Uno degli aspetti passati più sotto traccia del trasferimento di James Harden ai Brooklyn Nets era stato messo nero su bianco un paio di mesi prima che si concretizzasse da Adrian Wojnarowski di ESPN, quando parlando della mancata estensione di contratto del Barba con Houston per forzare il suo addio, scrisse che “costruire un super team con i Nets rappresenta la strada migliore per raggiungere il titolo. Harden può diventare free agent nel 2022 se deciderà di uscire dal suo ultimo anno di contratto — e fonti sostengono che Brooklyn rappresenti un piano di due anni per vincere il titolo prima di scegliere il prossimo passo della sua carriera”.
Pur consci di questa base di partenza, è stato comunque sorprendente che, una volta che i Nets gli hanno proposto un’ulteriore estensione di contratto da 223 milioni di dollari per quattro anni (un accordo che lo avrebbe portato a guadagnare la gargantuesca cifra di 61.8 milioni di dollari nel 2027, anno in cui compirà 38 anni) prima dell’inizio di questa stagione, lui abbia rifiutato.
Harden è stato abbastanza trasparente nello spiegare le sue ragioni, dicendo che il contratto e i soldi «saranno comunque lì», che non ha «in programma di lasciare l’organizzazione» e che il suo obiettivo «è solo quello di essere in salute e vincere il titolo». Allo stesso modo ha però sottolineato come in carriera non sia mai stato free agent, trovando accordi per estendere il suo contratto prima della naturale scadenza rimanendo «sempre leale alla franchigia», nel suo caso i Rockets. Una lealtà che però non sente nei confronti dei Nets, dove per la prima volta dopo anni da re incontrastato in Texas non è più stato al centro di tutte le attenzioni, andando inevitabilmente a fare da spalla a Kevin Durant e dovendo fare i conti con i mal di testa provocati da Kyrie Irving, le cui controversie sembrano dargli più fastidio ogni giorno che passa.
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È interessante notare come il suo stesso arrivo a Brooklyn fosse dovuto, almeno in parte, dalle vicissitudini di Irving, che proprio in quel periodo era sparito per due settimane senza dare alcuna notizia di sé a compagni e franchigia.
La questione del futuro di Harden è passata abbastanza sotto traccia nella narrazione di questa stagione NBA fino a quando non hanno cominciato ad accumularsi voci su un suo possibile addio in estate per andare ai Philadelphia 76ers e ricongiungersi a Daryl Morey, con cui a Houston aveva formato un sodalizio capace di andare a tanto così dallo spodestare i Golden State Warriors della dinastia nel 2018. Il primo a darne notizia era stato l’insider Marc Stein, ma è stato soprattutto un articolo di Jake Fischer di Bleacher Report ad accendere la miccia delle speculazioni.
Secondo Fischer Harden avrebbe espresso a diversi suoi confidenti l’interesse nel lasciare Brooklyn, frustrato dalla situazione “part-time” di Irving per il suo rifiuto a vaccinarsi (tanto da lasciarsi scappare un sarcastico «Il vaccino glielo faccio io per i playoff» al termine di una conferenza stampa) e dalle rotazioni vorticose di coach Steve Nash (dovute anche alle tante assenze), ma anche ammettendo di non essersi ambientato bene a Brooklyn rispetto a quanto era abituato a Houston (anche citando la diversa tassazione tra i due stati, per quanto a Philadelphia la situazione non sarebbe così diversa).
Harden e i conti con la sua mortalità (cestistica)
Soprattutto, il grosso problema di Harden nell’ultimo anno sono però stati gli infortuni, in particolare un bicipite femorale che lo ha tormentato praticamente per la sua intera esperienza a Brooklyn. Dopo anni di incrollabile solidità dal punto di vista fisico a Houston (mai più di 10 partite saltate a stagione, nonostante una vita privata chiacchieratissima e una forma fisica non sempre priva di difetti), scavallati i 30 anni Harden si è ritrovato a fare i conti con un muscolo che non ne voleva sapere di guarire completamente, tanto da abbandonarlo alla primissima azione di gara-1 della serie contro i Milwaukee Bucks, poi decisiva per l’assegnazione del titolo.
Una serie nella quale Harden è poi tornato in campo dopo l’infortunio alla caviglia di Kyrie Irving, stringendo i denti e giocando evidentemente menomato — 14.3 punti di media con il 30% dal campo e il 19% da tre, pur con 6.7 rimbalzi e 8 assist in 46 minuti di media nelle ultime tre partite — pur di dare il suo contributo alla conquista del titolo. Uno sforzo ammirevole che non è bastato per una questione di centimetri, ma che lo ha costretto poi a un’estate in cui per sua stessa ammissione non ha potuto mai toccare la palla da basket, limitato a mesi di riabilitazione per cercare di risolvere definitivamente le ripetute lesioni subite al muscolo durante la stagione.
Harden si è poi ripresentato evidentemente fuori forma all’inizio di questa regolar season e almeno per il primo mese è sembrato un lontano parente del perenne candidato MVP ammirato a Houston, faticando a trovare i soliti viaggi in lunetta (solo una volta sopra quota 6 liberi tentati nelle prime 12 partite stagionali, complice anche il nuovo metro arbitrale) e soprattutto sembrando incapace di battere dal palleggio qualsiasi giocatore si trovasse davanti, la singola qualità che gli ha permesso di una macchina offensiva mostruosa nei suoi anni a Houston. La situazione ha cominciato a migliorare già tra metà novembre e metà dicembre (23 punti di media con 8 rimbalzi e 10.4 assist in 38 minuti di gioco) e, dopo aver saltato quattro partite a causa del Covid-19, è tornato a inanellare triple doppie da Natale in poi, realizzandone cinque tutte sopra i 30 punti nell’ultimo mese.
Il duello di Natale contro LeBron James.
Harden ha però dovuto cominciare a fare gli straordinari anche per l’infortunio al ginocchio di Kevin Durant, che lo ha costretto a sobbarcarsi un ulteriore carico offensivo stante la perdurante assenza di Irving per le partite interne, nelle quali i Nets hanno un record negativo con 12 vittorie e 13 sconfitte. Una situazione che gli ha evidentemente dato sempre più sui nervi con il passare del tempo: Harden probabilmente si aspettava di passare due anni “di relax” a Brooklyn, potendo contare sull’apporto di due realizzatori di prima grandezza come Irving e Durant per poter effettuare la transizione alla fase “facilitatore” (pur essendo comunque un accentratore di palloni e situazioni) della sua carriera, più concentrato sugli assist che non sull’accumulare bulimicamente punti come in alcune stagioni ai Rockets.
Un piano che però è andato in frantumi per i continui cambiamenti nel roster dei Nets, che in questa stagione hanno avuto ben 26 quintetti base diversi su 51 partite disputate, dovendo fare i conti anche con l’infortunio alla caviglia che continua a tormentare Joe Harris, fuori dal 14 novembre. Lo stesso Harden, dopo il tour de force da Natale in poi, nelle ultime partite ha dovuto fermarsi di nuovo per un problema al bicipite femorale e successivamente per un infortunio alla mano destra, e i Nets hanno ricominciato ad accumulare sconfitte scivolando fino al sesto posto a Est con un record sotto il 60% di vittorie, la base minima per una squadra che può contare su quel talento.
La partita di questa notte contro Sacramento è stato probabilmente il punto più basso della sua esperienza ai Nets. In back-to-back dopo la sconfitta a Phoenix (in cui era rientrato segnando 22 punti con 10 assist, ma tirando 6/19 dal campo), Harden ha segnato appena 4 punti con 2/11 al tiro, 0/5 da tre e soprattutto nessun viaggio in lunetta, come non gli era mai capitato in tutta la carriera con più di 33 minuti in campo. Una prestazione letargica in cui le sue sei palle perse hanno cancellato i 12 assist per i compagni, e in cui il suo -21 è stato un fin troppo evidente per essere ignorato — come fatto puntualmente notare dalla caustica stampa di New York, con il Daily News che lo ha definito “un incubo” e lo ha massacrato scrivendo che “quando Durant è fuori causa c’è solo una superstar a disposizione, perché Harden certamente non sembra tale e non lo sembra fin dall’inizio della stagione”.
Le cinque opzioni a disposizione del Barba
In generale sta accadendo quello che tutti temevano quando la proprietà dei Nets ha permesso a Irving di giocare part-time: l’atmosfera all’interno dello spogliatoio si è fatta sempre più pesante, con alcuni veterani come Paul Millsap (che ha chiesto pubblicamente di essere ceduto per il poco spazio ricevuto) e Blake Griffin (più fuori che dentro la rotazione dopo il rientro di LaMarcus Aldridge) che non hanno migliorato una situazione già resa surreale dall’impegno a singhiozzo di Irving. Brooklyn, ora come ora, sembra una squadra depressa, o per meglio dire frustrata: un aggettivo che lo stesso Harden ha utilizzato per descrivere il suo stato d’animo, anche se ha negato che lo sia per via di Irving, quanto piuttosto «perché non siamo in salute e abbiamo avuto un sacco di discontinuità per qualsiasi motivo: infortuni, Covid, qualunque sia il motivo».
L’atmosfera non esattamente gioviale della conferenza stampa in cui gli viene chiesto di commentare l’articolo di Bleacher Report e il momento dei Nets.
Mettendo tutto assieme, viene difficile pensare che non sia una frecciata nei confronti di un giocatore che con le sue scelte personali sta causando un danno grave ai suoi compagni di squadra, costretti a sobbarcarsi una dose ulteriore di lavoro (e quindi il rischio di infortunarsi, puntualmente e crudelmente realizzatosi) per sopperire alla sua deliberata assenza. Ed è plausibile pensare che Harden — il quale aveva in mente fin dall’inizio di considerare il suo passaggio a Brooklyn il modo migliore per togliersi la scimmia dalla spalla di vincere il primo titolo NBA della carriera per poi andare da un’altra parte a fare la prima stella — abbia già cominciato a guardarsi in giro per programmare la sua prossima mossa, come sempre ha fatto nella sua esperienza in NBA.
Al netto di un’immagine pubblica libertina, Harden è sempre stato metodico con la sua carriera come lo è in campo quando scandaglia la posizione di compagni e avversari per trovare il modo più efficiente per battere la difesa. E davanti a lui in questo momento, secondo quanto detto da Bobby Marks di ESPN, si ritrova cinque strade da percorrere:
Esercitare la player option da 47 milioni per la prossima stagione ed estendere per altri quattro anni, portando il totale a 270 milioni nel quinquennio (l’estensione offerta da Brooklyn e non accettata prima dell’inizio della regular season);
Declinare la player option e rifirmare in estate coi Nets per cinque anni a 269 milioni complessivi (il motivo per cui ha detto che «i soldi saranno lì»);
Declinare la player option e firmare con un’altra squadra con spazio salariale per quattro anni e 200 milioni di dollari (ma al momento ci sono solo quattro squadre con spazio salariale — OKC, Detroit, San Antonio e Orlando — e nessuna è una destinazione plausibile)
Esercitare la player option e farsi scambiare immediatamente, firmando poi un’estensione da 223 milioni in quattro anni dopo sei mesi dallo scambio (lo scenario che più avvantaggerebbe Philadelphia);
Declinare la player option e imporre una sign-and-trade con il contratto da 269 milioni in cinque anni, forzando la mano dei Nets (ma costringendo anche la sua nuova squadra a fare i conti con l’hard cap).
Solo in una di queste cinque soluzioni non ne uscirebbe con un contrattone da 269-270 milioni di dollari, ma è anche l’unica che non richiede un qualche tipo di cooperazione da parte dei Nets. Harden quindi ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con la sua attuale franchigia, sia perché rappresenta in ogni caso la sua miglior possibilità per vincere il primo titolo della carriera (semmai i Nets dovessero riuscire a mettere tutti i propri giocatori in campo e in salute), sia perché è consapevole di avere bisogno di loro per ottenere quello che vuole in estate, cioè l’ultimo contrattone della carriera in una destinazione a lui più gradita.
Per questo al netto della frustrazione evidente per tutto quello che è accaduto Harden è stato comunque professionale davanti alla stampa, cercando di comportarsi da leader anche quando il suo atteggiamento in campo non sembrava esattamente coinvolto nei destini della squadra. E allo stesso tempo i Nets non possono permettersi di perderlo, facendo muro in questa deadline per provare ad avere i Big Three a disposizione per i playoff e poi giocarsela con tutti. Dopotutto in questo anno abbondante sono scesi in campo solamente per la miseria di 16 volte sulle 123 partite disputate da quando Harden è arrivato, playoff inclusi. E in quelle 16 partite hanno mostrato dei livelli di shot-making insostenibili per qualsiasi altra squadra, con rendimenti offensivi fuori da ogni logica: nei 727 possessi giocati assieme con la maglia dei Nets finora, il loro rating offensivo è stato di 131 punti segnati su 100 possessi. Un numero irreale.
A questo punto del loro percorso, forse neanche il titolo NBA potrebbe bastare ai Nets per convincerlo a rimanere, perché è proprio vincendo il Larry O’Brien Trophy che Harden troverebbe la chiusura del cerchio della sua esperienza a Brooklyn — e dovrebbero concatenarsi una serie di circostanze davvero particolari per fargli cambiare un’idea che sembra ormai già presa. Al netto di tutto però, entrambe le parti hanno interesse a mantenere in piedi questo matrimonio di convenienza per il bene comune, anche se le crepe sembrano farsi sempre più visibili ogni giorno che passa.