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Jalen Rose era avanti dieci anni
05 mag 2020
La storia e la carriera di un giocatore arrivato troppo presto per l’evoluzione del gioco.
(articolo)
25 min
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Jalen Rose apre il capitolo della sua autobiografia riguardante la sua carriera da professionista con un’ammissione: dice di aver sbagliato ad entrare in NBA con un anno di ritardo rispetto al suo compagno a Michigan Chris Webber. Al termine dell’epopea dei Fab Five il valore di Rose era al suo massimo e - per sua ammissione, quindi da prendere con la relativa cautela - sarebbe andato tra le prime sette chiamate invece che scendere alla tredicesima scelta nel Draft del 1994, quella con la quale lo selezioneranno i Denver Nuggets.

Non che all’epoca fosse strano che un giocatore aspettasse tre anni per dichiararsi eleggibile, anzi. Chris Webber fu il primo sophomore ad andare alla prima scelta assoluta quattordici anni dopo Magic Johnson. E l’anno da junior fu molto positivo per Rose, che alzò le sue statistiche in punti e rimbalzi portando Michigan a sfiorare per la terza volta consecutiva le Final Four. Ma il sostituto in quintetto per Chris Webber fu Dugan Fife, che oltre ad essere molto meno talentuoso, era un classico playmaker bianco da Big Ten, costringendo tutti i restanti Fab Five a scalare di una posizione, con Rose a ricoprire il ruolo di ala con punti nelle mani in tutto e per tutto.

Dopo le due annate a Michigan, Rose praticamente non avrebbe più giocato da playmaker per il resto della sua carriera, diventando un profilo più definito ma perdendo gran parte dell’eccezionalità polivalente del suo talento. Come spesso accadeva negli anni ‘80 e ‘90, la necessità di classificare i giocatori in modo netto ha spesso portato quelli più versatili a essere catalogati in ruoli stereotipati ma più semplici da maneggiare. Certo, c’era stato ovviamente Magic Johnson, un’altra point-guard di due metri dal Michigan, e l’anno prima Penny Hardaway era stato scelto e immediatamente scambiato proprio con Chris Webber per andare a giocare con Shaquille O’Neal a Orlando. Ma appunto rimanevano casi isolati, quasi unici, che andavano giustificati come scusandosi che il talento del giocatore in questione era talmente evidente, talmente strabordante da necessitare di libertà aggiuntive. Libertà che Jalen Rose - per sfortuna, talento o situazione tattica - non ha praticamente mai avuto in NBA e che ne ha infine condizionato la carriera tra i professionisti.

Rose è entrato in NBA con un anno di ritardo per massimizzare le opportunità sportive ed economiche che la lega gli offriva, ma rimane il dubbio di cosa sarebbe stato se fosse entrato un decennio dopo, in un basket più adatto a valorizzarne le qualità ed a smussarne gli angoli più acuti.

Perché Jalen Rose non è stato solo un grande giocatore di basket, sia al college che in NBA, ma una delle personalità più eclettiche, controverse e rivoluzionarie della palla arancione. Dall’infanzia tra i project di Detroit ai titoli statali a Southwestern, passando per il gruppo di freshman più influente della storia dell’NCAA finendo per sfiorare un titolo NBA in una delle squadre divertenti di fine millennio, Jalen Rose è stato sempre in anticipo sul resto del mondo.

Motor City

Jalen Rose nasce a bordo di una Fiat sulla strada per il Botsford General Hospital di Detroit, un ospedale dall’altra parte della città rispetto a 6 Mile e Greenlawn, il quartiere dove all’epoca viveva la famiglia Rose. La madre Jeanne, che ha già avuto due figli, sapeva quanto gli ospedali dei sobborghi fossero più puliti e sicuri di quelli dell’inner city. Solo non si aspettava che il piccolo Jalen fosse così in anticipo sulla tabella di marcia, costringendola a fermarsi a bordo strada per un parto improvvisato che - la leggenda racconta - causò a Jalen il suo caratteristico bernoccolo cadendo sull’asfalto gelido di quella mattina del 30 gennaio 1973.

Jeanne lavorava alla Chrysler e a volte dietro il bancone di un bar della zona dove Jalen andava per ascoltare i grandi classici della Motown al jukebox. Dal matrimonio precedente aveva ricevuto in dote due figli e il cognome che ancora manteneva, mentre il padre di Jalen non aveva avuto neanche quella premura. Così per per non dimenticarselo decise di chiamare il nuovo arrivato inventando un’associazione tra il nome del padre biologico, Jimmy Walker, e quello del padre putativo, suo zio Leonard, il proprietario della Fiat di cui sopra.

Jimmy Walker con la maglia dei Providence Friars con la quale divenne il miglior marcatore della stagione 1966-67, superando in volata un certo Lew Alcindor.

Solo che Jalen non sapeva chi fosse davvero suo padre, anche se in realtà non gliene importava più di tanto. Gli interessava di più giocare a basket, passare da un party all’altro e mettersi nei guai con le gang locali tra risse e piccoli furti. A causa del suo carattere focoso la permanenza in una singola scuola era da escludere e dopo parecchie tappe la sua carriera scolastica lo portò a St. Cecilia’s, uno dei santuari del basket cittadino, dove erano passati in età prepuberale anche George Gervin e Earvin non-ancora-Magic Johnson.

L’istituzione nell’istituzione era Sam Washington, non solo il direttore della parte atletica di St. Cecilia’s ma anche l’organizzatore dei maggiori tornei cittadini, dalla Pro-Am a quelli giovanili. Fu lui che un giorno, stanco dello scarso impegno profuso in campo del giovane Jalen, del quale intravedeva il talento, lo portò nel suo ufficio. E mentre Jalen temeva per la propria incolumità fisica, Washington scartabellava nei suoi archivi per trovare la bobina giusta: quella con le immagini in bianco e nero di un singolo giocatore, il due volte All-American e il due volte All-Star Jimmy Walker. Washington gli chiese se sapeva chi stesse guardando, Rose rispose ovviamente di no e quando finalmente scoprì chi fosse il suo vero genitore biologico, uscì da St. Cecilia’s con uno scopo ben preciso: doveva diventare un giocatore talmente forte e famoso che il padre non avrebbe più ignorare la sua esistenza.

Quindi sarebbe dovuto arrivare in NBA, e il modo migliore per arrivarci era passare per la Southwestern High School di Perry Watson, un’altra di quelle figure sciamaniche del basket cittadino dal quale bisognava ricevere la benedizione. Southwestern era il miglior programma liceale dello stato e sicuramente il più vincente, una tradizione che Jalen Rose si sarebbe premurato di continuare.

I Southwestern Prospectors vincono due titoli statali consecutivi negli ultimi due anni di Rose, che nel frattempo si affermerà come la migliore point guard cittadina dominando i rivali di Northern con 25 punti e 18 rimbalzi in quella che sarebbe stata la sua ultima partita tra i liceali. Lo stesso giorno annuncerà di aver accettato l’offerta di Michigan unendosi a Chris Webber, Juwan Howard, Jimmy King e Ray Jackson in quella che sarebbe stata definita come The best recruiting class ever. Con lui sarebbe sbarcato alla corte di coach Steve Fisher anche Perry Watson, diventato ormai una figura paterna per Jalen.

Long Shorts & Black Socks

Non si erano mai visti cinque freshmen così forti arrivare insieme nello stesso campus: Jimmy e Ray dal Texas, Juwan da Chicago, Chris da Detroit e Jalen l’ultimo ad arrivare a bordo della sua Dodge Shadow verde, come testimoniato anche dal numero di maglia che indosserà di lì in avanti. Erano i Fab Five, la squadra che cambiò per sempre il basket collegiale. Prima di loro i Runnin Rebels di UNLV e gli Illinois Illini avevano provato a introdurre lo stile e la mentalità di strada nelle polverose istituzioni NCAA, ma furono i cinque di Michigan a ribaltare definitivamente il tavolo. Con i loro pantaloni baggy, le teste rasate, i calzini Nike neri e le movenze uscite da un videoclip hip-hop teletrasportarono il basket collegiale lontano dalle antiche aristocrazie accademiche e dentro la modernità verso la quale tendeva anche la NBA.

Personalità forti, rumorose, larger than life dentro e fuori dal campo. In un mondo che ha sempre privilegiato il nome scritto davanti le maglie piuttosto che quello scritto dietro, erano visti come dei teppisti. Erano la squadra perfetta al momento perfetto per inserirsi delle contraddizioni generazionali dell’epoca. I fan, specialmente tra i più giovani, andavano fuori di testa per loro, i detrattori li odiavano con quell’acredine che può scatenarti solo chi mette a soqquadro il tuo intero sistema di valori.

Durante la loro prima stagione presero in prestito il motto coniato da Muhammad Ali e scioccarono il mondo, arrivando a giocarsi la finale del torneo NCAA contro i Duke Blue Devils di Christian Laettner e Grant Hill. Dopo essere andati in vantaggio all’intervallo, nella ripresa subiranno il ritorno dei campioni in carica, più esperti e abituati a un certo tipo di sfide.

Per la prima volta però dei giocatori al primo anno avevano dimostrato di potersela giocare con i più grandi, compiendo il primo passo verso l’NCAA che vediamo oggigiorno, dove i teenager scendono in campo da subito e l’idea nonnista di “aspettare il proprio turno” è andata via via scomparendo. Non conta l’età anagrafica ma il talento, e i Fab Five ne avevano in abbondanza.

E se Chris Webber era il fuoriclasse più cristallino mentre Juwan Howard il leader silenzioso, Jalen Rose era l’ideologo dei Fab Five, colui che prendeva le scelte importanti. Era quello che decideva la taglia di pantaloncini bisognava indossare (almeno due sopra, solitamente), la musica si doveva sparare nello spogliatoio (ovviamente roba Motown, molto hip-hop dalla East Coast e qualche disco di Gangsta Rap californiano) e il colore dei calzini da abbinare alle scarpe.

La prima volta che scesero in campo con i calzini Nike neri i puristi inorridirono: il bianco da sempre era il simbolo del basket collegiale, ne rappresentava l’innocenza e la limpidezza. Ma loro non erano bianchi, erano neri e orgogliosi di esserlo e, se durante la loro prima stagione si sentivano celebrati, nella seconda si sentivano sfruttati. Mentre dovevano fare la conta dei ramini per mettere insieme una cena al fast food del campus, l’università incassava milioni dalle maglie e il merchandising con le loro facce e il loro nome.

Nella nuova annata partirono tra i favoriti e, nonostante le molte scommesse sul loro fallimento, tornano a giocarsi la partita più importante della stagione contro North Carolina. Per arrivarci batterono la squadra più dominante di quel torneo, la Kentucky di Rick Pitino, in una sfida più vicina al pugilato giocando la migliore pallacanestro della loro stagione e ribaltando molti luoghi comuni.

La finale contro North Carolina sarebbe passata alla storia ovviamente per uno dei gesti più drammaticamente iconici della storia del basket collegiale, insieme al tiro di Laettner e la sedia lanciata in campo da Bobby Knight. Con Michigan sotto di due punti a meno di 20 secondi dalla sirena, Chris Webber recupera il rimbalzo sul libero sbagliato da Pat Sullivan e lo porta non senza fatica il pallone oltre la metà campo, commettendo un’infrazione di passi non sanzionata. A quel punto si ritrova incartato nell’angolo destro del campo, vicino alla panchina di Michigan e per uscire dall’imbarazzo pensa bene di chiamare un timeout. Peccato che Michigan non ne avesse più a disposizione. Risultato: fallo tecnico dei Wolverines e titolo ai Tar Heels.

L'ultima azione con i Fab Five in campo.

Fu l’ultimo atto dei Fab Five come gruppo, sciogliendosi per diventare solisti. Webber si dichiarò eleggibile al Draft e Rose, che non gli perdonò mai quel timeout, era troppo legato alla vita del college e al concetto dei Fab Five per fare immediatamente quel salto. La vera frattura tra i due grandissimi amici arrivò però quando Michigan venne colpita nel 1996 dall’inchiesta federale riguardo i soldi che un allibratore locale, Ed Martin, avrebbe allungato ad alcuni Fab Five per convincerli ad andare ad Ann Arbor.

Martin in realtà finanziava i migliori ragazzi delle high school di Detroit con soldi che arrivavano da traffici illeciti, ma l’affiliazione con il reclutamento nelle varie Università non venne mai davvero dimostrata. Chris Webber però mentì davanti al giudice su una donazione che Martin gli fece nel periodo tra la fine del college e l’inizio dell’NBA, una dichiarazione che quando venne poi sconfessata portò l’Università di Michigan a cautelarsi cancellando tutti i traguardi raggiunti dai Fab Five. I banner vennero calati dal tetto della Crisler Arena e nascosti nei seminterrati come se non fossero mai esistiti.

Per Rose, che reputa ancora quel gruppo come la sua famiglia, fu un colpo durissimo e i due da anni non si parlano più.

I primi anni in NBA

Jalen Rose si presentò al Draft del 1994 con un doppio petto gessato e con i revers a lancia color mattone, ancora oggi tra i dieci outfit più assurdi visti in Green Room. Ovviamente Jalen tutt’ora va orgoglioso della sua scelta di stile, motivata dal fatto che lui era sicuro che sarebbe stato scelto dai Los Angeles Clippers con la settima scelta e il cappellino con i loro colori sociali si sarebbe abbinato perfettamente con il suo completo. Invece i Clips scelsero Lamond Murray, del quale - sottolinea Rose - non è possibile trovare su Google una foto durante il Draft (ho provato e posso confermare). Lui finì invece ai Denver Nuggets, il cui cappellino non era un abbinamento perfetto ma neanche un totale disastro, una definizione che si può applicare anche alla sua breve esperienza in Colorado.

Le due stagioni a Denver rappresentano la sua introduzione alla vita in NBA, specialmente per un rookie a cui non vanno a genio le gerarchie alle quali obbedire e le ciambelle da portare agli allenamenti. Durante il suo primo anno i Nuggets cambiarono tre allenatori diversi, finché con il General Manager Bernie Bickerstaff in panchina chiusero la stagione in crescita arrivando ai playoff dove subirono un cappotto al primo turno dai San Antonio Spurs. L’anno successivo le cose andarono decisamente peggio e a fine stagione il front office decise di smantellare la squadra, che non vedrà più la post-season fino all’arrivo di Carmelo Anthony.

Jalen Rose venne quindi scambiato per Mark Jackson con gli Indiana Pacers, un gruppo pieno di giocatori di talento ed esperienza che però non erano mai riusciti ad uscire vivi da quel tritacarne che era la Eastern Conference degli anni ‘90. L’allenatore all’epoca era Larry Brown, per cui giocare the right way era molto diverso da quello che aveva fatto Jalen a Michigan. Prima dell’inizio della stagione lo prese da parte e gli fece capire che la sua fortuna in Indiana dipendeva esclusivamente da lui e che i pochi minuti in campo avrebbe dovuto sudarseli. Iniziarono quindi una serie di DNP per scelta tecnica e un minutaggio con contagocce che per Jalen era peggio di una tortura cinese. Addirittura quando i Pacers incontrarono in regular season i Washington Bullets, dove giocavano insieme Chris Webber e Juwan Howard, per evitare la reunion ai compagni di Michigan Brown concederà a Rose solo quattro minuti.

Larry Brown però era talmente occupato a fare mobbing su Rose da non accorgersi che la squadra gli sta scoppiando tra le mani. Due anni dopo le Finali di Conference i Pacers mancarono incredibilmente i playoff e Donnie Walsh si trovò costretto a mettere alla porta Brown, con sommo godimento di Rose.

A guidare la squadra del suo stato arrivò nientemeno che Larry Bird, il quale decise di accettare a condizione di allenare per tre anni, non uno di più, non uno di meno. Bird si innamorò immediatamente di Rose e comprese che sarebbe diventato il giocatore chiave per il salto di qualità della squadra. E Rose rispettava profondamente Bird: per prima cosa perché è stato uno dei giocatori più forti di tutti i tempi; e per seconda perché è stato uno dei trash-talker più velenosi della storia NBA. Due aspetti che Jalen considera ugualmente importanti.

Nel primo anno con Bird in panchina i Pacers tornarono subito alle Finali di Conference, dove incontrarono i Chicago Bulls di Jordan all’ultima recita. Non vi voglio spoilerare le prossime puntate di “The Last Dance”, ma Indiana diventò la prima squadra a costringere i Bulls a una gara-7 dai New York Knicks del 1992. Nella sfida decisiva Rose accende l’ultimo quarto con due canestri prima di venire panchinato per il resto della partita. Una scelta inspiegabile tanto che Larry Bird, andando a prendere l’aereo che mestamente li riporterà in Indiana, si scuserà personalmente con lui per non averlo cavalcato nel momento più caldo.

Gli highlights della partita più difficile del secondo three-peat di Jordan, con i Bulls che la vincono in rimonta affidandosi al tiro da fuori mentre Indiana si snatura in attacco per sfruttare i missmatch in post.

L’anno successivo i Pacers iniziarono i playoff con due 4 a 0 prima ai Bucks e poi ai Sixers, ma la loro strada si fermerà nuovamente alle Finali di Conference, questa volta a causa proprio dei Knicks, gli acerrimi nemici di Indiana e soprattutto di Reggie Miller.

Il nuovo millennio

In queste due stagioni Rose svolgeva prevalentemente il ruolo del sesto uomo di lusso, giocando poco più di venti minuti a partita quando Miller o Chris Mullin dovevano tirare il fiato. Nella stagione 1999/00 le gerarchie però cambiarono e Larry Bird intuì che aveva bisogno di un ulteriore creatore di gioco in campo per aiutare la circolazione del pallone nell’esecuzione a metà campo.

I Pacers erano una squadra molto moderna, che spaziava benissimo il campo potendo contare di un funambolo nel gioco lontano dalla palla come Miller, un grande passatore in Mark Jackson (tornato ai Pacers otto mesi dopo lo scambio del 1996) e lunghi in grado di allargare il campo. Il titolare era il sottilissimo olandese Rik Smits, ma dalla panchina si alzavano il veterano Sam Perkins e Austin Croshere. Avevano di gran lunga il miglior Offensive Rating della lega e macinavano vittorie durante la stagione regolare, ben 56. Jalen giocava oltre 37 minuti di media e i suoi numeri riscontrarono un prevedibile miglioramento in ogni colonna statistica. Con 18 punti a partita era il miglior realizzatore della squadra insieme a Miller, con oltre 4 assist il secondo miglior passatore, con 5 rimbalzi il quarto rimbalzista. Il suo impatto fu tangibile in ogni aspetto del gioco e, quasi come risarcimento per non essere stato invitato all’All-Star Game, venne premiato come giocatore più migliorato.

La targa gli fu consegnata prima del fischio d’inizio di gara-2 delle Finali di Conference contro, tanto per cambiare, i New York Knicks. Quella sera non uscirà mai dal campo, giocando tutti e quarantotto i minuti per consentire ad Indiana di difendere il parquet amico e andare 2 a 0 nella serie. Segna 22 punti nell’ultimo quarto di gioco di gara-3 al Madison Square Garden, ridicolizzando ogni marcatore che Van Gundy gli metterà addosso da Latrell Sprewell a Allan Houston, non riuscendo però ad evitare la sconfitta. I Knicks erano una squadra fisica, coriacea, che anche senza Pat Ewing vende carissima la pelle. Rimisero in parità la serie ma un ulteriore vittoria casalinga dei Pacers rese gara-6 al Garden una battaglia per la sopravvivenza - e quindi un’occasione irresistibile per il nemico numero uno dello stato di New York. Reggie Miller sfoderò una prestazione memorabile da 34 punti con i quali esorcizzerà i suoi demoni e regalerà ad Indiana il primo biglietto per le Finals della storia.

Magari non iconica come il choke game del 1995, ma più importante perché regala ad Indiana le sue prime Finals.

Dall’altra parte li aspettavano i Lakers di Shaq & Kobe, che avevano dovuto rimontare 15 punti in gara-7 contro i Portland Trail Blazers per arrivare anche loro alle prime Finals del nuovo millennio. La rivalità tra Kobe Bryant e Jalen Rose era sentitissima, specie da quest’ultimo, che ad un certo punto dichiarerà come Bryant in alcune notti sembra Michael Jordan e in altre Reggie Jordan.

Per un ragazzino dei project di Detroit cresciuto avendo come idoli i Bad Boys di Isiah Thomas, rovinare le feste altrui era una missione di vita. Rose amava indossare i panni dell’antagonista, se li cuciva addosso proprio come fossero un paio di calzoncini extralarge. E Bryant era esattamente l’avversario che cercava. Kobe era in piena ascesa verso il firmamento NBA e puntava al primo titolo della sua giovanissima carriera. Lui e Shaq, fresco vincitore dell’MVP stagionale, erano le due nuove stelle della lega e non a caso guidavano la squadra più hollywoodiana del pianeta. Indiana invece rimaneva attaccata alle proprie radici contadine del Midwest ed allo star-power dei Lakers opponeva la forza del gruppo.

I Pacers erano la squadra che giocava meglio, che condivideva con più generosità il pallone e che sapeva dove andare per costruire un tiro pulito a ogni azione. I Lakers però avevano i due migliori giocatori della serie e un coach in panchina che aveva già iniziato a usare la mano debole per contare gli anelli.

Dopo una prima sfida allo Staples Center nella quale O’Neal aveva spazzato via i Pacers con 43 punti e 18 rimbalzi, in gara-2 Indiana avrebbe una chance di rubare una partita in trasferta quando Kobe è costretto a uscire dal campo per un infortunio alla caviglia. O meglio, per un infortunio alla caviglia causato da Jalen Rose, che mise il suo piede sotto quello di Kobe dopo un tiro in sospensione. Anni dopo Jalen ammetterà di averlo fatto apposta, immedesimandosi un po’ troppo nel personaggio che si era costruito. Non era arrivato alle Finals per assistere all’incoronazione di Kobe & Shaq o per baciare gli anelli di Phil Jackson. Era arrivato per vincere, anche a costo di diventare un bad boy.

Solo che i Lakers trovarono un modo per vincere anche gara-2 e quel modo era Shaquille O’Neal, che chiuse un’altra volta sopra i 40 punti con 24 rimbalzi e ben 39 tiri liberi tentati, ancora oggi record NBA. Kobe saltò anche gara-3 alla Conseco Fieldhouse di Indianapolis che i Pacers vinceranno facilmente, ma tornerà disponibile per la seguente gara-4. Ed è qui che Rose farà la conoscenza di quella legge universale che gli induisti chiamano Karma.

Indiana riesce a gestire la partita senza troppi patemi fino all’inizio del quarto, quando i Lakers tornano prepotentemente in corsa per poi ingaggiare un duello corpo a corpo con continui sorpassi e controsorpassi. Con 44 secondi sul cronometro e i Lakers sopra di tre, Larry Bird disegna uno schema per trovare Sam Perkins libero dietro l’arco e Silent Sam, nel giorno del suo 39esimo compleanno, impatta la partita.

Si va al supplementare e Los Angeles sembra in controllo finché Shaq non spende stupidamente il suo sesto fallo su una palla vagante. Indiana ha una concreta possibilità di pareggiare la serie, se non fosse che in campo c’è ancora Kobe Bryant, che con tre jumper uno più complicato dell’altro segna i punti necessari per mantenere il risicato vantaggio fino alla sirena. È la partita che di fatto decide il titolo.

I 32 punti di Jalen Rose in un elimination game.

I Pacers dilagano in Gara 5 grazie anche ai 32 punti di Jalen Rose, ma allo Staples Center nella successiva sfida, pur giocando peggio, i Lakers troveranno un modo per mettere la freccia nei minuti finali grazie al talento delle loro due fuoriclasse. Nelle ultime due partite Rose segnò più punti di Kobe, con meno tiri tra l’altro, ma perse la guerra. È Bryant a vincere il primo titolo di una carriera che sarebbe poi effettivamente diventata leggendaria, mentre Rose dopo quelle Finals non riuscirà più a ripetersi a tale livello.

Dal campo al microfono

In estate Rose divenne free agent e ovviamente la sua firma era per Donnie Walsh la priorità della squadra. Gli offrì un contratto di sette anni a 93 milioni di dollari, il massimo salariale in quel momento. Rose ovviamente non ci pensò neanche un minuto e il giorno dopo aver ricevuto l’offerta si presentò in ufficio per la firma.

Attorno a lui però i Pacers cominciavano a sfiorire. Rik Smits si ritirò a causa dei tanti problemi fisici, il 35enne Mark Jackson non venne rifirmato e i due Davis, Antonio e Dale, vennero scambiati per due giovani come Jonathan Bender e Jermaine O’Neal. Ma l’assenza più pesante risulta essere quella di Larry Bird, che come aveva annunciato dopo tre anni lascia la panchina. La scelta che avrebbe garantito continuità sarebbe stata la promozione a capo allenatore di Rick Carlisle, molto apprezzato da Rose e il reale ideatore dell’attacco Pacers; Walsh invece prese un’altra direzione e ingaggiò Isiah Thomas, alla prima panchina dopo la non esaltante esperienza manageriale a Toronto.

La squadra non troverà mai la chimica giusta e rimase spaccata tra i veterani e i prospetti più giovani. Rose continuerà a giocare ad alto livello ma è evidente che l’attacco disegnato da Thomas fosse più rudimentale e non lo sfruttava al meglio. Inoltre il contratto pesante firmato dopo le Finals lo rendeva la pedina perfetta da muovere per liberare spazio salariale e iniziare una necessaria ricostruzione. Così nell’inverno del 2002 venne spedito a Chicago ed iniziò la nuova fase della sua carriera, quella da veterano con le valigie in mano.

Restò ai Bulls una stagione e spicci prima di essere mandato ancora più a nord, in Canada. Arrivò ai Raptors il tempo di veder andar via Vince Carter e soprattutto assistere dalla parte sbagliata della storia alla seconda prestazione individuale della storia della NBA. Il karma di cui sopra si abbatté nuovamente su Jalen, che dovette marcare Kobe Bryant per lunghi tratti della grandinata da 81 punti con la quale riscrisse il libro dei record. Eravamo al momento di massima separazione tra le due carriere e non erano passati neanche sei anni dal loro cavalleresco duello nelle Finals. Kobe era avviato ad altri due titoli NBA, anche se ancora non lo sapeva; Jalen ad una carriera nel broadcasting, che era anche il major con il quale si era laureato a Michigan.

Il racconto di quella partita dalle parole di Jalen.

Già nel 2007 cominciò a seguire le Finals per BET Maad Sports, mentre effettua altre due brevi soste a New York e a Phoenix. Ai Knicks ritrovò sia Larry Brown come allenatore che Isiah Thomas come dirigente, una combo micidiale che però durò poco, perché Dolan deluso dagli scandalosi risultati della squadra licenziò Brown (con cospicua buonuscita). A Phoenix D’Antoni non lo fece praticamente mai scendere in campo e Jalen aveva ormai in testa la prossima carriera davanti alla telecamera.

Proprio in quell'estate, dopo aver finito di coprire le Finals 2007, sarebbe dovuto volare a Kansas City per incontrare per la prima volta suo padre Jimmy Walker. I due si erano riavvicinati per telefono dopo anni di assoluto silenzio ed avevano concordato una visita di persona, ma proprio durante la serie tra i San Antonio Spurs e i Cleveland Cavaliers riceve la notizia che Jimmy Walker aveva avuto un infarto e non era sopravvissuto. Al funerale c'erano solo una manciata di persone, rispetto a tutte quelle che il padre aveva conosciuto nella sua rocambolesca vita, e ciò impressionò molto Jalen, e lo convinse dell'importanza di lasciare un marchio che vada oltre il basket.

Quindi appena conclusa la sua carriera in campo cominciò a collaborare con ESPN, dove incontrò Bill Simmons che se lo portò subito dietro a Grantland. I due non potevano essere più diversi: il primo un ragazzo cresciuto senza un padre tra i palazzoni di Detroit, l’altro un irlandese con l’abbonamento annuale ai Boston Celtics. Li accomunava la passione per la Golden Era dell’hip-hop, l’abilità nel raccontare le storie più assurde e la venerazione per Larry Bird. Diventarono grandi amici e Simmons, intuendone il talento, lo rese una presenza costante dei suoi podcast. Attraverso Simmons conosce David Jacoby, che negli anni diventerà il partner ideale con cui registrare lunghe chiacchierate su basket, musica e vita che diventeranno la spina dorsale del format di grande successo Jalen & Jacoby.

Jalen è perfetto per il video: ha il ghigno sulfureo che si contrae un secondo prima di lanciarsi dentro l’opinione più controversa che può trovare o nell’aneddotica personale sempre in bilico tra l’esagerazione e la lezione morale. Come spesso racconta alla fine i programmi sportivi non sono molto distanti dal trash talking, disciplina nella quale Jalen ha sempre insegnato. Anzi, non c’è neanche un arbitro a fischiarti il tecnico.

Serve preparazione maniacale, estrema sicurezza di sé e nella propria faccia tosta per scendere nell’arena televisiva. E se le cose vanno male, può servire girare con una mazza da baseball sulla spalla. Diventata ormai l’accessorio indispensabile del guardaroba di Jalen, rappresenta la chip on the shoulder che ha avuto per tutta la sua carriera, in un certo modo l’essenza della sua identità dentro e fuori dal campo di gioco.

Appena acquistò un minimo di potere dentro ESPN riuscì a realizzare il suo sogno più grande, ovvero produrre dentro la collana 30 for 30 un documentario sui Fab Five. Fu un enorme successo e per Jalen diventò il modo per restituire alla sua carriera universitaria la legacy che secondo lui l’NCAA e Chris Webber gli avevano sottratto. A ormai quasi 30 anni di distanza dal viaggio in macchina che lo portò per la prima volta ad Ann Arbor, gli anni a Michigan rimangono per Rose il risultato più importante della sua carriera sportiva, anche più di quelli in Indiana.

Il giocatore giusto nell’epoca sbagliata

Purtroppo per lui, Jalen Rose dopo Larry Bird e Rick Carlisle non ha mai incontrato un allenatore in grado di valorizzarne la versatilità e il completissimo bagaglio tecnico. Nel basket contemporaneo Rose sarebbe un iniziatore primario di alto livello, un playmaker mancino di oltre due metri dotato di un tocco morbidissimo e una notevole sagacia tattica. Ora sarebbe uno dei giocatori più ricercati, grazie alla sua capacità creare dal palleggio e spaziare il campo.

Vent’anni fa invece era un talento di difficile collocazione, tanto che anche nelle geometrie moderne di Indiana era usato più con la schiena a canestro che ad attaccare frontalmente, per sfruttare i centimetri sui diretti marcatori invece che la rapidità delle sue lunghe leve e l’abilità di leggere il gioco in movimento. D’altronde parliamo di un’epoca nella quale il pick and roll centrale, dove Rose nelle rare occasioni era estremamente efficace, erano limitate e quasi casuali. La prima opzione erano sempre i blocchi lontano dalla palla per avvantaggiare il tiratore e per liberare spazio in post, e Rose ha dovuto ritagliarsi i suoi momenti a giochi rotti o quando la sua superiorità sul diretto marcatore era talmente evidente che la palla non poteva esimersi dal finire tra le sue mani.

È un vero peccato non aver avuto la possibilità di vederlo giocare in un basket più arioso e fluido, dove molto probabilmente avrebbe avuto una carriera più significativa delle poche immagini che ci ha lasciato. Il picco di Jalen è stato breve quanto folgorante: ha dimostrato di poter giocare contro i più forti della sua generazione per poi via via, forse anche vittima di quella personalità rumorosa e spavalda al limite dell’arroganza, passare in secondo piano.

Ma se nel basket è sempre arrivato a un canestro o a un timeout dalla gloria, Rose ha vinto nella vita, come ama ripetere spesso. Un ragazzo pelle e ossa con un foro tra i due incisivi ha cambiato il basket collegiale, si è fieramente battuto contro Jordan e Bryant e ha incassato assegni in NBA per tredici anni prima di diventare uno degli analisti di punta di ESPN, un podcaster di grande successo e un filantropo nella sua Detroit. Tutto dando sempre al pubblico ciò che vuole senza rinunciare neanche per un momento a quello che è.

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