Negli ultimi tre anni, ogni volta che mi sono ritrovato a parlare con mia madre di NBA, in un modo o nell’altro arrivava sempre a chiedermi dei Golden State Warriors. I suoi ricordi sono ancora legati al 2016, l’ultimo anno che ho vissuto a casa dei miei genitori prima di trasferirmi, e in cui lei si faceva le nottate in piedi per vedere le Finals insieme a me, forse consapevole che da lì a pochi mesi me ne sarei andato e che quei momenti non li avremmo vissuti più (o più probabilmente perché tanto facevo un casino tale da tenerla in piedi in ogni caso).
Ogni volta che ne abbiamo parlato negli ultimi tre anni, ha vissuto sempre con un certo sgomento il fatto che non fossero lì a giocarsi il titolo ogni anno: «Ma come, erano così forti. Cos’è successo?». Eh, cos’è successo: un sacco di cose. L’infortunio e il conseguente addio di Kevin Durant nell’estate del 2019. L’infortunio al crociato di Klay Thompson, nell’ultima partita delle Finals contro Toronto che stava tenendo aperte quasi da solo. L’infortunio alla mano di Steph Curry alla quinta partita della stagione 2019-20, rimanendo fuori per il resto dell’anno. Andre Iguodala sacrificato sul mercato per motivi di spazio salariale. Draymond Green che, rimasto solo, non ha nemmeno fatto finta di nascondere il suo disinteresse più totale nel far parte di una squadra da 15 vittorie. La pandemia e la bolla di Orlando a cui nemmeno sono andati. D’Angelo Russell e poi Andrew Wiggins. Il secondo tragico infortunio di Klay Thompson. James Wiseman e i suoi problemi. Kelly Oubre e Nico Mannion. La ricerca di un equilibrio difficile tra la vecchia guardia e le giovani scelte al Draft. Avrei potuto andare avanti per ore, le rispondevo solo: «La NBA non è fatta perché una squadra rimanga forte per tanto tempo, prima o poi il conto arriva per tutti». Chissà se lo ha capito.
Ma mi sbagliavo, perché dopo tre anni di purgatorio i Golden State Warriors sono di nuovo alle Finals. E le seste finali in otto anni hanno un sapore speciale rispetto alle altre, non fosse altro perché nell’ultimo triennio hanno dovuto attraversare un Purgatorio a cui non erano abituati, o per dirla con le parole di Steve Kerr dopo la loro prima pesantissima sconfitta al Chase Center per mano dei Clippers: «Negli ultimi cinque anni abbiamo vissuto in un mondo che non dovrebbe esistere, ma questa è la realtà della NBA quando hai nove giocatori di 23 anni o più giovani. Per molti versi, stiamo ricominciando da capo».
Il ritorno dell’identità degli Warriors originali
A vederlo col senno di poi, l’infortunio di Wiseman e la stagione intera saltata è stato il punto di svolta per questa squadra. Già all’inizio dell’anno quando sono partiti fortissimo avevamo scritto che quell’infortunio aveva dato loro chiarezza nella direzione da prendere. Gli Warriors non solo hanno puntare a vincere subito e a regalare un altro giro di giostra ai tre Padri Fondatori dello Strenght In Numbers (Steph Curry, Draymond Green e Klay Thompson), ma hanno deciso di farlo tornando alle origini, cercando di trovare sul mercato o di costruirsi in casa i giocatori più adatti al loro peculiare sistema di gioco offensivo e difensivo.
Anche se ormai sono in giro da quasi dieci anni, in pochi in realtà hanno imitato lo stile di gioco degli Warriors — fondamentalmente perché nessuno ha un giocatore come Steph Curry nel roster. Golden State continua a giocare pochissimi pick and roll rispetto a quanto fanno le altre squadre, usano i lunghi come creatori di gioco come nessun altro, sfruttano i blocchi lontano dalla palla per mandare in confusione le difese, fanno della lettura delle situazioni e del movimento di uomini e palla la loro ragione di vita — anche a costo di viaggiare sempre sul filo sottile che separa l’assist geniale dalla palla persa catastrofica, un perenne equilibrismo senza che sotto ci sia alcuna rete di salvataggio.
Il ritorno di Andre Iguodala in estate e gli arrivi di veterani come Otto Porter Jr. o Nemanja Bjelica, che fin dal primo momento sono sembrati perfetti per il sistema di Kerr, testimoniano proprio questa volontà di tornare al passato, abbandonando invece la direzione dell’atletismo e della lunghezza di braccia che si cercava in giocatori come Kelly Oubre o Wiseman. Anche quelli che erano già nel roster prima di questa stagione sono stati riprogrammati per potersi adattare al sistema: per alcuni era l’unico modo di rimanere in NBA (in quante altre squadre giocherebbero Gary Payton II o Juan Toscano-Anderson?), per altri l’unico per trovare un senso compiuto alle loro carriere, in particolar modo Andrew Wiggins e Jordan Poole.
Nella serie contro Dallas che si è appena conclusa Wiggins è stato a dir poco decisivo. Non solo perché in difesa si è sbattuto come non mai in marcatura su Luka Doncic, accettando di sacrificarsi sui 28 metri di campo in ogni singolo possesso pur di cercare di sfiancare lo sloveno, ma anche per le responsabilità offensive che si è preso per farlo lavorare in difesa, culminate con la schiacciata più sensazionale di questi playoff.
Come ha detto Klay Thompson dopo gara-1: «Non si può insegnare quell’atletismo».
Poole è stata invece la rivelazione di questa stagione, ma il suo successo nasce già da quella passata, quando gli Warriors decisero di mandare lui e Nico Mannion nella bolla della G-League per farli giocare e far ritrovare la fiducia necessaria per poter diventare due comprimari produttivi in uscita dalla panchina. Ma mentre Mannion ha finito per perdersi a livello NBA, non riuscendo a trovare un contratto garantito al termine del suo anno da rookie e tornando quindi in Italia dopo l’ottima estate azzurra, Poole è esploso: nelle ultime 36 partite della stagione 2020-21 ha chiuso con quasi 15 punti di media e percentuali in netto miglioramento rispetto al suo primo anno e mezzo in NBA, gettando i semi per questa sensazionale stagione in cui si è trasformato in una versione a tratti neanche così lite di Steph Curry.
Ma il ritorno di Golden State alla propria identità di gioco passa anche dal ritorno in campo di Kevon Looney, un altro che nel 2019 pur avendo solo 22 anni sembrava pronto al ritiro da quanto era incapace di muoversi per il campo, mentre ora è imprescindibile per la sua presenza in area, per la sua capacità di cambiare contro tutti (anche contro Doncic!) e per l’apporto a rimbalzo che fornisce, chiudendo la serie contro Memphis con i suoi 22 rimbalzi e togliendosi anche lo sfizio di chiudere con 21+12 in gara-2 contro Dallas, due prestazioni difficili da spiegare a guardare un giocatore che sembra cigolare ogni volta che si muove per il campo.
Anche gente che ha visto poco il campo come Damion Lee o che ha avuto sfortuna come Gary Payton II (che potrebbe tornare in campo dopo la frattura al gomito di gara-2 contro Memphis) sono stati cresciuti e allenati per essere funzionali all’idea di gioco di Kerr, che dopo l’infortunio di Otto Porter (il cui minutaggio deve sempre essere tenuto sotto controllo, ma che di certo sa come si gioca a pallacanestro) ha trovato il modo di inserire nella serie anche due rookie come Jonathan Kuminga e Moses Moody, cercando davvero di utilizzare tutti i membri del roster a disposizione, sfruttando la profondità di una squadra pensata per avere il maggior numero di soluzioni possibili ma sempre con una chiara impronta tattica in mente — cioè gente abbastanza intelligente per poter giocare in funzione di Curry, Green e Thompson.
Sia chiaro, questa profondità non è gratis. Questi Warriors pagheranno 346 milioni di dollari per questa squadra, divisi quasi equamente tra i 176 degli stipendi dei loro giocatori e i 170 di luxury tax che dovranno versare alla NBA. Una cifra enorme, mai vista prima nella lega, e che non è nemmeno destinata a scendere in futuro, viste le possibili estensioni di contratto di Wiggins e di Poole già quest’estate. Ci vogliono le tasche profondissime di Joe Lacob, un mercato di grandi dimensioni come San Francisco e una macchina da soldi come il Chase Center per poter rendere sostenibile uno sforzo economico del genere, ma in una lega in cui quasi tutti i proprietari al momento di fare sul serio si tirano indietro (il riferimento ai Lakers che lasciano andare Alex Caruso e ai Bucks che lasciano partire PJ Tucker è puramente voluto), bisogna lodare quanto hanno deciso di fare gli Warriors pur senza essere certi di avere una squadra capace di competere per il titolo tra le mani. John Hollinger di The Athletic prima della stagione li dava addirittura al nono posto nella Western Conference con un record di 39-43: non era per niente scontato che tornassero qui.
Alcuni hanno maliziosamente fatto notare come perdere gara-4 per avere un’altra partita di playoff al Chase Center sia di grande aiuto per pagare quei 346 milioni.
La difesa è quello che fa girare gli Warriors
Anche se il loro sistema offensivo così peculiare rimarrà sempre ciò che cattura l’occhio di Golden State, i loro successi del decennio passato sono sempre stati basati innanzitutto su quello che sono riusciti a fare in difesa. E anche quest’anno non fa eccezione: il momento di flessione che hanno avuto a metà regular season e che li ha fatti scendere fino al terzo posto a Ovest è dovuto quasi esclusivamente all’assenza di Draymond Green, fuori per infortunio praticamente da Natale a metà marzo. Un’assenza che gli Warriors hanno metabolizzato peggio perfino rispetto a quella di Steph Curry da metà marzo in poi, sopperendo alla sua presenza offensiva dando maggiori responsabilità a Klay Thompson (che è sembrato tornare se stesso solo quando è cominciata la primavera, ma che ancora è altalenante nelle sue prestazioni) e soprattutto Poole, che ha inanellato 22 partite consecutive sopra i 18 punti segnati per finire la stagione, tanto da partire titolare al posto di Curry anche nelle prime partite della serie contro Denver (86 punti nelle prime tre gare).
Il grosso dubbio che era lecito avere prima dell’inizio dei playoff è come avrebbero fatto gli Warriors a nascondere la presenza di due cattivi difensori in campo come Curry e Poole e un mezzo cattivo difensore come è diventato Thompson dopo i due infortuni. Ma la presenza di tre difensori sopra media come Wiggins, Green e Looney nel frontcourt e l’esperienza condivisa di questo gruppo è riuscita fino a questo momento a nascondere ogni mancanza, o quantomeno a renderla sostenibile. Al netto dei suoi limiti Curry è una superstar che non si risparmia nella metà campo difensiva, a differenza di molti suoi altri colleghi che spesso utilizzano la scusa della loro mole di lavoro offensiva per non opporre resistenza; Poole ha avuto momenti di evidenti difficoltà specialmente contro Ja Morant, ma se non altro sa convogliare i suoi avversari verso un compagno in aiuto e ha mani veloci sulle linee di passaggio; Thompson quando è punto sull’orgoglio riesce ancora a dare qualche guizzo, al netto di un impatto negativo sulle sorti dei suoi (+11.7 punti concessi con lui in campo ai playoff, di gran lunga il peggior dato di squadra secondo Cleaning The Glass).
E anche Steve Kerr, sotto la supervisione del futuro allenatore dei Sacramento Kings Mike Brown, ha ampliato il ventaglio di soluzioni a disposizione della squadra. Non è inusuale vedere gli Warriors cambiare schema difensivo di azione in azione, passando quasi senza soluzione di continuità dalla difesa a uomo a quella a zona, buttandoci dentro anche qualche possesso di “box-and-one” o “triangle-and-two” come imparato a proprie spese nelle Finals del 2019 contro Nick Nurse e i suoi Toronto Raptors. Una varietà di soluzioni che sarebbe impossibile senza il genio difensivo di Green a leggere le intenzioni degli avversari con due secondi di anticipo, ma anche senza una fisicità sottovalutata presente in ogni posizione della squadra di Kerr. La presenza di Looney e Wiggins infatti permette di non andare sotto a rimbalzo contro nessuno, neanche nella serie contro una fenomenale squadra a rimbalzo d’attacco come i Memphis Grizzlies (il lavoro di Wiggins sul connazionale Brandon Clarke è stato a tratti eccezionale), eliminando uno dei possibili punti deboli sfruttabili dagli avversari. Anche nella serie contro Dallas gli Warriors hanno fatto la differenza sotto i tabelloni, sembrando ingestibili anche dal punto di vista atletico.
Questi Warriors non hanno la forza rivoluzionaria del biennio 2014-16 e non hanno i picchi di talento del triennio con Durant tra il 2016 e il 2019, giorni in cui bastava accelerare per 15 minuti a partita per battere qualsiasi avversario. Hanno dovuto spalmare il loro impegno lungo tutti i 48 minuti, hanno trovato e fatto crescere comprimari diversi attorno ai tre capisaldi, hanno accettato di non essere più “anni luce avanti agli altri” e si sono rimboccati le maniche per tornare a esserlo. Ma come ha detto Draymond Green dopo gara-5: «Non è arrivato nessuno a spodestarci per davvero. Toronto ci ha battuti, ma non è arrivata nessun’altra squadra a dire: ‘Ok, l’era degli Warriors è finita’. Non abbiamo lasciato quel trono perché siamo diventati troppo vecchi o perché ci siamo separati: non lo abbiamo fatto per via degli infortuni. Deve ancora arrivare una squadra capace di batterci al completo».
In questo vuoto di potere a Ovest dovuto al fatto che i Lakers campioni nel 2020 si sono persi nelle loro idiosincrasie, i Jazz si sono squagliati nelle loro debolezze, i Suns si sono sciolti sul più bello e i Clippers sono stati rimandati alla prossima stagione dagli infortuni, Golden State si è imposta di nuovo sulla propria conference come fa ininterrottamente dal 2015 ogni volta che ha avuto la possibilità di presentarsi ai playoff, rubando almeno una bandiera dal campo avversario nelle ultime 26 serie consecutive (record nella storia dei playoff). In tre delle cinque occasioni precedenti in cui sono arrivati in finale hanno finito per alzare il Larry O’Brien Trophy: dovessero riuscirci quest’anno, considerando il percorso che hanno dovuto fare per tornare fino a qui, sarebbe il titolo più dolce della loro storia.