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L’importanza di saper aspettare
07 ago 2018
Abbiamo parlato con Tarik Black di cosa significa essere un free agent nel 2018 e cosa serve per avere successo a lungo termine nella NBA.
(articolo)
23 min
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Se non sapete chi è Tarik Black, siete perfettamente scusati.

Per quanto abbia giocato in due squadre di rilievo in NBA come gli Houston Rockets e i Los Angeles Lakers nel corso della sua ancor breve carriera, è facile che il suo nome sia passato pressoché senza nota sulle vostre applicazioni sullo smartphone, né probabilmente ne avete mai discusso di lui con il vostro amico appassionato di NBA. Black è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto al concetto di stella: non c’è nulla del suo gioco che sia particolarmente entusiasmante, visto che non è in grado di creare un tiro per se stesso, né di distruggere un attacco avversario con la propria presenza difensiva. Se poi siete appassionati di fantasy games che non tengono conto delle statistiche per minuto, potete tranquillamente fare a meno di segnarvi il suo nome, visto che non ha mai registrato più di 6 punti e 6 rimbalzi di media nelle sue quattro stagioni di NBA. Insomma, nessuno sognerebbe mai di comprarsi la maglietta di Tarik Black, anche perché potrebbe benissimo non averne una nella prossima stagione.

Eppure la National Basketball Player Association, vale a dire l’associazione dei giocatori della NBA, è formata in larga parte da giocatori come lui. Benché a capo dell’associazione ci siano superstar come Chris Paul (in qualità di presidente) e LeBron James (uno dei vice-presidenti) — due che a inizio mese hanno firmato quadriennali da più di 300 milioni di dollari complessivi pur essendo ben oltre i 33 anni d’età —, in gran parte gli interessi della NBPA si rivolgono a giocatori come Black. Tra i 450 fortunati che ogni anno prendono parte alla NBA ci sono molti giocatori come lui piuttosto che delle stelle che vendono i biglietti e fanno stare in piedi la notte sul League Pass: gente che deve combattere ogni singolo anno per il proprio futuro, che è arrivata in NBA nei modi più disparati, che deve massimizzare ogni singolo aspetto della propria carriera per rimanere in gioco il più a lungo possibile, prima che la musica finisca e le sedie vengano tutte occupate da gente più giovane, più talentuosa o più sana di loro.

Questo è esattamente il motivo per cui Tarik Black a fine giugno si trovava a Milano, più precisamente all’International Business Academy, un corso di quattro giorni organizzato dalla NBPA alla SDA Bocconi e che permetteva di incontrare diversi professionisti del mondo della moda, della tecnologia, del marketing in grado di dar loro consigli per il loro futuro post-carriera. Un modo, anche questo, per imparare a gestire il proprio denaro e il proprio brand anche dopo che i loro giorni sul parquet saranno finiti, facendo gli investimenti giusti per massimizzare i soldi guadagnati mettendo un pallone dentro a un canestro o impedendo ad altri di farlo. All’interno di queste lezioni la mano di Tarik era sempre la prima ad alzarsi per porre domande, esplorare occasioni, segnarsi appunti e ponderare possibilità future. Armato di una mente brillante, di una curiosità rara e di una parlantina irrefrenabile — sua moglie sostiene che anche quando deve ordinare da mangiare ci mette sempre un quarto d’ora —, Tarik Black è ben lontano da qualsiasi stereotipo possa esistere sugli atleti professionisti, specialmente gli afro-americani di oltre due metri per 130 chili di muscoli e tatuaggi.

In un’intervista di qualche tempo fa per The Undefeated aveva detto di sé: «Se entri in un ascensore con me non puoi fare a meno di pensare ‘È un giocatore di pallacanestro’. È automatico: sono alto, ho il fisico, ho i tatuaggi. Ma quando cominci a parlare con me ti accorgi che sono una persona affabile, che mi piace parlare con la gente, che amo socializzare e comunicare, conoscere le persone. Perciò quando apro la bocca si accorgono che non sono solo un atleta con cui fare una foto o un autografo, ma un giovane uomo con una bella testa e un grande cuore a cui è capitata la fortuna di giocare a pallacanestro per vivere. In quel momento c’è un cambiamento e non vengo più incastrato nello stigma dell’atleta: una volta che esci dall’ascensore, capisci che sono una persona diversa da quella che appaio».

Per questo è stato particolarmente interessante sedersi con lui dopo le lezioni, fermandoci a parlare per mezz’ora dello sviluppo della sua carriera dal college alla NBA, delle sue possibilità future e di quanto ha imparato in quattro anni passati al fianco di alcuni dei più grandi del gioco, a partire da Kobe Bryant che gli ha lasciato ben più di quanto voi possiate mai immaginare.

Un veterano fin dall’università

La carriera di Tarik Black inizia a Memphis, dove prima frequenta il liceo di Ridgeway e successivamente si iscrive all’università cittadina rifiutando offerte da college ben più importanti, con quella che lui stesso definisce come “una scelta di cuore”. La sua carriera universitaria comincia bene e alla fine del secondo anno riceve qualche promessa per poter già fare il salto verso la NBA nel caso di un'altra stagione convincente, ma nel suo terzo anno le cose non vanno come sperato per dissidi con il suo allenatore (gioca solamente cinque partite da titolare e il suo minutaggio scende di dieci minuti a partita) e il suo nome sostanzialmente sparisce dai radar. Svanito il sogno di entrare in NBA dalla porta principale del Draft, Black deve inventarsi un altro modo per rimettersi sulla mappa: per questo si laurea in soli tre anni in leadership organizzativa e, avendo completato il suo ciclo di studi, può passare immediatamente il suo quarto anno di eleggibilità in NCAA a Kansas, agli ordini di coach Bill Self e in una squadra piena di talento. «Per quanto mi riguarda è stato un momento di riconciliazione» spiega Tarik su quel suo singolo anno a Lawrence, dove si è iscritto a un master in storia afro-americana dopo aver commesso un errore nell’iscrizione al master in economia. «Non ero mai stato conosciuto come il giocatore numero 1 della nazione, ma nel corso dei miei primi due anni a Memphis ero riuscito a farmi notare ed era arrivata qualche promessa per andare in NBA se avessi fatto bene anche al terzo anno. Poi quella stagione per me non è andata bene e ho perso l’opportunità di fare il salto, ma andare a Kansas e aiutare quei giovani che avevano così tante opportunità è stata una ventata d’aria fresca per me».

Foto di Andy Lyons/Getty Images

Nello spogliatoio ci sono giocatori NBA come Frank Mason, oggi a Sacramento, e Wayne Selden, che dopo qualche peripezia è riuscito a ritagliarsi il suo posto ai Memphis Grizzlies. Soprattuto, però, ci sono due freshmen di assoluto livello: Andrew Wiggins e Joel Embiid. «Il mio ruolo era condividere la mia esperienza, spiegando loro cosa era andato male a me mentre ero nella loro stessa posizione. Anche io avevo la possibilità di giocare bene, essere scelto al primo giro e diventare un pezzo importante di una franchigia NBA, ma mi è andata male, perciò ho provato a suggerire loro una serie di cose da tenere d’occhio. Ancora oggi ho il rispetto da parte loro e ci sentiamo molto spesso: sono orgoglioso di essere diventato una sorta di ‘fratello maggiore’ per tutti, grazie al fatto di essere una persona tutta d’un pezzo. Sono sincero con loro e non provo ad approfittare della mia amicizia per guadagno personale. Voglio loro bene, sono miei fratelli oltre che ex compagni di squadra: per me è un orgoglio sapere che mi rispettano».

Sostanzialmente Black diventa un veterano prima ancora di scendere in campo in NBA, mettendo la sua personalità e la sua affabilità al servizio di uno spogliatoio giovanissimo per quanto pieno di attese. La sua produzione in campo, così come i risultati di squadra, è tutt’altro che degna di nota durante la regular season ma eccellente durante il torneo NCAA durante il quale, complice l’assenza di Embiid per infortunio, segna 30 punti complessivi in due partite. Ciò nonostante il suo nome non finisce neanche tra i primi 60 del Draft 2014, mentre quelli dei suoi compagni più famosi finiscono al primo (Wiggins) e al terzo (Embiid) assoluto. A lui non rimane altro che affidarsi al percorso secondario: firma per gli Houston Rockets dopo non essere stato scelto al Draft e con loro gioca bene nella Summer League di Las Vegas, meritandosi a fine agosto un accordo non garantito per la stagione successiva. Sia a Vegas che al training camp si comporta molto bene, ricoprendo il ruolo del “rim-runner” all’interno degli schemi NBA, portando buoni blocchi alle guardie e tagliando forte verso il ferro per chiudere le azioni, oltre a proteggere il ferro e andare a rimbalzo come si richiede a un lungo del suo tipo. A quel punto, però, il roster era pieno e per fargli spazio i Rockets hanno dovuto fare una scelta che nel grande schema delle cose conta poco, ma per Black ha avuto un significato straordinario: «Per farmi spazio a roster dopo il training camp hanno dovuto tagliare due contratti garantiti per più anni [quelli di Ish Smith e Jeff Adrien, ndr], mentre io avevo solo un contratto parzialmente garantito: già solo questo per un rookie che non ha ancora messo piede in NBA è un grande onore».

Ad inizio stagione il suo nome inizia a circolare come uno di quelli più intriganti nel sottobosco dei rookie NBA, ma quando ci si avvicina Natale e si presenta l'occasione di prendere Josh Smith (tagliato a sorpresa dai Detroit Pistons), a farne le spese è proprio Black. La reazione al taglio però è quella di un giocatore estremamente maturo: «Capivo perfettamente che avere l’opportunità di aggiungere uno come Josh Smith, un veterano che aveva fatto l’All-Star Game in passato e che era stato compagno di squadra di una delle stelle in squadra [Dwight Howard ai tempi della AAU, ndr], era un’occasione che non poteva essere passata. I Rockets lo volevano fortemente e non c’era nessun altro che avesse un contratto non garantito in squadra: loro per me ci avevano già rimesso dei soldi, più di due milioni di dollari, e ne avrebbero persi ancora se avessero tagliato qualcun altro. Se pensi che la possibilità di tenermi valga 3/4 milioni di dollari, allora lo fai. Ma una volta che fai i calcoli e consideri che ero solamente un rookie, allora capisci la loro decisione. Stiamo pur sempre parlando di un business: non ho avuto alcun problema ad accettare la loro scelta».

Foto di Juan Ocampo/Getty Images

Movin’ to L.A.

Risolto il contratto con Houston, a Black bastano tre giorni per accordarsi con i Los Angeles Lakers, confermando anche a L.A. il suo apporto di fisicità e atletismo con grande produzione in minuti limitati per una squadra perdente. Dopo aver chiuso bene la sua stagione da rookie, però, Tarik si ritrova velocemente fuori dalle rotazioni e deve affrontare una “retrocessione” inattesa: «Quella seconda stagione è stata la più dura, perché ero ancora sotto contratto con i Lakers ma mi hanno mandato in G-League per tenere alta la mia competitività e mantenermi in forma nel caso in cui fossi servito. La transizione è stata difficile: io non avevo firmato un contratto da G-League per salire in NBA, perché in quel caso avrei saputo esattamente per che cosa stavo firmando, ma avere un contratto NBA ed essere spedito giù è un’altra cosa. Io ero stato un titolare per una franchigia NBA l’anno prima, un rookie finito tra i primi dodici nel premio di fine anno: insomma, mi sentivo un giocatore NBA fatto e finito. La G-League è un grande campionato dove c’è grande talento e ottimi giocatori, ma non è quello che mi aspettavo per quella stagione».

Da persona intelligente quale certamente è, Black ha provato a trovare del buono anche in quel momento buio: «Quell’esperienza mi ha forgiato e mi ha fatto rimanere umile, facendomi capire che bisogna essere grati per avere un posto in NBA di qualsiasi tipo. Non bisogna ovviamente accontentarsi, ma è giusto apprezzare per quello che si ha: in questo modo si gestisce meglio ciò che si sta vivendo e non si rimane schiacciati dalle aspettative, che molto spesso vengono prima dall’interno che dall’esterno. Solo essendo in pace con te stesso e lavorando duro puoi davvero riuscire a divertirti e a goderti il processo dell’essere un giocatore NBA: se passi tutto il tempo a lamentarti di questo e di quello, o a paragonarti con altri giocatori in situazioni totalmente differenti, o a tenere il muso con qualcuno, tutto questo finisce per pesare ulteriormente sulle tue spalle. Ma se riesci a liberartene, puoi lavorare meglio e massimizzare l’opportunità di crescita e miglioramento che ti vengono offerte. Per l’età e per la mentalità che avevo al tempo, però, è stata davvero dura».

Combattendo per un contratto

Forte di quanto fatto nel suo primo anno e nei pochi minuti in cui è stato impiegato in NBA, Black ha la fortuna di essere free agent nell’estate del 2016, quella dell’esplosione del cap per l’entrata in vigore del nuovo contratto televisivo. Anche lui ne beneficia parecchio: i Lakers gli allungano un accordo di due anni a 13 milioni di dollari complessivi e, anche se il secondo anno non è garantito, lui stesso la definisce come «un’offerta che non si può battere». I Lakers poi lo tagliano alla fine della sua terza stagione in NBA e Black si ritrova free agent per la terza volta in altrettanti anni, ricevendo però subito la chiamata dagli Houston Rockets: «La trattativa è stata molto breve: mi sono bastate tre telefonate per trovare le conferme che cercavo con i Rockets, anche perché ho avuto la fortuna che tutte e tre le figure più importanti dello spogliatoio — coach D’Antoni, James Harden e Chris Paul — mi hanno chiamato nello stesso giorno per fare in modo che mi unissi a loro. È bello che io abbia del valore per gente di questo calibro e che vogliano avermi con loro in squadra».

Dopo una stagione passata più che altro in panchina nella squadra con il miglior record della lega, ora Black è di nuovo free agent. Quando gli ho parlato mancava ancora qualche giorno alla mezzanotte del primo luglio e io stupidamente pensavo che per un giocatore NBA quella fosse una notte febbrile, ma è lì che ho capito che il pregio migliore di Black — e il motivo per cui, si spera, avrà una lunga carriera in NBA — non sta nel suo fisico statuario, ma nella sua testa così brillante. «Io e il mio agente abbiamo affrontato questo percorso per quattro volte e ne siamo sempre usciti alla grande, perciò sappiamo già cosa ci aspetta. Spero che quest’anno vada tutto per il meglio: non ne ho la certezza, ma nel recente passato sono riuscito a cavarmela sempre, perciò non mi faccio prendere dal panico. So che c’è dell’interesse nei miei confronti, perciò la decisione è solo capire qual è l’opportunità migliore per me. Non mi sono mai davvero trasferito da parte a parte come altri, però allo stesso tempo non ho mai potuto mettere radici in nessun posto in cui sono stato, e questo sicuramente è un aspetto duro della mia professione. Avendo appena cominciato la mia famiglia, sposando mia moglie lo scorso anno e avendo un bambino, queste sono le domande che mi trovo ad affrontare sempre più spesso. Oltre alla comodità della famiglia, però, la cosa più importante per un free agent è avere l’opportunità di giocare nel ruolo in cui pensa di poter crescere».

Essere free agent significa soprattuto avere il controllo del proprio destino: ci sono giocatori che non riescono a gestire bene questa situazione, prendendo delle decisioni errate per lo sviluppo della propria carriera, ad esempio sopravvalutando il proprio valore di mercato oppure passando tutto il cosiddetto “contract year” a cercare di ammassare statistiche a discapito delle vittorie di squadra, pensando che questo li aiuterà in fase di negoziazione del contratto. Per un giocatore che non possiede un talento strabordante in grado di ammaliare qualsiasi dirigenza come Black, però, le carte da doversi giocare sono altre: la professionalità, la buona presenza in spogliatoio, l’impegno assoluto in ogni singola occasione che sia in campo o in allenamento. Per il modo in cui si è sviluppata la sua carriera, poi, il concetto di “contract year” è per lui piuttosto estraneo: «Mi ritengo ancora giovane, ma avvicinandomi sempre di più al diventare un veterano capisco meglio che cosa serve per giocare in questa lega. La cosa più importante che ho imparato è alleviare la pressione: io non posso controllare quanti minuti gioco, a che punto della partita vengo messo in campo, un brutto passaggio che mi viene dato da un compagno, un pallone sul ferro che va lontano da me impedendomi di catturare il rimbalzo. E anche ciò che è in mio controllo può andare male: se non prendo un rimbalzo o se faccio una cazzata in campo, non posso farmi prendere dal panico».

«Diventando più maturo ho iniziato a comprendere meglio il gioco, e a quel punto inizi a vedere che i giocatori si calmano e cominciano ad avere maggiore fiducia nei propri mezzi, non solamente in campo ma anche fuori come persone — mettendo su famiglia o avendo un figlio, come è successo a me nell’ultimo anno. Oramai mi sento un veterano delle trattative, perciò ho imparato a non preoccuparmi troppo e di lasciare che le cose seguano il loro corso: vado in campo e gioco, poi tutte le tessere del puzzle andranno al loro posto per conto loro. So che se mi prendo cura del mio corpo, se lavoro sul mio gioco e se mi comporto in maniera professionale, tutto il resto è fuori dal mio controllo: capire questo mi ha dato grande calma, grande saggezza e grande controllo delle mie emozioni, permettendomi di godermi di più il mio viaggio».

Cosa serve per avere successo in NBA

A questo punto diventa interessante capire quali sono le skills che servono a un giocatore nel suo ruolo per avere a lungo una carriera nella lega. Black non ci mette molto a trovarne tre perfettamente centrate su quello che viene richiesto a un giocatore come lui: «La NBA sta cambiando, perciò non basta più una singola skill per avere successo. Secondo me in questo momento sono tre le caratteristiche chiave per rimanere in campo nei contesti più competitivi: la prima è la capacità di andare a rimbalzo, perché qualsiasi squadra ha bisogno di qualcuno che dia presenza sotto i tabelloni e chiuda le azioni. La seconda è la difesa, che per quelli del mio ruolo significa non solo saper marcare il proprio diretto avversario, ma anche — se non soprattutto — essere in grado di tenere le point guard dal palleggio muovendo i piedi, perché un difensore in grado di marcare tutti dall’1 al 5 può diventare il pezzo più importante in assoluto per una difesa — basta vedere quello che fa Draymond Green per la versatilità difensiva dei Golden State Warriors. La terza caratteristica è il tiro, perché un lungo che può aprire il campo è un enorme asset per la NBA moderna con la sua capacità di non compromettere le spaziature offensive».

Proprio quest’ultimo punto potrebbe fare la differenza per l’intero arco della sua carriera: negli ultimi anni si sono visti sempre più centri in grado di tirare dall’arco, e non mi riferisco solamente a Unicorni come Joel Embiid, Karl-Anthony Towns o Kristaps Porzingis, ma anche a “centroni classici” come Brook Lopez, Marc Gasol o insospettabili come DeWayne Dedmon che hanno aggiunto il tiro da tre al proprio repertorio. E allora perché non anche Black? «Io ho sempre saputo tirare, ma non ne ho mai davvero avuto l’opportunità. Sin dal liceo il mio coach mi chiedeva solo di giocare in area e per questo non ho mai davvero lavorato sul mio tiro in partita, e anche al college ho avuto opportunità limitate. In NBA, poi, esistono le etichette che ti seguono ovunque tu vada, perciò non ho avuto grandi chance per provarlo in campo. Ma nell’ultima stagione a Houston le cose sono cambiate: ho tentato 11 triple in regular season [segnandone solo una, ndr] per dimostrare non solo agli altri ma anche a me stesso di avere la fiducia per provarle in campo. Perché un conto è saper tirare, un altro conto è avere la fiducia di farlo sul parquet. Ed è stata una fortuna incontrare un coach come Mike D’Antoni con cui ho parlato moltissimo quest’anno per capire come espandere il mio gioco e assicurarmi una carriera più lunga: la cosa che mi ha detto vedendomi allenare su quello specifico particolare tecnico è che so tirare meglio di tanta altra gente. Un conto è se non sapessi tirare, allora anche lui mi direbbe di non farlo e di concentrarmi solo sui rimbalzi; ma ha visto che lo so fare e per questo mi ha incoraggiato a continuare su questa squadra per assicurarmi un futuro migliore e duraturo».

Quella notte a Los Angeles

Anche pur senza mettere piede in campo, il nome di Tarik Black è balzato agli onori della cronaca per un episodio controverso nel corso della stagione: quello che è passato alla storia come “la serata del tunnel segreto”. La storia era stata trattata anche qui su l’Ultimo Uomo: dopo un teso incontro di regular season tra Clippers e Rockets, alcuni membri di Houston avevano fatto irruzione nello spogliatoio dei primi passando per un tunnel laterale dello Staples Center con l’obiettivo di regolare i conti con Austin Rivers e Blake Griffin, rei di aver superato il segno con le azioni e con le parole sul parquet. A rendere particolarmente divertente quella storia, però, era il particolare che — secondo quanto riportato immediatamente da diversi media autorevoli dopo l’episodio, a partire da Adrian Wojnarowski di ESPN — un membro dei Rockets era stato avvistato alla porta dello spogliatoio dei Clippers, mentre il resto dei compagni sgattaiolava dall’altra parte.

Quel giocatore, contrariamente a quanto scritto inizialmente, non era “The Decoy” Clint Capela ma bensì proprio Black, che però di quella serata ha un ricordo tutt’altro che divertito. Anzi, sembra che ancora gli dia fastidio come è stata raccontata, e per questo ha colto l’occasione per raccontare la sua versione della storia, facendo un lungo respiro prima di cominciare a parlare. «Prima della partita avevamo deciso che, se non avessi raggiunto un certo numero di minuti, dopo la gara saremmo andati in sala pesi per fare un po’ di lavoro individuale, perché erano diverse partite che non giocavo e dovevo tenermi in forma. Di solito lo faccio sempre dopo le partite interne, ma visto che eravamo in trasferta per diversi giorni consecutivi a L.A. ho approfittato per farlo allo Staples Center. Dopo la gara, anche se avevamo perso e c’era stata qualche schermaglia in campo, non stava succedendo niente di strano e perciò sono uscito per andare in palestra. Vedevo però che il trainer della squadra che doveva seguirmi era stranamente lento perché stava parlando con qualcuno, e quando poi ci siamo incamminati verso la sala pesi ho sentito un gran casino arrivare dallo spogliatoio dei Clippers».

A questo punto il racconto di Tarik si interrompe per lanciarsi in una lunga riflessione sugli effetti indesiderati che i media possono provocare sulla carriera di un giocatore, dando una prospettiva particolarmente interessante su come certe cose vengono recepite dai protagonisti in campo (o, in questo caso, fuori): «Quello che la gente non capisce è che quando i media diffondono una notizia falsa o mal riportata senza considerare i fatti, possono creare dei danni enormi alla reputazione di una persona. Quando per la prima volta è uscito l’articolo e c’era scritto che era stato Clint Capela a presentarsi alla porta, ne ho parlato direttamente con lui in aereo e mi sono scusato perché in verità ero stato io, e mi sentivo uno schifo perché gli voglio bene come a un fratello e quell’episodio avrebbe potuto creargli dei problemi nel suo contract year. Tutto questo per dire che ci vorrebbe un certo tipo di regolamentazione prima che venga pubblicata una cosa del genere che può davvero danneggiare le persone appicicandogli addosso un’etichetta falsa, perché anche dopo che era stato chiarito che ero stato io e non Clint, si scriveva comunque che ero stato utilizzato come ‘cavallo di Troia’ o una cosa del genere — cosa che ovviamente è falsa. Ma un sacco di gente ha letto solo la prima versione del pezzo e poi non ha letto la rettifica su come sono andate realmente le cose, e ora potrebbero pensare che io o Clint siamo dei tipi di persone che non siamo assolutamente, o che gli Houston Rockets mandano dei ‘cavalli di Troia’ negli altri spogliatoi».

A questo punto mi viene automatico pensare che Black non abbia una grande opinione dei media (cosa peraltro condivisa da tanti suoi colleghi), ma la sua risposta è ancora una volta spiazzante per la sua intelligenza: «I media in verità possono essere un grande vantaggio per noi: mia madre ha lavorato come direttrice delle comunicazioni per più di dieci anni, perciò sin dall’inizio sono cresciuto in una casa in cui le PR sono state molto importanti. Sin da quando andavo al liceo e dovevo concedere delle interviste le chiedevo sempre dei consigli su come comportarmi e lei mi ha insegnato che i media possono essere un mezzo. La mia disposizione quindi non è contro i media, ma quando scrivono cose false e che possono danneggiare una persona: succede spesso che cercando di vendere una storia ci si inventino dei particolari falsi solo per arrivare per primi sulla notizia. Ma quando anche fonti autorevoli condividono notizie false che poi vengono riprese dagli altri media di tutto il mondo, il risultato può essere catastrofico e far perdere la credibilità e l’integrità di un giornalista. Il fatto che non ci siano conseguenze per quelli che mettono in giro certe notizie è pericoloso».

Quindi, ha continuato con la sua versione dei fatti: «Che poi, a dire la verità io non ho neanche mai bussato alla porta perché era già aperta, ci sono solo passato davanti: ho sentito un gran casino e quindi mi sono girato, come farebbe qualsiasi persona. Non sapevo se erano dei nostri o dei loro perciò ho guardato per capire cosa stesse succedendo, ma prima che potessi entrare degli impiegati dei Clippers mi hanno sbattuto la porta in faccia di botto. A quel punto abbiamo capito cosa stesse succedendo e ci siamo catapultati nel nostro spogliatoio, cosa che peraltro è testimoniato dalle telecamere a circuito chiuso che hanno ripreso la scena — che poi sono il motivo per cui non sono stato multato dalla NBA dopo le investigazioni».

Un consulente finanziario di nome Kobe Bryant

La nostra chiacchierata che doveva durare solo 15 minuti si è già protratta oltre i 30, ma mi resta il tempo di lasciargli campo aperto per un’ultima domanda: la sua storia su Kobe Bryant preferita, avendo condiviso con lui lo spogliatoio nella sua ultima stagione in NBA. «Il mio ricordo preferito? Ce ne sarebbero tanti già solo per la pallacanestro: la sua ultima partita è stata incredibile ed è stato un onore anche solo esserne parte, ma il mio ricordo di Kobe è un altro. È stato un viaggio in aereo verso Orlando: all’inizio dell’anno gli avevo scritto ‘Ogni volta che andiamo da qualche parte, dobbiamo sederci vicini e mi devi insegnare qualcosa. Non per forza di pallacanestro, ma anche per tutte le tue attività di business che ammiro così tanto’. Al che lui mi ha risposto: ‘Ok, vieni a cercarmi quando andiamo in trasferta e ne parliamo’. In quel viaggio verso Orlando l’argomento era la gestione finanziaria dei soldi e mi ha chiesto come fossi sistemato, quali fossero i miei fondi, i miei investimenti e i miei consiglieri finanziari. Quando glielo ho raccontato mi ha detto solo: ‘No, non hai capito niente, non ha alcun senso: bisogna rifare tutto da capo, ora ti spiego come si fa’. Da quel giorno in poi la mia intera struttura economica è basata su quel singolo viaggio con Kobe, che di fatto è il mio consulente finanziario anche senza volerlo».

L’effetto di quel viaggio con Kobe però non ha riguardato solo il suo conto in banca, ma l’intero approccio agli affari per il resto della carriera — regalandogli qualcosa che vale ben più di qualsiasi assist per fare un canestro: «Per tutto quel viaggio ha vivisezionato ogni parte della mia carriera ben al di là della pallacanestro: è grazie a lui se ho la mia fondazione, che è la mia più grande gioia perché nella vita voglio essere un filantropo e aiutare le persone. A un certo punto mi ha detto: ‘Tarik, tu cosa vuoi fare?’. Io, che ero ancora giovane, ho iniziato a rispondergli dicendogli mille cose diverse, ma lui mi ha fermato ridendo e mi ha detto: ‘Ti dò un esempio. Io sono uno storyteller: per questo ho cominciato a scrivere la mia storia, a fare il cortometraggio [con cui ha vinto l’Oscar, ndr]. Amo lo storytelling e voglio che sia la mia vita. Perciò ora ti chiedo: tu chi vuoi essere?’. In quel momento sono rimasto interdetto, e quando lo ha capito mi ha detto subito ‘Non c’è bisogno che tu mi risponda subito, voglio solo piantare questo seme nella tua testa’. Da una domanda così semplice è partito un lungo ragionamento dentro di me che continua ancora oggi: ogni singola cosa che ho fatto da quel momento in poi l’ho sempre fatta tenendo a mente le sue parole, anzi immaginandomi la sua faccia mentre me lo diceva. E provo a rispondere a quella domanda allo stesso livello in cui lui lo ha fatto con me, e questo mi aiuta a crescere ed evolvere ogni singolo giorno».

Quando sarà finita la sua carriera da giocatore di pallacanestro il suo obiettivo è quello di diventare sindaco della sua città, Memphis, per aiutare la sua gente e seguire le orme di altri giocatori NBA diventati politici come Kevin Johnson a Sacramento. A sentirlo parlare, potrebbe essere un credibile candidato già adesso, ma per il futuro c’è tempo: basta non farsi prendere dalla fretta.

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