stesso tempo ha la rapidità per marcare due persone contemporaneamente. Non sappiamo se abbiamo visto il meglio di quello che può dare o se c’è ancora qualcosa in quel serbatoio, ma quello che abbiamo visto basta e avanza per Springfield.
J.J. Redick
Tirare è uno degli aspetti basilari della pallacanestro: è il gesto tecnico con cui tutti cominciano e quello che ti dà maggiori chance di avere successo, specialmente senza mezzi atletici straordinari. Ma per diventare un grande tiratore al più alto livello al mondo non basta saper tirare, ma bisogna sapersi costruire le condizioni per farlo nella miglior maniera possibile. C’è tutto un lavoro di preparazione meticolosa che va al di là della mera meccanica, altrimenti Anthony Morrow non avrebbe avuto la carriera dimenticabile che ha avuto. Serve intelligenza, e tra i tiratori attualmente in NBA in pochi si avvicinano a quanto fa J.J. Redick.
Poi certo: anche saper tirare così aiuta, ma non è tutto.
Redick ha trovato nella sua testa le risorse necessarie per costruirsi una carriera di alto livello nonostante dei limiti fisici piuttosto evidenti sia in termini di atletismo che di dimensioni. Però sa sempre quello che deve fare, come deve farlo e quando deve farlo, oltre ad avere una risposta sempre pronta in base alle reazioni della difesa, diventando un bloccante sottovalutatissimo (come d’altronde tutti i grandi tiratori, capaci in questo modo di manipolare gli avversari e aprire spazi per i compagni). Doti che gli sono servite anche per sopravvivere in difesa, prima che l’avanzare degli anni lo portasse a cedere un po’ anche in quella metà campo diventando un bersaglio per gli avversari.
PJ Tucker
Ci sarebbero probabilmente tanti altri giocatori che meriterebbero di far parte di questa lista, dalla genialità del basket diNikola Jokic alle piccole cose che rendono grande Trae Young, ma bisogna dare i giusti meriti a un giocatore che deve per forza di cose affidarsi al suo cervello per andare ben oltre i limiti del suo corpo. Ai tempi dei Suns — cioè tre anni fa, anche se sembra passata una vita — Tucker giocava da 3 molto fisico e solo occasionalmente scalava da 4; ora gioca il 28% dei suoi possessi da 5 e i Rockets sono talmente convinti che possa sopravvivere contro chiunque da cedere l’unico giocatore sopra i 2.11 presente a roster, affidandogli l’onere e la responsabilità di marcare tutti i centri della NBA.
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Miglior post su Instagram della stagione? Se la gioca di sicuro.
In qualche modo l’evoluzione del basket segue lo spostamento progressivo di Tucker verso il ruolo di 5, dove più che i centimetri contano lo spessore — inteso proprio come spazio occupato dal proprio corpo, visto che tutti i Rockets hanno il fisico dei linebacker NFL — e la capacità di muovere i piedi con intelligenza. Tucker tappa tutti i buchi lasciati dai compagni, cercando di leggere il gioco in anticipo e di sacrificare il suo corpo per impedire agli avversari un canestro facile. Un lavoro encomiabile e sfiancante, sul quale si sorreggono sostanzialmente tutte le speranze di vittoria dei Rockets quando e se la stagione ricomincerà: senza Tucker, giocare in quel modo sarebbe semplicemente impossibile.