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Jaylen Brown è unico e non ha paura di esserlo
08 lug 2020
L’attivismo fuori dal campo del giovane dei Boston Celtics rende ancora più interessante la sua crescita cestistica. .
(articolo)
15 min
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Nei primi quattro giorni di partite nella bolla di Disney World la NBA permetterà ai giocatori di avere un messaggio personalizzato sulle proprie maglie al posto dei cognomi, con l’obiettivo di utilizzare il ritorno in campo come mezzo per mantenere viva la discussione e l’attenzione sui temi della giustizia sociale e del razzismo sistemico. Una notizia inizialmente accolta con favore da parte di tutti, ma che si è rapidamente sgonfiata quando la lega e l’associazione giocatori hanno deciso di stilare una lista di 29 messaggio o slogan da poter utilizzare, di cui nessuno che riprendesse i nomi di vittime della brutalità della polizia come George Floyd o Breonna Taylor — per non urtare la sensibilità delle famiglie delle vittime che eventualmente non sarebbero state ricordate.

Non tutti all’interno della NBA sono stati contenti di questa iniziativa molto interessante che è stata “corporativizzata” in maniera fin troppo restrittiva. Prendete Jaylen Brown, ad esempio: in una storia su Instagram, l’ala dei Boston Celtics aveva condiviso una foto della sua maglia numero 7 con la scritta “STRANGE FRUIT” e aggiungendo sotto: “Strange fruit hanging from the poplar trees”.

https://twitter.com/RedsArmy_John/status/1279231426974621696

Per capire a pieno la citazione, bisogna dare un po’ di contesto: “Strange Fruit” è una canzone degli anni ’30 scritta dall’insegnante ebreo Abel Meeropol (che inizialmente l’aveva messa giù come poesia sotto lo pseudonimo di Lewis Allen) e resa immortale dall’interpretazione della cantante jazz Billie Holiday nel 1939, venendo definita la canzone del secolo dalla rivista TIME nel 1999. Il testo condanna senza mezzi termini il linciaggio dei neri nel sud degli Stati Uniti con una ferocia che sarebbe sconvolgente oggi, figuriamoci nel 1939 negli USA ancora segregati.

Non è per niente un caso che Jaylen Brown — il quale, se avesse potuto, avrebbe usato “Break The Cycle”, “Results” e “Inequality by Design”, titolo di un libro del 1996 — abbia fatto una citazione del genere. Ancora prima di entrare nella NBA nel 2016 con la terza scelta assoluta al Draft, Brown si è sempre distinto per essere un giovane uomo diverso da tutti gli altri, tanto da essere definito come un “Uomo rinascimentale” nel titolo di un pezzo di The Undefeated, un articolo in cui un anonimo dirigente NBA sottolineava come — in maniera neanche troppo velatamente razzista — fosse persino “troppo intelligente per la lega e per il suo stesso bene”.

Solitamente i giocatori NBA ci mettono un po’ a rivelare la loro vera identità, a dire davvero quello che pensano o a comportarsi come vogliono. La possibilità di essere “etichettati” presto in una maniera negativa li porta, specialmente nei quattro anni del contratto da rookie, a giocare un po’ in difesa, timorosi che una parola fuori posto o un comportamento controverso possa compromettere i loro guadagni futuri, specialmente per il secondo contratto che vale decine di milioni di dollari e può cambiare davvero le loro vite per generazioni.

Jaylen Brown invece non si è mai nascosto, anzi. «Sono quello che sono, che piaccia oppure no» dice nell’intervista con The Undefeated. «Non ho intenzione di cambiare i miei valori e il mio approccio solo perché dà fastidio a qualcuno. Non ho intenzione di essere irrispettoso o scavalcare nessuno, ma continuerò a fare le mie cose e ad essere me stesso». Parole che possono sembrare di circostanza, ma il modo in cui Jaylen Brown ha condotto la sua carriera non si è mai discostato da quelle dichiarazioni — diventando presto uno dei giovani giocatori più interessanti di tutta la NBA, sia dentro che fuori dal campo.

A beautiful mind

Nei giorni immediatamente successivi alla morte di George Floyd, Jaylen Brown è stato uno degli sportivi (non giocatori NBA: sportivi in generale) più attivi in assoluto nel far sentire la propria voce. Anzi, per farla sentire ancora meglio attraverso un megafono è salito in macchina e ha guidato per 15 ore per tornare ad Atlanta, vicino alla sua città natale di Marietta in Georgia, unendosi alle proteste della sua comunità e della sua gente perché era la cosa giusta da fare, non quella più in vista. Al fianco di Malcolm Brogdon, un altro dei giovani più attivi dal punto di vista sociale, Brown ha organizzato le proteste attraverso i social media e le ha guidate per le strade della città.

Durante la diretta su Instagram a un certo punto dice: “Essere una celebrità in quanto giocatore NBA non mi esclude dalla conversazione: per prima cosa io sono un uomo nero e un membro di questa comunità”.

Cresciuto senza la presenza del padre, Brown viene da una famiglia in cui l’educazione è stata sempre messa al primo posto. “Jaylen rappresenta la quarta generazione della nostra famiglia ad essere andata al college” ha detto recentemente a The Athletic la madre Mechalle, una che pur avendo già una laurea ha continuato a crescere Jaylen e il fratello Quenton frequentando un master all’università di Michigan. Lo stesso Brown avrebbe potuto accettare le offerte arrivate sul suo tavolo da università cestistiche di primo livello come Kansas, Kentucky, UCLA, North Carolina e Michigan, di cui ha visto il campus in visita ufficiale, ma ha pagato di tasca sua per andare a vedere l’università di California Berkeley — scegliendola alla fine per il suo programma educativo. «Se avessi voluto solo giocare a basket, sarei andato a Kentucky. Ma volevo un’educazione, perciò ho scelto Cal» ha detto per spiegare la sua decisione.

A California ha subito cercato di cambiare il suo programma di studi per cercare dei corsi più difficili e impegnativi, dimostrando immediatamente di essere diverso dagli altri (la sua lettura preferita? Il libro dei morti dell’antico Egitto) e scrivendo una storia autobiografica sul suo rapporto con lo sport e il razzismo sistemico che secondo chi l'ha letta potrebbe prima o poi diventare un libro a sé stante. Le storie su quanto Brown fosse curioso e speciale sin dai tempi dell’università arrivano a livelli assurdi, tanto da spingere Hashim Ali, uno delle figure di riferimento della vita di Jaylen, a paragonarlo a un giovane Tupac Shakur, che Ali aveva incontrato quando aveva appena 19 anni. «Aveva un’aura speciale e l’ho ritrovata solo quando ho incontrato Jaylen. Avevo la sensazione che sarebbe diventato qualcosa di speciale».

Che fosse quantomeno diverso rispetto agli altri lo ha dimostrato da subito, senza assumere ufficialmente un agente per presentarsi al Draft ma affidandosi a una sorta di “consiglio ristretto” di mentori, tra cui figurano anche l’ex giocatore NBA Shareef Abdur-Rahim (nativo di Marietta e studente a Cal come lui) e la leggenda Isiah Thomas (conosciuto tramite Ali), oltre all’agente Aaron Goodwin (che lo ha aiutato a firmare con Adidas, anche se nel 2019 è stato Jason Glushon a negoziare l’estensione di contratto con i Boston Celtics a nome di Brown).

Nel corso delle sue prime stagioni in NBA Brown, potendo a malapena bere legalmente negli Stati Uniti, ha parlato ripetutamente sia al MIT che ad Harvard (criticando le disuguaglianze create dal sistema scolastico), ha rilasciato un’intervista di altissimo livello al Guardian (sottolineando come Donald Trump avesse legittimato i razzisti in giro per gli USA a farsi sentire ancora di più e dispiacendosi di non avere più la routine giornaliera nell’università di California-Berkley dove imparava qualcosa di nuovo tutti i giorni) e ha sostenuto fin da subito la battaglia di Colin Kaepernick («Lui è l’esempio perfetto di come gli atleti possano usare la loro voce: ha messo a disagio le persone. Quello è l’ingrediente più importante per me, perché per oltre 250 anni un certo gruppo di persone è stato molto più a suo agio degli altri. Ed è tempo che sentano cosa si prova a stare nei panni degli altri»).

L’intervento di Jaylen Brown ad Harvard. Rispondendo a una domanda sulla meritocrazia negli USA, Brown risponde: «Sono qui per spingere quel cambiamento a cui tu stessa aspiri. Ma non penso che sia una cosa sola mono-dimensionale. Penso che abbia molte sfaccettature e che parta dalle radici. È una cosa che cambierà lentamente e spero di vederla mentre sono ancora vivo».

Nel 2019, a soli 22 anni, Brown è diventato il più giovane vice-presidente dell’Associazione Giocatori, rappresentando i giovani della lega che sono sempre stati sotto-rappresentati all’interno della NBPA storicamente dominata dai veterani. Secondo il suo allenatore Brad Stevens «per quanto sia forte a giocare a basket, il suo più grande impatto non sarà nella pallacanestro: è un ragazzo e un leader speciale. Non solo è intelligente, ma ha coraggio e tantissime altre qualità che lo rendono ciò che è. Ce ne eravamo accorti già quando lo abbiamo scelto al Draft, ma è diventato ogni giorno più incredibile».

Il suo attivismo sociale, insomma, non è la moda dell’ultimo momento, ma una battaglia che ha sempre portato avanti sin dal primissimo momento e dalla quale non si è mai tirato indietro: «Voglio che quando le persone vedono il mio nome non pensino ‘è un giocatore NBA’. Sto cercando di abbattere le barriere che la gente ha creato riguardo agli atleti. Non sono d’accordo con quelli che dicono che un atleta non può essere intelligente, con chi pensa che siamo un gruppo di adulti virili che non sanno controllarsi. Questa è una narrativa con un retropensiero razzista che cercano di dipingere, ma che dobbiamo cambiare. Io sono un’eccezione del quartiere da cui provengo, uno che è riuscito a evitare le barriere che mantengono i privilegiati nel privilegio e i poveri nella povertà, ma perché dovrei dimenticarmi delle persone che non hanno avuto le mie stesse opportunità? È per questo che mi identifico come attivista almeno tanto quanto mi identifico nell’essere un giocatore NBA».

I miglioramenti mentali di questa stagione

Brown però è anche un giocatore NBA, e uno la cui evoluzione sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista mentale è estremamente interessante. Dopo un anno da rookie in cui aveva fatto intravedere tutte le sue qualità ma senza avere continuità di impiego e rendimento, Brown è stato uno dei giocatori chiave per i sorprendenti Celtics capaci di arrivare a una vittoria dalle Finals NBA nel 2018, ricoprendo un ruolo fondamentale insieme a Jayson Tatum. Il ritorno di Kyrie Irving e Gordon Hayward nel 2018-19 ha però provocato il ridimensionamento del suo ruolo tanto da farlo retrocedere in panchina, una situazione che ha faticato a gestire e ad accettare anche pubblicamente, criticando lo stile di leadership non inclusivo di Kyrie Irving e definendo come “tossico” lo spogliatoio dei Celtics.

Brown non ha neanche nascosto le sue difficoltà e ha parlato apertamente dello stress, dell’ansia e dei dubbi che hanno cominciato ad accumularsi nella sua testa mentre le altissime aspettative che c’erano su di lui e sulla squadra non venivano attese. «La mancanza di fiducia uccide i sogni e le carriere di tutti, che siano legate al basket oppure no. Nel momento stesso in cui smetti di credere in te stesso, sei finito» ha detto recentemente a proposito della scorsa stagione. «Mi sono sentito messo alla prova come mai era successo prima. Ho dovuto imparare a silenziare la voce che avevo nella mia testa. Tutti su questo pianeta ce l’hanno, non è una cosa che ho provato solamente io. È quella che ti dice che ti devi fermare, che devi smetterla, che non devi più andare avanti. E l’anno scorso l’ho sentita maggiormente rispetto a quanto mi fosse mai successo. Perciò ho dovuto imparare a zittire quella ca…o di voce perché mi stava facendo arrabbiare».

Una difficoltà notata anche dai suoi compagni di squadra: «La scorsa stagione è stata dura per tutti, ma per lui in particolare» ha detto Marcus Smart. «Ha la testa dura e vuole sempre giocare al massimo. È la cosa bella di Jaylen, che è competitivo da morire, ed è un bene che voglia diventare un grande giocatore. Ma quando non ci riesce, si arrabbia da matti con se stesso».

Tra le cose che lo fanno arrabbiare: il tè degli alberghi “fa schifo”, come detto in questa intervista con GQ.

Brown quindi ha dovuto imparare a gestire lo stress, ma ha soprattutto cominciato a pensare il meno possibile alle sue statistiche, al suo ruolo e alle opinioni degli altri su di lui. Aver firmato un’estensione di contratto da 115 milioni di dollari certamente ha aiutato a togliergli un po’ della frenesia che lo contraddistingueva in campo, come se dovesse sempre dimostrare qualcosa ogni volta che toccava il pallone. Unatteggiamento mentale che lui stesso ha ammesso. «Più gli atleti credono che le opinioni degli altri contano, e più devono fare i conti con i cambi di umore, la pressione, l’ansia, lo stress e tutto il resto. Io ora non lo sento più perché devo solo essere pronto a giocare. Non mi interessa se non vengono chiamati schemi per me: vado in campo e gioco. Vada come vada. Questo atteggiamento finora ha funzionato». Un cambio di mentalità che lui associa anche a quello di look: «Da quando mi sono tagliato i capelli ho smesso di fregarmene. Uno dei motivi per togliere il flat-top è stato lasciar perdere tutto quanto. Questo sono io, a me sta bene così e non mi interessa niente delle opinioni degli altri su di me».

La chiave di volta dei Celtics

Effettivamente quest’anno Brown sembra decisamente più a suo agio sia con se stesso che con il resto della squadra, i cui destini sono tornati a passare anche dalle sue mani. Innanzitutto ha ritrovato il suo posto in quintetto fin dal primissimo giorno e con esso la fiducia del coaching staff, che lo ha utilizzato per 34 minuti a partita. La nuova gerarchia della squadra, che vede Kemba Walker come leader più collaborativo rispetto a Irving e Jayson Tatum come superstar ormai acclarata, gli permette di agire come terza opzione offensiva contro difese spesso concentrate sui suoi due compagni di squadra, permettendogli di avere spazi maggiori in cui attaccare o tiri a maggiore percentuale.

Brown magari non avrà effettivamente dei giochi chiamati per lui da Brad Stevens, ma si prende comunque oltre 15 tiri a partita (di gran lunga il suo massimo in carriera) e produce oltre 20 punti a sera con il 49% dal campo e il 38% da tre punti, che diventa 41.6% considerando solo le triple sugli scarichi dei compagni e il 43.7% in quelle con più di due metri di spazio (su quelle dal palleggio invece c’è ancora molto da lavorare, visto che le converte il 30.4%).

Brown è anche uno l’unico slasher di livello nel roster di una squadra che vive molto delle sue conclusioni perimetrali, come testimonia il numero mediocre di tiri al ferro prodotti e di liberi tentati. Il prodotto di California sembra aver migliorato la sua pazienza e la sua efficacia nei pressi del ferro. sebbene i numeri siano più o meno in linea con quelli registrati nei suoi primi tre anni di carriera, toccando il massimo con il 71% al ferro ma su un numero di tentativi inferiore rispetto al passato, a differenza dell’innalzamento in quelli nel resto del pitturato.

Tre azioni dal suo ottimo primo quarto contro Houston, in una partita poi portata all’overtime da una sua tripla allo scadere. Prima impone il fisico su Danuel House; poi alza la parabola con grande tocco in avvicinamento a canestro; infine spazza via anche uno come PJ Tucker.

Dove certamente è migliorato è nella calma con cui gestisce le situazioni offensive in palleggio e nel playmaking, anche perché era difficile fare peggio rispetto alla frenesia con cui a volte sembrava muoversi in campo, commettendo errori che sarebbero stati evitabili con un po’ più di raziocinio. Brown non è ancora una di quelle ali a cui poter affidare il pallone per gestire un attacco a metà campo su base continuativa, ma non è neanche il ruolo che gli viene richiesto ora o che gli verrà richiesto in futuro se continuerà a giocare insieme a Tatum. Il suo ball-handling è però migliorato abbastanza da renderlo efficace quando può attaccare una difesa già mossa, specialmente se continuerà a mantenere certi tipi di percentuali nel tiro perimetrale — costringendo i difensori avversari a uscire forte su di lui e aprendo il suo gioco in avvicinamento a canestro, dove spesso può sfruttare un notevole vantaggio di chili nei confronti degli avversari.

Anche se non sembra, infatti, Brown è la chiave che permette a Stevens di giocare piccolo, grazie alla sua stazza e alla sua capacità di marcare giocatori ben più grossi di lui come Anthony Davis, Kristaps Porzingis o Pascal Siakam. In una squadra che comunque è decisamente adatta a cambiare difensivamente su tutti i blocchi grazie anche alla presenza di Marcus Smart, Brown ne è uno dei grimaldelli grazie alla sua poliedricità in difesa. Secondo le statistiche di Seth Partnow di The Athletic, la sua versatilità difensiva ha permesso a Tatum di concentrarsi maggiormente sul suo gioco offensivo, dando a Brown il compito di marcare i punti focali degli attacchi avversari.

Il futuro di Jaylen Brown, allora, sembra essere proprio questo: quello di un “Pippen” che svolge un ruolo complementare ma fondamentale nel funzionamento della squadra tanto in attacco quanto in difesa, prendendosi in carico il miglior attaccante avversario e lasciando al “Jordan” Tatum il compito di mettere punti a tabellone e piegare su di sé le difese per aprire spazi ai suoi compagni, a partire dallo stesso Brown. Quando i Celtics si sono accorti di aver scelto due potenziali All-Star ai Draft del 2016 e del 2017 si aspettavano che prima o poi la squadra sarebbe finita nelle mani di Jayson e Jaylen. Ora — al netto della presenza di altri giocatori di grosso rilievo come Walker, Smart e Hayward — quel momento sembra essere arrivato, e Brown vuole approfittarne al massimo.

«All’inizio non volevo andarci, ma ora sono convinto che giocare a Orlando e mantenere viva la conversazione sulla giustizia sociale sia la cosa giusta da fare. Perché la luce che stava illuminando certi argomenti si sta affievolendo, e invece è nostro compito far sentire la nostra voce e mantenerla sempre accesa. Il razzismo che viene colto dalle telecamere viene percepito come il problema, ma va molto più in profondità di così — nell’educazione, nelle cure mediche e in tantissimi altri ambiti della vita di tutti i giorni. E lo stesso vale per la brutalità della polizia: si tratta solo della punta dell’iceberg».

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