Dalle file a bordo campo, i tifosi fissano la panchina dei Brooklyn Nets. Sembrano una versione contemporanea delle sentinelle del Deserto dei Tartari: sguardo fermo, braccia conserte, il telefono con lo zoom tirato al limite. Poco più in là, un grappolo di fotografi puntano i loro cannoni verso il tunnel degli spogliatoi. Manca quasi un’ora alla palla a due, ma questa sera non c’è traccia della tipica sonnolenza che precede le partite di regular season NBA. Si respira invece una tensione vivida, toccabile. E che non ha nulla a che vedere con la posta in palio della partita. Ci sono i Nets, ci sono Kevin Durant e Kyrie Irving, c’è l’ex Seth Curry e pure Andre Drummond. Ma soprattutto c’è il ritorno di Ben Simmons. Che per mesi a Philadelphia aveva vissuto sotto traccia, nascosto, più difficile da rintracciare di un testimone sotto protezione. E ora, come d’incanto, si può finalmente vedere. Di fatto, quasi toccare, e chissenefrega se non è ancora pronto a scendere in campo.
L’australiano trotterella verso il parquet alle 18.45, nella fase meno strutturata del riscaldamento. Accolto da una bordata di fischi, si apposta sotto il canestro. Proprio nel punto in cui, dopo aver superato Danilo Gallinari, rinunciò a una comoda schiacciata per servire un compagno, nella fase più torrida di gara-7 contro gli Atlanta Hawks. “Shoot it!” gli urlano dalle tribune, sfidandolo. Dietro alla postazione di ESPN, un gruppo di ventenni si è assiepato sulla ringhiera, quasi a voler assaggiare una vita da curvaioli che non vivranno mai. Prendono a pugni una maglietta di Louisiana State, con il nome di Simmons sopra. Eppure, come prevedibile, l’australiano non si scompone. Prende rimbalzi e scarica. Oggi come allora. “Non tiri nemmeno adesso!” gli rinfaccia qualcuno. All’ennesimo rimbalzo si alza verso il ferro, piazza una dolce schiacciata. È l’apice dei fischi, prima di tornare in spogliatoio. I tifosi dei Sixers ancora non lo sanno, ma sarebbe stato proprio quello il momento più elettrizzante di una serata invero orrenda.
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Presa di coscienza
Il resto della vicenda è storia nota. Da una parte le falcate di Durant, le magie di Irving, la mira infallibile di Curry. Dall’altra, i mattoni di James Harden, il nervosismo di Joel Embiid, e la serie impressionante di buchi difensivi che hanno presto trasformato una partita sulla carta equilibrata in una centrifuga senza tregua. E così, per i tifosi dei Sixers, i sogni di vendetta nei confronti di Simmons si trasformano in un frontale con la realtà. L’occasione per fermarsi, leccarsi le ferite, e soprattutto provare a guardare avanti. Il tanto temuto reality check, che nella cultura americana ha sempre risvolti traumatici, ma può anche essere un passaggio utile verso un auspicabile salto di qualità.
La piallata subita per mano dei Nets ha infatti avuto un valore simbolico pesante, molto superiore al suo effettivo impatto sulla griglia playoff. Trovatisi a battagliare in un clima da corrida, di fronte a un possibile avversario nei playoff della Eastern Conference, i Sixers sono infatti incappati in un collasso clamoroso. Che ha messo in luce senza pietà quello che potrebbe essere il risvolto peggiore della trade imbastita a metà febbraio. E ha infuso nella psiche dei tifosi una nuova sfumatura della confusione di fondo che pare ormai condizione esistenziale per chi ama questa squadra: la perenne inquietudine, quella specie di uovo sodo che non va né in su né in giù, tipica di chi spera in un futuro migliore, ma sa benissimo che potrebbe tranquillamente arrivarne uno molto peggiore.
La prima stecca di James Harden in maglia Sixers è di quelle che restano impresse. Una serata in cui il Barba, celebrato con un cartellone a bordo autostrada poche ore dopo la conclusione dello scambio, ha finito col seminare il tarlo del dubbio nella mente dei propri tifosi. Per il futuro prossimo, e pure per quello più remoto. Dopo una serie di partite accomodanti, con evidente desiderio di calarsi nel contesto con la massima armonia, Harden ha sonoramente tradito alla prima occasione in cui gli si chiedeva di fare il passo successivo. Perdendo pesantemente lo scontro diretto con Kyrie Irving, e dando prova di preoccupante impotenza sul lato offensivo. Cosa che più preoccupa più di tutte è che non l’ha fatto per pigrizia o mancanza di motivazioni, come successo in passato, ma per un limite strutturale sempre più definito del suo gioco: la difficoltà a battere l’uomo dal palleggio, e dunque a sbilanciare la difesa e produrre vantaggio per l’attacco. Con Embiid costantemente raddoppiato, Harden ha infatti provato ad attaccare il canestro, senza però mai riuscire a preoccupare la difesa né a guadagnarsi lo spazio per i suoi celebri tiri da tre dopo un passo di arretramento. Ed è stata proprio la sua aggressività a rendere l’impotenza ancora più evidente, mentre i suoi tentativi di penetrazione si infrangevano contro Irving e gli aiuti. E i suoi celebri palleggi sul posto, in altri tempi arma letale, sono diventati una zavorra per tutta la manovra offensiva — nel contesto comunque di una serata pessima per tutti i compagni.
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E così è emersa all’improvviso la realtà che tutti avevano temuto, ma che nessuno aveva ancora toccato con mano. Il giocatore appena arrivato a Philadelphia non potrà essere il mostro offensivo visto a Houston fino a due anni fa. O almeno, non sarà quel giocatore capace di produrre attacco da solo, a giochi rotti, a prescindere da quanto gli succede attorno. Complice anche il giro di vite sull’interpretazione arbitrale di certi contatti, che, come si è già visto, non gli permetterà di andare in lunetta così frequentemente (pur risollevandosi rispetto al terribile inizio di stagione). Ma nulla di questo è una novità; più difficile è invece capire chi sarà veramente Harden, e cosa ci si potrà realisticamente aspettare da lui alla luce di tutto questo.
La serataccia di giovedì era infatti stata preceduta da una serie di partite incoraggianti, in cui l’ex Arizona State aveva contribuito in maniera sostanziale: segnando quasi 27 punti a partita con il 50% da tre nelle prime quattro uscite — contro i Knicks (due volte), Timberwolves e Cavaliers — e poi collaborando armonicamente con Embiid nella bella vittoria contro i Bulls, in quella che era stata la migliore prestazione dei Sixers dopo lo scambio di febbraio — e forse una delle migliori dell’anno. Il loro differenziale insieme nei primi 375 possessi è stato di +15.5, un dato di assoluta élite. Poi però è arrivata Brooklyn: «Ci hanno preso a calci in culo. Può essere una cosa buona. Finora tutto era andato a gonfie vele. Sconfitte come queste sono occasioni per migliorare» è stato il suo commento alla fine della partita.
MVP
Pur bruciante, la sconfitta con i Nets non deve però trasformarsi in psicodramma. Perché una serata di regular season, per quanto attesa, ha sempre un valore relativo. E perché, con tutte le incognite legate al nuovo assetto, i Sixers possono comunque contare su Joel Embiid. Ovvero l’attuale favorito alla corsa di MVP. E, a prescindere dal premio individuale, uno dei giocatori più forti del mondo. A partire da gennaio, il camerunese è riuscito a imprimere al suo gioco un ulteriore e probabilmente definitivo salto di qualità, giocando una stagione complessivamente stellare. Con l’assenza di Simmons, è stato infatti coinvolto in maniera ancora più radicale nella manovra offensiva, passando da prima opzione offensiva a un ruolo più in linea con quello di point center esemplificato da Nikola Jokic ai Denver Nuggets: ovvero, il perno da cui passa tutto l’attacco, e da cui dipendono il tempismo e la qualità dei tiri del il resto del quintetto.
Oltre a garantirgli ulteriori possibilità di finalizzazione —nel 2022 ha segnato almeno 40 punti in 7 partite, e almeno 35 in 10 — il nuovo assetto ha permesso a Embiid di sviluppare le sue doti di passatore, fino a quel momento il punto debole — o perlomeno l’aspetto meno devastante — del suo gioco. Portandolo a registrare la migliore media assist in carriera (4.5), e, soprattutto, un rapporto assist/palle perse vicino all’1.50 —cifra astronomicamente superiore alla sua media nelle stagioni precedenti, e ora almeno comparabile al 2.16 di Jokic, re assoluto della categoria tra i lunghi. Considerando i numeri eccelsi su tutti gli altri fronti — al momento, 29.7 punti a partita, 11 rimbalzi, quasi 12 liberi tentati —ne esce il ritratto di un giocatore totale, devastante. Sostanzialmente inarrestabile per le difese, soprattutto in serate in cui anche i compagni fanno la propria parte.
Al di là delle cifre, è però l’aspetto mentale del gioco quello in cui il camerunense ha fatto i progressi più importanti. Riuscendo a conciliare la sua indole istrionica, amante della trollata, con un atteggiamento sul parquet stabilmente sotto controllo. Anche quando le difese hanno provato a fermarlo con nostalgici metodi da anni ’90, ora disprezzati da molti, ma che al bisogno tornano sempre in voga. Lo stress generale portato dalla vicenda Simmons, per lunghi mesi un disturbo fastidioso e costante per i Sixers, ha probabilmente accelerato la sua maturazione, trasformando Embiid nel leader di cui la squadra aveva assolutamente bisogno. Da questa prospettiva, il fatto che Philadelphia sia ancora in corsa per il primo posto a Est è un testamento non solo di quanto Embiid abbia prodotto sul campo, ma anche di quanto sia stata efficace la sua leadership. Anche nelle serate peggiori, i Sixers hanno infatti sempre dato l’impressione di essere un gruppo compatto, armonico, entusiasta. E sempre pronto a cogliere la vena di spensieratezza che giocare a pallacanestro può regalare quando si è ancora ventenni. Anche a questi livelli.
L’innesto di Harden, sotto questo aspetto, rappresenta dunque un’incognita che va ben al di là dei temi tecnici, visto che inserire una personalità del genere in un gruppo con equilibri ben definiti non sarà un compito facile. Per ora, come prevedibile, tutto sembra procedere nel modo migliore. Ad esempio, Embiid è infatti parso entusiasta e ben disposto anche in situazioni in cui le cose non hanno funzionato. Come in seguito ad alcuni malintesi tecnici nelle prime uscite, commentati con una risata tra i due. Poi sono arrivati i Nets, e i sorrisi sono spariti. Mettendo per la prima volta a nudo la fragilità del nuovo assetto.
Equilibri
Il futuro dei Sixers, però, passa da molte più variabili della coesistenza tra Embiid e Harden. Come il Barba stesso ha ammesso nel dopopartita di giovedì scorso. «È solo la sesta partita assieme che facciamo, è evidente che dobbiamo ancora trovare gli equilibri migliori». Capire come sfruttare Harden vuol dire anche capire quale contributo ci si può aspettare dal resto del quintetto. A partire da Tobias Harris, per ora una delle vittime collaterali più evidenti del nuovo assetto. Perennemente nel purgatorio tra giocatore buono e determinante, spesso nel mirino della critica per il contratto faraonico, l’ex Tennessee aveva comunque garantito un rendimento costante, giocando a livelli ottimi tra gennaio e febbraio. E invece ha rallentato vistosamente dopo l’All-Star Game, mostrando segni di spaesamento in più di un’occasione. Come si è visto nel primo tempo al Madison Square Garden, nella seconda partita dopo la pausa, e si è percepito a sprazzi in quasi tutte le altre uscite. Abituato a sfruttare gli spazi concessi dalla difesa sul lato debole, si è trovato a corto di rifornimenti, perdendo molto della sua efficacia; e senza il contributo offensivo, sono saltate ancora più all’evidenza le sue difficoltà difensive, soprattutto nella sfida impari contro Kevin Durant. All’inizio del terzo quarto coach Rivers ha provato addirittura a mettergli la palla in mano, ma l’esperimento - come qualsiasi altra iniziativa della serata - è naufragato presto. Sollevando un interrogativo importante attorno a quale ruolo dovrà ritagliarsi l’ex Tennessee nei nuovi equilibri per sfuggire all’oblio e risultare comunque efficace.
L’altro nodo da sciogliere è la gestione del perimetro. Perso Curry — il tiratore più puro del roster, oltre che il miglior giocatore senza palla — rimane da capire cosa aspettarsi dagli altri due esterni. Tyrese Maxey, tenuto con determinazione alla larga da tutte le trattative di scambio, è in questo momento la terza opzione offensiva. Giocatore in crescendo, estremamente futuribile, protagonista di una stagione sinora molto positiva; ma è pure un altro esterno che rende al meglio con la palla in mano, occupando uno spazio nell’ecosistema simile a quello di Harden. Il che pone un evidente problema di gestione degli spazi, soprattutto in serate, come successo contro i Nets, in cui nessuno dei due riesce a bucare la difesa in penetrazione. Il punto di domanda più grande riguarda però la scelta del terzo esterno, che al momento si presenta come una decisione tra due opzioni radicalmente opposte: Matisse Thybulle, spendibile come difensore sul miglior esterno avversari ma con efficacia offensiva estremamente limitata, che permetterà alle difese di ignorarlo e concentrarsi sugli altri; oppure uno tra Danny Green e Furkan Korkmaz, molto più pericolosi al tiro, ma pure vulnerabili in difesa, ed entrambi ai minimi storici di fiducia da parte di Rivers e dello staff tecnico.
Con una quindicina di partite di regular season rimaste, c’è tempo per lavorare su tutti i fronti. Soprattutto perché, prima di un finale morbido, le prossime due settimane portano in dote squadre in diretta competizione per le gerarchie a Est, o comunque di grande valore: Cleveland, Toronto, Miami, Milwaukee, oltre a Phoenix e Denver. Avversari che metteranno i nuovi Sixers alla prova, senza però portare l’isteria collettiva del ritorno di Simmons e dei suoi disturbi collaterali. Il Processo, che sembrava morto, si è guadagnato un’altra possibilità. Ma sarà probabilmente l’ultima, e la strada per sfruttarla al meglio è ancora tutta da tracciare.