Forse il resto della NBA sperava di essersi lasciato i Golden State Warriors alle spalle. Dopo due stagioni in cui la squadra della Baia di San Francisco era sparita un po’ dai radar, senza riuscire a qualificarsi per i playoff dopo un lustro di dominio nella Western Conference e della NBA in generale, la sensazione era che quel capitolo fosse ormai pronto per essere concluso e mandato in stampa per i libri di storia, lasciandolo a sedimentare per qualche tempo prima di cominciare a discutere se fosse stata la squadra più forte di tutti i tempi oppure no.
I tentativi di mantenere intatto quel nucleo formato da Steph Curry, Draymond Green, Steve Kerr e l’infortunato Klay Thompson sembravano sposarsi male con l’esigenza che la NBA stessa impone di rinnovarsi di continuo: in uno scenario che è cambiato vorticosamente attorno a loro, è difficile trovare tre All-Star e un capo-allenatore che rimangono per così tanto tempo nello stesso posto. E soprattutto è quasi impossibile che continuino a vincere così tanto da costringere la dirigenza e la proprietà a puntare ripetutamente su di loro, pagando astronomiche luxury tax pur di non rompere il giochino. Solo che ora sono di nuovo in vetta alla NBA con un record di 15 vittorie e due sconfitte, sembrando di nuovo i favoriti per vincere il titolo a fine anno. E giocano con la motivazione di dimostrare a tutti quanto si sbagliavano: «Sono come Arya di Game of Thrones» ha detto Steve Kerr ridendo, ma neanche troppo. «Ho segnato tutti i nomi dei membri dei media che hanno detto che saremmo rimasti fuori dai playoff, e li sto andando a prendere uno a uno. Ogni volta che li vedo gli tiro un’occhiata e loro capiscono cosa significa».
I semi di questi Warriors
Già verso la fine della passata stagione si poteva intuire che qualcosa fosse cambiato. Dopo un’annata nel 2019-20 completamente persa in cui Curry e Thompson hanno giocato la bellezza di cinque partite (tutte di Steph, peraltro) e Green sembrava ai minimi storici per interesse nei confronti del gioco della pallacanestro, gli Warriors dello scorso anno hanno subito il contraccolpo psicologico del secondo grave infortunio di Thompson a poche settimane dall’inizio della regular season. Una regular season in cui, al netto di uno Steph Curry formato MVP, erano chiaramente in difficoltà nel far combaciare le aspettative dei veterani con le esigenze dei giovani e dei nuovi arrivati, senza riuscire a trovare un equilibrio tra le due anime della squadra.
L’infortunio di James Wiseman, seconda scelta assoluta al Draft 2020 preferendolo a LaMelo Ball, è stato paradossalmente il momento di svolta per quel gruppo, che è tornato a difendere a livelli fenomenali grazie a un Draymond Green da secondo posto nella classifica del premio di Difensore dell’Anno (chiudendo al quinto posto di squadra per rating difensivo su base stagionale) e ad affidarsi anima e corpo a Steph Curry per trascinare un attacco asfittico (15 punti su 100 possessi di differenza tra quando era in campo e quando era fuori).
Una stagione che non è stata da MVP solo per infortuni e record di squadra.
Dal 7 aprile in poi, giorno della vittoria sul campo dei poi campioni NBA dei Milwaukee Bucks, gli Warriors hanno chiuso la regular season con un record di 15 vittorie e 4 sconfitte, venendo poi eliminati al torneo play-in da Lakers e Grizzlies in due gare che hanno esposto l’equilibrio precario su cui viveva quel gruppo. Ma aver chiuso così bene ha dato le indicazioni che la dirigenza cercava per ritenere che il ciclo di questa squadra non fosse ancora finito: dopo aver incassato la fiducia di Steph Curry firmandolo per altri quattro anni a 215 milioni di dollari (con lo stesso Steph che aveva dichiarato di «aver pensato di andare via»), il GM Bob Myers ha provato a ricreare una formula più vicina a quella squadra che nel 2014-15 aveva sorpreso tutta la NBA, aderendo perfettamente ai dettami cercati da Steve Kerr per massimizzare le sue stelle.
Per questo non sono stati confermati i vari Kelly Oubre (incompatibile con il sistema di letture e reazione di Kerr), Eric Paschall (ceduto a Utah per motivi salariali), Nico Mannion (che cercava un contratto garantito) e Kent Bazemore (che ha preferito andare ai Lakers), mentre sono stati aggiunti veterani al minimo salariale più adatti al sistema come Nemanja Bjelica e Otto Porter, oppure gente che lo ha letteralmente creato come Andre Iguodala. Al Draft, invece, su indicazione della proprietà si è cercato di guardare di più al futuro, investendo la settima scelta al Draft su un prospetto come Jonathan Kuminga e la 14^ su Moses Moody, non avendo trovato sul mercato una trade che potesse avere senso.
Il risultato è stato sorprendente anche per loro stessi. Dopo aver vinto tutte le cinque partite di pre-season, gli Warriors hanno vinto le prime quattro gare stagionali (di cui le prime due contro Lakers e Clippers), perso una partita in casa contro Memphis cui hanno messo il pallone della vittoria nelle mani di Steph Curry nei regolamentari e quindi vinto altre sette partite in fila, facendo drizzare le orecchie al resto della NBA che pensava di essersi liberata di loro una volta per tutte. Ma se si pensava che il calendario “morbido” (una sola gara al di fuori della California nelle prime dodici giocate) li avesse aiutati, il 3-1 con cui hanno chiuso un mini-ciclo di gare a Est ha confermato che questi Warriors sono da considerare a tutti gli effetti dei candidati credibili per il titolo, portando Steve Nash — allenatore dei Brooklyn Nets di Kevin Durant e James Harden — ad ammettere candidamente che la sua squadra «non è nella stessa categoria della loro, ora come ora».
Dubs are back
Al momento in cui scriviamo i Golden State Warriors hanno il miglior record della lega, hanno il miglior differenziale su 100 possessi della lega (+13.3, dati Cleaning The Glass) con il secondo miglior attacco dietro Utah e la miglior difesa in NBA. Da qualunque parti li si osservi sembra di essere tornati indietro nel tempo al 2014: nessuno tira come loro (oltre il 56% effettivo dal campo, primi in NBA), nessuno muove il pallone come loro (il 70% dei canestri sono assistiti), sono in top-10 sia per rimbalzi offensivi che per liberi procurati, ma soprattutto è quello che riescono a fare nella metà campo difensiva a spaventare, riuscendo a costringere gli avversari a cattive percentuali, forzando tantissime palle perse (pur commettendone tantissime a loro volta, ma finora il bilancio è comunque a loro favore) e non concedendo mai seconde opportunità a rimbalzo difensivo, uno dei pochi modi che le squadre avversarie avevano per far pagare la loro mancanza di centimetri e chili.
Una fortezza difensiva in cui Draymond Green è tornato a ruggire come i vecchi tempi. Forte di una condizione atletica scintillante dopo aver passato l’estate con Team USA per mettersi un altro oro olimpico al collo, è tornato a vedere il gioco con due secondi di anticipo rispetto a tutti gli altri, manovrando i compagni come marionette per spegnere sul nascere ogni iniziativa avversaria. Ci sono stati alcuni quarti, come il terzo nelle vittorie contro Chicago e contro Brooklyn, in cui gli Warriors sono sembrati muoversi come un corpo unico, cambiando marcature con la fluidità con cui l’acqua scorre in un fiume e mantenendo sempre la propria struttura difensiva, senza doversi muovere da una parte all’altra del campo per tappare buchi ma rimanendo sempre estremamente disciplinati.
Steve Kerr ha anche cominciato a sperimentare: qui un possesso con la difesa a zona “Triangle and Two” (tre giocatori a occupare il centro del campo a zona, altri due a uomo sui lati) che manda in totale confusione i Brooklyn Nets.
Laddove non arriva Draymond, poi, ci pensa Andre Iguodala. Come se non se ne fosse mai andato dopo le Finals del 2019, Iggy ha ripreso il suo posto di leader della second unit e tiene in mano tutti quanti: il differenziale su 100 possessi tra quando è in campo e quando è fuori è di -13.7 punti concessi in difesa, con gli avversari che tirano col 6% in meno di percentuale effettiva quando lui è sul parquet. All’impatto in campo si aggiunge poi quello nello spogliatoio, dove funge da punto di riferimento per il supporting cast e smussa gli angoli dei caratteri non necessariamente semplicissimi di Green e Curry, presentandosi come il “maestro severo ma giusto” per i giovani del roster.
Se la difesa è il motivo per cui Golden State è in grado di aprire in due ogni partita — il loro rating difensivo nei terzi quarti è di 86.2, quasi 10 punti inferiore rispetto a quello dei secondi in classifica —, è l’attacco quello che li ha rimessi sul League Pass di ogni appassionato di pallacanestro. Non esiste uno spettacolo paragonabile agli Warriors quando il pallone si muove nel loro attacco, principalmente perché non c’è niente di paragonabile a Steph Curry in questo momento, il candidato numero 1 al premio di MVP. Come se non avesse ormai quasi 34 anni, il tre volte campione NBA sembra tornato quello del 2015-16, l’unica volta in cui un giocatore è stato votato all’unanimità per il premio di MVP, e sta viaggiando ai massimi in carriera per triple realizzate, un dato semplicemente insensato per un giocatore che tra poco diventerà il primatista per tiri da tre in regular season superando Ray Allen.
Everything in its right place
Ma se Steph è tornato a essere Steph, a fare la differenza è il modo in cui il resto del roster ha trovato il proprio posto attorno a lui in modalità supernova. Ogni giocatore che Steve Kerr manda in campo sembra funzionare alla perfezione: Jordan Poole è diventato un giocatore affidabilissimo, dopo che lo scorso anno era stato mandato in G-League per ricostruirgli un po’ di fiducia, e la squadra regge anche nei quintetti con lui da solo senza Curry (+3.6); Andrew Wiggins, incapace di essere un pianeta di per sé, ha trovato una nuova vita come satellite attorno al Sole Curry come difensore sugli esterni, penetratore e realizzatore all’occorrenza, come nelle ultime due vittorie contro Detroit e Toronto in cui ha sopperito all’assenza di Steph (e della sua prova opaca coi Raptors); Kevon Looney è lo scudiero che porta tutti i blocchi di cui Steph ha bisogno, per non parlare dell’intesa ormai oltre la telepatia che ha sviluppato con Draymond.
Ma anche tutti gli altri membri della panchina funzionano, trovando un protagonista nuovo sera dopo sera. Bjelica sembra non aver fatto altro nella sua vita che non il 5 tattico nel sistema di Kerr; Damion Lee si fa trovare pronto sugli scarichi ed è il quarto miglior realizzatore di squadra; Otto Porter sembra essere rinato; Gary Payton II a 29 anni ha finalmente trovato una casa nel basket professionistico; anche Juan Toscano-Anderson, utilizzatissimo lo scorso anno, è stato retrocesso nella rotazione ma a Detroit ha distribuito 9 assist giocando 37 minuti partendo da titolare; persino un two-way come Chris Chiozza, una volta chiamato in causa, è capace di andare in doppia cifra dalla panchina senza colpo ferire. Anche Jonathan Kuminga, usato con parsimonia fino a questo momento, ha mostrato dei lampi sensazionali specialmente in difesa come lungo in grado di cambiare su ogni tipologia di avversario.
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Non una brutta arma tattica da avere in panchina per poterlo buttare contro il miglior esterno avversario e togliere un po’ di responsabilità difensive a Wiggins e, eventualmente, Thompson.
Dopo due anni in cui i giocatori in grado di dare un contributo sera dopo sera si contavano sulle dita di una mano (e anche negli ultimi anni con KD, per forza di cose, la profondità non poteva essere eccellente), gli Warriors si sono scoperti improvvisamente lunghissimi e competitivi — il tutto senza nemmeno affrontare l’argomento dei rientri ormai imminenti di Klay Thompson e James Wiseman, due potenziali titolari di questo roster attorno a Curry, Green e Wiggins.
Proprio Thompson e Wiseman sono i due punti di domanda più grandi per Golden State nel resto della stagione. Dal modo in cui verranno reinseriti in questa macchina che sta girando a pieni cilindri dipenderanno buone parti delle possibilità di tornare a giocarsi il titolo NBA. Il calendario, dopo un inizio comunque morbido con tante partite in casa, si complicherà attorno alle feste dovendo affrontare tre volte Phoenix prima di Natale, due volte Denver appena dopo, Utah a capodanno e Miami il 3 gennaio, con due trasferte lunghe a Est a metà dicembre e a metà gennaio. Insomma, è plausibile che non continuino sempre a viaggiare ai livelli di eccellenza mostrati in questo primo mese di regular season.
Ma è anche vero che per tutte le altre è ormai da mettere in conto che possano perdere contro Golden State sia in casa che fuori, e che a fine regular season bisognerà osservare bene dove saranno posizionati in classifica per evitare di trovarseli davanti al primo turno di playoff. Perché gli Warriors in questo inizio di stagione hanno piantato stabilmente la loro bandierina nel ristretto novero delle pretendenti al titolo, e il resto della lega rischia di nuovo di ripiombare nell’incubo di doverli inseguire senza mai riuscire a raggiungerli.