Se un invasore alieno arrivasse nella mia stanza in questo momento e mi chiedesse per quale motivo seguo la pallacanestro, mi basterebbe fargli vedere una singola azione. Questa:
Non c’è bisogno di altro: seguiamo la pallacanestro, e in particolare quella della NBA, per vedere atleti straordinari fare cose straordinarie, che spesso sfuggono alla logica come il salto insensato di Ja Morant per andare a stoppare con due mani il sottomano di Avery Bradley. È una cosa auto-evidente: un essere umano di quelle dimensioni non dovrebbe essere in grado di fare quello che fa Morant, che invece nei suoi tre anni di carriera NBA — e nella sua fenomenale stagione al college a Murray State — ci ha abituati a voli del genere.
Eppure se c’è un aspetto che mi ha fatto innamorare di Morant sin dal suo arrivo in NBA non è solo l’atletismo insensato con cui rende una scarica elettrica ogni singola partita in cui scende in campo, quanto piuttosto quello che fa nel resto del tempo, nelle giocate che non finiscono negli highlights. Per dirla in un’altra maniera: Morant è speciale proprio nei momenti in cui non è speciale, nei momenti in cui rallenta invece di accelerare, nella preparazione del momento in cui può far detonare tutto il suo atletismo — come un tennista che si prepara meticolosamente un vincente di diritto dopo aver lavorato ai fianchi il suo avversario.
Tutto questo per me ha trova la sua massima espressione nel modo in cui Ja Morant usa la mano sinistra, quella teoricamente debole del suo repertorio. In un certo senso è ciò che esemplifica il suo essere un giocatore fortemente controintuitivo: pesa meno di 80 chili ma è il terzo miglior realizzatore in area della NBA, dietro a due come Giannis Antetokounmpo e Nikola Jokic che, oltre a pesare rispettivamente 110 e 130 chili, hanno anche sul camino di casa gli ultimi tre trofei di MVP della regular season. È ufficialmente alto 1.91 (per quanto la NBA tenda a essere generosa con i giocatori sotto l’1.90) ma cerca di schiacciare in testa a qualsiasi avversario si trovi davanti, indipendentemente dalle sue dimensioni e dal suo pedigree, anche a costo di tornare a terra con le ossa rotte (chiedere a Rudy Gobert per spiegazioni).
È uno dei migliori atleti verticali che si siano mai visti su un campo da basket, con una capacità di rimanere in aria e una coordinazione che non può essere pareggiata dai suoi avversari, ma è orizzontalmente (e con il suo mortifero floater che usa come con una frequenza da primi della classe) che fa la maggior parte dei suoi danni vincendo le partite per i suoi Memphis Grizzlies, reduci da dieci successi consecutivi come non ne avevano mai vinti nella loro storia, e non sembrano neanche arrivati al picco delle loro possibilità.
Una mano sinistra per dominarli tutti
Quando si valuta il profilo di un giovane, in particolare nelle valutazioni pre-Draft, molto spesso nella categoria dei difetti si possono trovare accenni sulla mancanza di fiducia nella sua mano debole, usandola poco sia in fase di palleggio e di conclusione al ferro. Ja Morant fa il contrario: è molto più a suo agio quando può palleggiare usando la mano sinistra, con la quale è capace sia di accelerare che di decelerare a piacimento, e le sue conclusioni al ferro sono più efficaci quando va a concludere con la mano debole rispetto a quando usa la destra.
Tre esempi dall’ultima partita contro Golden State: nel primo usa un blocco altissimo di Jaren Jackson Jr. per accelerare e proteggersi arrivando fino in fondo e subire fallo; nel secondo cambia direzione alla velocità della luce arrivando poi al ferro per finire; nel terzo spezza il pick and roll tornando sulla mano sinistra finendo in piena estensione. Il tutto usando sempre la mano teoricamente debole: i dati di Synergy ci dicono che è più efficace quando va a sinistra rispetto a quando va a destra, con un rapporto di 3:1 per numero di possessi.
Contro gli Warriors Morant ha segnato 15 punti prima che tutta la squadra avversaria ne realizzasse altrettanti, costringendo coach Steve Kerr a cambiare marcatura su di lui praticamente all’istante (togliendogli Juan Toscano-Anderson dalle piste per affidarlo a Andrew Wiggins) e poi affidandosi a Gary Payton II per cercare di escluderlo dall’azione, con il figlio d’arte che ha usato tutti i trucchetti del mestiere (a partire dal mettergli le mani addosso a ogni azione, anche lontano dalla palla) pur di darsi una chance. Dopo una parte centrale di gara in cui ha faticato, Morant ha chiuso la partita con le giocate decisive nel finale, specialmente per i compagni di squadra.
Con cinque paia di occhi della difesa di Golden State fissi su di lui, Morant sfrutta la posizione estremamente “aggiustata” di Steph Curry a centro area per alzare il lob a Ziaire Williams in taglio dal lato debole, passando dalla fase di palleggio a quella di passaggio senza aver bisogno di raccogliere il pallone — togliendo quindi qualsiasi possibilità di aiuto alla difesa.
Un’ascesa da All-Star
Morant ha finito la partita chiudendo con 29 punti, 5 rimbalzi e 8 assist, ciliegina sulla torta di un periodo a cavallo delle festività in cui ha chiuso a doppia mandata il suo posto tra i convocati (e forse anche tra i titolari) del prossimo All-Star Game. E dire che solamente lo scorso 20 dicembre, in uno degli episodi più strani dell’intera stagione NBA, qualche zelante tifoso presente a bordo campo per la sconfitta di Memphis in casa contro OKC aveva pensato bene di addossargli le colpe per il ko dei Grizzlies contro una squadra contro la quale avevano vinto di 73 punti solo qualche settimana prima, chiedendogli a gran voce di tornare a sedersi in panchina.
Morant era al rientro in campo dopo aver saltato 12 partite per un infortunio al ginocchio che rischiava di aver messo fine anzitempo alla sua stagione, un periodo nel quale i Grizzlies, invece di inabissarsi, hanno messo assieme un sorprendente record di 10 vittorie e 2 sole sconfitte, risalendo verticalmente la Western Conference fino a prendere possesso del quarto posto. Dopo quel ko interno coi Thunder — che lo portò a un paio di giorni lontano dai suoi amati social, e chiunque lo segua sa quanto sia presente su Twitter e su Instagram a qualsiasi ora del giorno e della notte — e una sconfitta tre giorni dopo sul campo di Golden State, Morant si è ricaricato i Grizzlies sulle spalle e insieme hanno preso il volo: le sue medie durante la striscia di 10 successi che ne è seguita (nella quale ha saltato solo la vittoria contro i Clippers per un problema fisico) sfiorano i 28 punti, 6 rimbalzi e 6 assist di media con il 52% dal campo e un incredibile 47% da tre punti, il vero aspetto del gioco in cui ha fatto il salto di qualità che lo ha reso incontenibile.
Se fino allo scorso anno Morant era un tiratore da 30% scarso, dato confermato anche ai playoff nei quali gli Utah Jazz lo hanno limitato con il passare della serie dopo i 47 punti di gara-2, essere diventato un tiratore da 38% su 4 tentativi a partita ha sbloccato il resto del suo repertorio, concedendogli di arrivare più facilmente in area e migliorando di quasi sei punti il suo bottino (da 19 a 25 di media a partita). In particolare, Morant è decisamente più a suo agio quando tira dal palleggio (38.6%) rispetto a quando il tiro gli viene costruito dai compagni (35.6%), un aspetto chiave per un giocatore chiamato a tenere tanto il pallone come fa lui, usando oltre il 31% dei possessi della sua squadra quando è in campo (decimo in NBA infilato in mezzo tra due candidati MVP come Kevin Durant e Steph Curry, ma comunque lontano da sgonfiatori di palloni come Luka Doncic, Joel Embiid o Trae Young).
Sia chiaro: le difese preferiscono comunque di gran lunga passare sotto al blocco sfidandolo al tiro piuttosto che ritrovarselo in area a ogni singola azione, visto anche il suo fenomenale uso del floater sopra le braccia del difensore (soluzione che rappresenta il 37% del suo attacco e che realizza con il 43%, dati Cleaning The Glass). Ma quando gli entra il tiro in sospensione, non c’è molto che si possa fare: Morant è nell’87° percentile in situazioni di isolamento includendo i passaggi, viaggiando a 1.10 punti per ogni isolamento giocato, e si mantiene ad alti livelli di efficienza anche quando si tratta di pick and roll (dati Synergy). E in queste situazioni è soprattutto la sua pazienza a sorprendere: per essere un giocatore pervaso da tutta quella elettricità, Morant è già in una fase molto avanzata del suo sviluppo come ball-handler, specialmente se consideriamo che deve ancora compiere 23 anni.
Il primo canestro contro Utah potrebbe essere la mia azione preferita di tutta la sua stagione, per la capacità da veterano consumato di tenersi alle spalle il difensore e per la pazienza con cui aspetta il momento giusto per detonare verso il canestro, chiudendo ovviamente di sinistro. Nel secondo canestro invece usa due palleggi rapidi per preparare il suo amato floater sopra Hassan Whiteside; infine contro Detroit attende con pazienza che il doppio blocco dei compagni gli apra la strada verso il ferro.
Dominante senza essere dominatore
Uno degli aspetti che più mi piacciono di Morant, però, è che pur avendo un ruolo così centrale per i destini della sua squadra non ha problemi a farsi da parte e a lasciare che siano altri a prendersi il palcoscenico se capisce che non è serata. Grazie anche al fenomenale lavoro di Taylor Jenkins (a pieno titolo un candidato al premio di Allenatore dell’Anno) e a quello della dirigenza nel creare un roster profondissimo, ogni singola sera i Grizzlies possono trovare un protagonista diverso, facendo fronte anche ad assenze pesanti come quella di Dillon Brooks (in campo solo per 21 partite su 43 quest’anno per vari infortuni, e altre ne stanno per arrivare) o dello stesso Morant, permettendo però ad altri protagonisti di emergere come Desmond Bane o a Jaren Jackson Jr. di ritrovare con calma la forma migliore dopo un anno e mezzo di inattività senza dover dipendere dal suo rendimento sera dopo sera per vincere le partite. In più la panchina è tra le migliori e più coese dell’intera lega, trovando anche contributi sorprendenti da giocatori teoricamente fuori dalla rotazione come il rookie Santi Aldama, Killian Tillie, John Konchar e Jarrett Culver.
Il meglio della striscia di 10 vittorie di Memphis: tutte con protagonisti diversi (a 2:44 vogliate gradire un assist di sinistro di Morant e subito dopo un sottomano fenomenale, giusto per rimanere in tema).
Alle spalle del 31.1% di Usage di Morant, ci sono comunque altri tre giocatori sopra il 22% come Brooks, Jackson e Bane e un altro non lontano come De’Anthony Melton a 19.5%, rendendo comunque l’attacco di Memphis più sfaccettato rispetto al “One Man Show” che si penserebbe guardando solo gli highlights delle sue partite. Pur tenendo tanto la palla in mano (7.4 minuti a partita, quinto in NBA), Morant usa meno di cinque palleggi per tocco (ai livelli di James Harden a Brooklyn) e tiene per sé poco più di 30 tocchi nella metà campo offensiva, piazzandosi solo al 17° posto tra le guardie che hanno la palla in mano per almeno 5 minuti a partita. Quest’ultimo dato mette in mostra anche uno dei difetti di Morant, che è fenomenale in situazioni di taglio (1.76 punti per possesso, 99° percentile) ma che tende un po’ a estraniarsi dall’azione una volta che si libera della palla, tanto che in altre situazioni canoniche off the ball come i passaggi consegnati o le uscite dai blocchi il suo rendimento è solamente mediocre.
Sotto questo aspetto, sotto quello della difesa (ancora deficitaria al netto di qualche lampo) e sotto quello del tiro in sospensione ancora da rendere completamente affidabile si giocano le sue possibilità di sviluppo ulteriore salendo al livello di categoria successivo, quello che appartiene alle vere e proprie superstar. Ma già solo il fatto che se ne stia parlando, che abbia riportato i Grizzlies a giocarsi un posto per il fattore campo al primo turno dei playoff a Ovest e che si sia confermato come il miglior giocatore del Draft 2019 sono tutti traguardi che non erano per niente scontati nemmeno tre mesi fa: il 2022 è cominciato da soli 13 giorni, ma sembra essere cominciata l’era di Ja Morant.